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Gli effetti perversi del paradigma della modernizzazione in agricoltura

DALLA PARTE DEI CONTADINI TRA LE COSTRIZIONI DELLA MODERNIZZAZIONE E LA RESISTENZA DELLE ALTRE AGRICOLTURE

2.1 Gli effetti perversi del paradigma della modernizzazione in agricoltura

A partire dalla seconda metà del Novecento, gli stessi principi alla base delle dinamiche che a livello globale hanno condotto ad un paradigma di sviluppo basato sulla crescita economica hanno fatto breccia anche nel sistema agroalimentare con l‘affermarsi della teoria della modernizzazione. Ciò che è stato definito da Desmarais (2009: 57) come ―invadente globalizzazione di un modello di agricoltura industriale‖ è stato caratterizzato principalmente da quattro tendenze di sviluppo che sono avanzate parallelamente ed in maniera complementare: l‘innovazione delle tecniche agricole, un maggiore investimento di capitali nella produzione, la specializzazione produttiva (rappresentata dall‘estendersi delle monocolture) e quella territoriale (Colombo 2002: 156). Tramite la diffusione di questo modello produttivistico che – basato sulla meccanizzazione, la specializzazione, l‘intensificazione dei processi produttivi e una sempre crescente industrializzazione – costituisce l‘anima dell‘Impero caratterizzante l‘attuale regime agro-alimentare, il settore agricolo ha finito per dipendere in maniera sostanziale da fattori esterni in ogni fase del processo produttivo.

Il processo di diffusione dell‘agricoltura industriale tramite la modernizzazione, si

configura come una ―guerra alla sussistenza‖53 poiché svaluta le pratiche agricole

tradizionali fondate sulla cultura e sui saperi locali e porta i contadini a passare dalla sussistenza all‘agricoltura commerciale, rendendoli sempre più dipendenti sia dalle tecnologie che dagli inputs e dai beni industriali di importazione (Desmarais 2009: 66).

L‘agricoltura industriale, ―la migliore sintesi della forzatura dei sistemi ecologici orientati alla spinta della produttività‖ (Colombo 2002: 68), ha provocato innumerevoli problemi sia all‘esterno che all‘interno del settore agricolo, causati sostanzialmente da un utilizzo non equilibrato delle risorse e dalle pressioni esercitate sui sistemi produttivi spinti dalla ricerca

53 Robert J. (1993), ―Production‖ in Sachs W. (a cura di), The Development Dictionary: A Guide to Knowledge as

della massima produttività. Questo modello di agricoltura – con ragione definito ―minerario‖ da Onorati (2009: 135) proprio per la sua proprietà di ―togliere più di quanto offre‖ – viene propugnato quale moderno, efficiente e capace di produrre cibo abbondante ed economico, ma dietro questa retorica si celano dei costi insostenibili che divengono sempre più visibili: l‘erosione dei terreni, l‘inquinamento delle acque, la riduzione degli habitat per le specie selvatiche, il complessivo degrado delle altre componenti del capitale naturale e di quello sociale, la disgregazione delle comunità rurali, la riduzione dell‘occupazione agricola, la dispersione delle famiglie (Colombo 2002: 156).

L‘intensificazione del processo produttivo ha indotto un alto livello di integrazione dell‘agricoltura con l‘industria, sia a monte (meccanizzazione, pesticidi e concimi chimici) che a valle (trasformazione, imballaggio, trasporti, distribuzione), e ciò ha provocato un radicale cambiamento rispetto ai metodi tradizionali di fare agricoltura, specifici rispetto ai diversi contesti locali di produzione e distribuzione. Numerosi cambiamenti si sono verificati in seguito alla progressiva meccanizzazione che, da un lato, ha accresciuto la dipendenza energetica del settore agricolo e, dall‘altro, ha ridotto il controllo dei contadini sulle risorse produttive e sulla loro riproduzione. Ad esempio, quando l‘uomo lavora con la trazione animale, la sua autonomia è maggiore poiché provvede da solo a nutrire il bestiame con la propria produzione, mentre con le macchine è costretto a ricorrere ad un‘energia non rinnovabile, ad un prezzo che non può controllare. Un altro esempio è dato dalla costruzione dei mezzi di lavoro: per molto tempo i contadini, e successivamente anche degli artigiani specializzati che abitavano gli stessi luoghi, hanno costruito i propri attrezzi ed erano in grado di ripararli; con la meccanizzazione, i contadini perdono il controllo anche sulla capacità di apportare modifiche tecniche. La modernizzazione agricola ha portato anche alla scomparsa della maggior parte delle attività collettive: sarchiatura, trebbiatura e raccolta vengono progressivamente meccanizzate e alcuni lavori vengono affidati ad imprese esterne o si ricorre a salariati che non sono integrati nel territorio. Gli agricoltori sono portati a vivere sempre più in un rapporto di concorrenza piuttosto che di complementarietà. Inoltre, attraverso la rivoluzione dei trasporti e la progressiva liberalizzazione del commercio che ha rotto l‘isolamento delle aree agricole del mondo mettendole in concorrenza tra loro, il contadino si è trasformato in ―dispensatore di qualche prodotto per il mercato‖ (Pérez-Vitoria 2007: 78).

La modernizzazione agricola ha prodotto un graduale effetto di despachamamamización54,

ossia lo sganciamento della produzione agricola dalla terra che, a sua volta, ha causato un processo di degradazione dei suoli, dei rapporti sociali e dello stesso legame tra natura e società. Per comprendere tale concetto, è fondamentale far riferimento alla specificità del processo produttivo in agricoltura che consiste nel fatto che gli oggetti di lavoro sono costituiti da natura viva.

Qualcuno ha pensato che si potesse industrializzare la natura, che però non può essere trattata come un settore come gli altri perché, con i suoi ritmi e le sue logiche, si fonda su qualcosa di vivo (Pérez-Vitoria 2010: 107).

L‘attribuzione della funzione di oggetto di lavoro ai fattori ―vivi‖ della natura presuppone un contesto specifico, che varia nello spazio e nel tempo. Come afferma Van der Pleog (2006: 20), anche la produzione di valore attraverso la combinazione di questi elementi possiede una ―determinazione contestuale‖. Parte fondamentale del contesto è costituita dai rapporti sociali entro cui si realizza il processo produttivo, i quali pongono in essere, oppure ostacolano, il processo lavorativo stesso. Con la modernizzazione, anche i rapporti sociali vengono sconvolti.

Nell‘insieme questi fattori hanno prodotto l‘immagine del declino del ruolo della produzione primaria e un diffuso spopolamento rurale, manifestatosi in massicce migrazioni verso le città o le zone più ricche del pianeta e un incremento della

disoccupazione55.

Per comprendere a fondo le ragioni di un tale fenomeno, occorre far riferimento al connubio tra due elementi che ―compongono uno spazio in cui diverse possibilità diventano disponibili‖: il mercato e la tecnologia (Ploeg van der 2006: 40).

Il mercato ha avuto un‘influenza totalizzante sul sistema agro-alimentare globale: un mercato aperto a senso unico per i contadini del Sud che non hanno possibilità di proteggere le proprie attività dalle politiche di incentivazione all‘esportazione da parte del Nord (Colombo 2002: 160). Negli ultimi trent‘anni l‘integrazione dell‘agricoltura contadina nel mercato si è notevolmente amplificata. Le politiche di liberalizzazione avanzate a partire dagli anni Ottanta, i programmi di aggiustamento strutturale di BM e FMI, nonché l‘ingresso dell‘agricoltura nella WTO, hanno contribuito a questa accelerazione della

54 Questo termine deriva da Pachamama, concetto utilizzato dagli indigeni Quechua in America Latina per

definire la ―terra madre‖ (Ploeg van der 2006: 139).

55 Ad esempio, nel 1920 gli Stati Uniti d‘America contavano circa 6,5 milioni di aziende; ottant‘anni più tardi il

numero è sceso a 2,13 milioni. In Canada negli anni Quaranta erano presenti 731.000 aziende agricole familiari, che si sono ridotte ad un terzo agli inizi del secolo successivo (Desmarais 2009: 63).

mercificazione dell‘agricoltura e alla distruzione dell‘autonomia dei contadini e delle nazioni. Il ―grado di mercificazione‖ che definisce l‘intensità del rapporto con il mercato, si riferisce in particolare alle modalità di ottenere e riprodurre le risorse necessarie al processo lavorativo: quanto più un‘azienda risulta integrata nel mercato, tanto più dovrà seguirne le logiche produttive e riproduttive; quando l‘azienda è distanziata dal mercato, può seguire altre logiche e quindi tende ad integrarsi maggiormente in circuiti che non dipendono direttamente dal mercato (Ploeg van der 2006: 41). Dal momento che prezzi e quantità sono imposti dalle forze di mercato, la crescente integrazione nel mercato mondiale rende gli agricoltori incapaci di controllare le condizioni di vendita dei propri prodotti.

Il risultato è che il rapporto tra il costo di una produzione agricola e il suo prezzo di vendita è sempre meno congruo. Sovvenzioni e politiche di dumping, sovrapproduzioni o penurie, distorsioni della libera concorrenza, speculazioni, tutti questi fenomeni contribuiscono a trasformare il prezzo dei prodotti agricoli in una vera e propria ―scatola nera‖. Per il produttore, l‘insicurezza è permanente. Il ricavato può cambiare da un giorno all‘altro se non da un‘ora all‘altra e la sua produzione non è mai la stessa da un ciclo produttivo al successivo. Quanto agli ―intermediari‖, si assicurano generalmente sul rischio, trasferendolo sui coltivatori (Pérez-Vitoria 2007: 114).

L‘espressione squeeze on agriculture, utilizzato per definire lo scarto decrescente tra i ricavi ed i costi, diviene espressione del carattere strutturale della crisi agraria. Infatti, la capacità di guadagnare si riduce progressivamente poiché, stretti in una morsa di costi e prezzi che riducono i margini di guadagno in quanto i costi degli inputs aumentano mentre i prezzi al produttore diminuiscono drasticamente, gli agricoltori vedono precipitare i loro redditi e sono portati ad abbandonare le zone rurali e le loro abituali attività produttive (Ploeg van der 2006). Desmarais (2009: 89) riporta il caso canadese: tra il 1996 e il 2001, i prezzi all‘agricoltore erano scesi del 27%, mentre il costo degli inputs era salito in media dell‘8,5%; il numero di occupati in agricoltura si era ridimensionato di oltre il 27% nello stesso periodo; conseguentemente, il numero delle aziende agricole, già ridottesi di un quarto nei venticinque anni precedenti, era sceso ancora del 10,7%. Si può, dunque, affermare con Pérez-Vitoria (2007: 115) che la liberalizzazione degli scambi agricoli è diventata, oggi, la principale ―politica d‘estirpazione della società contadina nel mondo‖.

Il potere del mercato non avrebbe potuto essere tale senza il progresso tecnologico che, soprattutto sottoforma di meccanizzazione e introduzione di inputs chimici, ha rappresentato la forza motrice dell‘industrializzazione e della mondializzazione. Van der Ploeg (2006: 23) parla, a tal proposito, di ―regime tecnologico‖. Dal rapporto con le tecnologie dipendono numerosi fattori nell‘organizzazione del processo produttivo e dell‘azienda agricola. Lo sviluppo tecnologico comprende attività volte a produrre,

trasformare, combinare, testare e adattare nuovi elementi materiali e immateriali nel processo produttivo. Con l‘introduzione di una nuova tecnologia ci si attende automaticamente un miglioramento, ma spesso le tecnologie non sono del tutto idonee per essere immediatamente applicate ed incorporate, per cui bisogna procedere ad una totale riorganizzazione dell‘azienda stessa in un processo di ricostruzione e trasformazione (Ploeg van der 2006: 44-5).

Considerando la tecnologia come ―combinazione specifica di saperi, risorse produttive, inputs e servizi applicati sistematicamente per fornire il prodotto desiderato‖ (Reijntjes, Haverkort, Waters-Bayer 1995: 11), si possono distinguere diverse configurazioni che danno luogo a sistemi unici e specifici. In particolare, Van der Ploeg (2006) riprende lo

studio di Francesca Bray56 sulla differenza tra skill-oriented technologies e mechanical technologies:

nel primo caso, i mezzi di produzione sono semplici, ma occorre una complessa e dettagliata conoscenza per un‘adeguata applicazione; le seconde prevedono dei mezzi di produzione molto complessi, ma che non richiedono eccessive conoscenze da parte degli utilizzatori. Col progredire della meccanizzazione si assiste ad un passaggio dal primo al secondo tipo di tecnologia e, di conseguenza, ad una forte repressione dei saperi locali e dell‘autonomia decisionale e gestionale dei contadini.

Si viene a configurare, infatti, un vero e proprio conflitto tra i saperi locali contadini e il potere della scienza. I saperi e le abilità dei contadini vengono svalutati a favore di una cultura scientifica e tecnologica monopolizzata da specialisti del settore. Commettendo errori, tornando sui propri passi, migliorandosi di volta in volta e confrontandosi tra loro, i contadini sono stati capaci di produrre nel tempo continue innovazioni per fronteggiare i problemi incontrati lungo il cammino. Di generazione in generazione, negli ecosistemi diversificati in cui sono vissuti, i contadini hanno trasmesso i saperi all‘interno delle famiglie e delle comunità di appartenenza. Come afferma Pérez-Vitoria (2007), nella maggior parte dei casi tali saperi erano integrati in una ―visione cosmologica del mondo‖ e perciò capaci di tutelare la biodiversità e gli agroecosistemi che contribuivano a realizzare in armonia con l‘ambiente. Il processo di modernizzazione dell‘agricoltura che ha sminuito le conoscenze degli agricoltori, ha operato delle pesanti costrizioni nei confronti dei contadini, facendo perdere loro ogni autonomia e il riconoscimento del proprio sapere.

56 Bray F. (1994), The Rice Economies: Technology and Development in Asian Societies, University of California Press,

L‘oggetto del conflitto tra saperi ―tradizionali‖ e saperi ―scientifici‖ riguarda la diversa concezione della natura: mentre per i primi la natura si inserisce in una visione del mondo in cui l‘uomo è parte integrante della natura, per i secondi l‘uomo può separarsi dalla natura attraverso la tecnologia e dominarla; pertanto, mentre i primi hanno un carattere prettamente locale, vale a dire che si sviluppano in e si adattano ad un determinato contesto locale, i secondi hanno un carattere generalizzabile che pretende di essere universalmente valido per ogni situazione. Il ―sapere della terra‖ viene progressivamente trasferito ―dalle fattorie alle scuole e alle istituzioni specializzate‖ e la ricerca agronomica si separa dalla

realtà sociale ed economica della società contadina (Pérez-Vitoria 2007: 77). Mary Beckie57

afferma che nell‘agricoltura convenzionale gli agricoltori sono visti come ―ricettori delle conoscenze dispensate dagli esperti‖ e quindi la pratica agricola diventa un ―esercizio tecnico di produzione‖ che può essere modificato e migliorato grazie ad innovazioni scientifiche e tecnologiche.

L‘―asportazione‖ dei saperi dal mondo contadino per farne oggetti da laboratorio ai soli fini del profitto ha avuto conseguenze umane e ambientali senza precedenti. La violenza esercitata dalla scienza contro la natura è pari a quella perpetrata dai poteri dominanti contro le società contadine (Pérez-Vitoria 2007: 177).

Dall‘analisi dello sviluppo rurale operata da Van der Ploeg, emergono gli effetti nefasti della prevaricazione della conoscenza scientifica nei confronti di quella locale. Non si può negare che la scienza abbia apportato anche notevoli miglioramenti nel processo produttivo nei casi in cui le conoscenze scientifiche sono andate incontro agli agricoltori suggerendo buone prassi (ad esempio, nel caso di policolture, l‘opportunità di associare determinate colture piuttosto che altre per evitare contrasti e favorire la produzione). Nonostante forti limiti di riduzionismo, l‘agronomia convenzionale ha apportato un contributo allo sviluppo agricolo. A porre problema è il modo in cui è stata applicata, cioè in maniera isolata e senza porsi scrupoli per le conseguenze sociali ed ambientali. Ad avviso di Bové e Dufour (2001), si tratta di un problema di organizzazione della ricerca e di formazione degli scienziati: la ricerca si svolge in modo frammentario; esiste una separazione assoluta tra discipline e anche all‘interno della ricerca che segue le diverse branche del settore agricolo; i ricercatori non effettuano una riflessione globale sul loro mestiere, ma hanno una visione utilitaristica del mondo; inoltre, gli stretti legami che connettono i centri di ricerca agronomici e le industrie, rendono la maggior parte dei ricercatori gli alleati delle politiche di distruzione

57 Beckie M. (2000), Zero Tillage and Organic Farming in Saskatchewan: An Interdisciplinary Study of the Development of

della società contadina. Per questo insieme di motivi, i due ―agricoltori rivoluzionari‖ parlano di un sistema tecnico che impone le proprie regole. Servendosi di questo sistema,

gli expert systems58 ―organizzano la produzione di conoscenza e producono la reificazione del

mondo‖, lasciando dietro di sé non più i processi, ma soltanto il mercato e la tecnologia (Ploeg van der 2006: 76).

Reijntjes, Haverkort e Waters-Bayer (1995: 36-8) hanno individuato le principali implicazioni dei sistemi di produzione concepiti e incoraggiati dalla ricerca agricola convenzionale: la concentrazione su pochi prodotti per massimizzare la produzione; l‘orientamento verso il mercato; l‘indifferenza nei confronti delle ripercussioni sull‘ambiente; il disinteresse verso le risorse locali; i pregiudizi sessisti, ossia il mancato riconoscimento del ruolo determinante delle donne nei sistemi familiari di produzione; la negligenza delle conoscenze e dei saperi degli agricoltori locali; la diffusione di ―prodotti‖ o servizi incompleti, cioè che non rispondono all‘insieme dei bisogni ma che tendono ad affrontare singoli problemi di natura prettamente tecnica.

Essendo l‘agricoltore espropriato delle proprie capacità gestionali, fondate sulle conoscenze acquisite nel tempo e sulla propensione a sperimentare per migliorare le condizioni produttive, dalla modernizzazione emerge un modello economicista e produttivistico che si basa sulla figura dell‘―agricoltore virtuale‖ e sulla standardizzazione dei processi produttivi (Ploeg van der 2006: 49). Con lo scopo di aumentare i rendimenti attraverso la predisposizione di monocolture, la specializzazione produttiva ha notevolmente contribuito ad accentuare i problemi ambientali e le disuguaglianze tra contadini, incrementando i rischi legati, ad esempio, alle malattie delle piante o alle intemperie. Crescenti forme di specializzazione – sostenute dalle politiche agricole nazionali, dalle istituzioni finanziarie e dall‘Organizzazione Mondiale del Commercio – si sono instaurate all‘interno di vasti territori tradizionalmente vocati alle colture alimentari,

causando la distruzione della fertilità di milioni di ettari di terreno59 e destabilizzando gli

ecosistemi, il lavoro e l‘organizzazione sociale.

La modernizzazione agricola ha profondamente alterato anche il concetto stesso di cibo e di agricoltura. Mentre agli inizi del ventesimo secolo produzione e consumo erano ancora strettamente connessi e gli agricoltori reperivano gli inputs necessari e controllavano ogni

58 Espressione con cui vengono indicati enti di ricerca, università e ministeri dell‘agricoltura.

59 Nell‘ultimo sessantennio si è assistito al progressivo degrado del suolo a causa di pratiche agricole non

sostenibili, tanto che secondo la FAO nel mondo si perdono circa 7 milioni di ettari l‘anno di terreno coltivabile e nei prossimi vent‘anni 140 milioni di ettari potrebbero essere privati del loro valore agronomico (Colombo 2002: 71).

stadio della produzione, realizzavano in azienda alcuni processi di trasformazione ed erano direttamente collegati con i consumatori, il sistema alimentare moderno ha fatto sì che la produzione fosse separata dal consumo e ha aperto le porte a nuovi attori per controllare le varie tappe della produzione. Desmarais (2009) propone l‘immagine del sistema alimentare come una lunga catena che nel corso del tempo si è progressivamente allungata separando sempre di più la produzione dal consumo a favore delle multinazionali dell‘agribusiness.

L‘industrializzazione in campo alimentare ha innescato l‘esplosione dei rapporti tra produzione, trasformazione e consumo, restringendo il campo di attività del contadino – divenuto ―fornitore di materie prime per l‘industria‖– e trasferendo il valore dai campi alle corporations, ―contaminando a monte l‘insieme della filiera agricola‖ e ―costringendo sempre più il vivente a sottostare a leggi antinaturali‖ (Pérez-Vitoria 2007: 87-8). Per indicare il processo di integrazione, consolidamento e concentrazione nel settore agroalimentare, Heffernan, Hendrickson e Gronski (1999), parlano di food chain clusters (―catena alimentare a grappolo‖) capace di controllare ogni passaggio del cibo dalla terra alla tavola dei consumatori.

In a food chain cluster, the food product is passed along from stage to stage, but ownership never changes and neither does the location of the decision-making. Starting with the intellectual property rights that governments give to the biotechnology firms, the food product always remains the property of a firm or cluster of firms. The farmer becomes a grower, providing the labor and often some of the capital, but never owning the product as it moves through the food system and never making the major management decisions (Heffernan, Hendrickson e Gronski 1999: 3).

L‘agricoltura industriale – distruttrice dell‘ambiente, del lavoro e della qualità – ha instaurato un ―rapporto di consumo nei confronti della natura‖ (Pérez-Vitoria 2007: 175), esacerbando dei problemi ambientali quali: la disponibilità limitata di terra, la crescente desertificazione, i problemi legati all‘irrigazione, nonché l‘insorgere di fenomeni di resistenza ai pesticidi da parte di molti parassiti a causa della scomparsa dei loro antagonisti naturali (Colombo 2002). Obiettivo fondamentale dell‘agroindustria, infatti, è quello di ottenere profitti immediati, e per raggiungerlo tutti gli sforzi sono volti ad assicurarsi i più alti rendimenti nel minor tempo possibile, a discapito di un equilibrio tra attività agricola e condizioni ambientali, senza preoccuparsi quindi delle conseguenze nefaste su territori e comunità.

Un simbolo di questa logica perversa è rappresentato dalla questione dei semi e dei brevetti sul vivente. Le compagnie sementiere si sono introdotte nei processi produttivi sviluppando varietà di semi ad alta resa legate ad un pacchetto tecnologico completo,

definendo un ―colpo messo a segno dalle multinazionali dell‘agribusiness: portare via i semi dalle mani degli agricoltori alimentando l‘accumulazione di capitale industriale‖ (Desmarais 2009: 61). Il seme, ―fonte del rinnovamento ed emblema del piccolo che incarna il tutto‖ (Shiva 2007), è stato per secoli alla base di un minuzioso lavoro di selezione, sperimentazione, riproduzione e scambio, divenendo veicolo e depositario di cultura e storia per le comunità contadine in ogni angolo del mondo. Poiché ―chi controlla i semi controlla l‘agricoltore‖ (Desmarais 2009: 71), l‘importanza di questa fondamentale materia prima per l‘industria agro-alimentare spiega perché molta parte della ricerca e dello sviluppo nelle biotecnologie si sia concentrata sull‘ingegneria genetica dei semi. A partire dal