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DALLA PARTE DEI CONTADINI TRA LE COSTRIZIONI DELLA MODERNIZZAZIONE E LA RESISTENZA DELLE ALTRE AGRICOLTURE

2.2 La resistenza delle altre agricolture per uno sviluppo rurale sostenibile

2.2.1 Il modo di produrre contadino

Le risposte che provengono dalle ―altre agricolture‖ costituiscono nel loro insieme un progetto di agricoltura sostenibile che può essere sintetizzato nel ―modo di produrre contadino‖, che si dipana in una molteplicità di pratiche. Per riprendere una metafora utilizzata da Bové e Dufour (2001: 127):

Per noi l‘agricoltura contadina è come una margherita con tutti i suoi petali. Tutto è coerente: lo statuto di contadino, la rendita e la divisione del lavoro, la qualità dei prodotti, la possibilità di lasciare in eredità l‘azienda agricola, il rispetto delle risorse naturali, l‘equità dei rapporti Nord-Sud. Tutti gli elementi che compongono questa margherita sono indissociabili. Quando manca un petalo, c‘è squilibrio. Ma non è un ―modello‖, è una pratica, un‘altra filosofia del mestiere.

L‘agricoltura contadina ha un ruolo a tutto tondo e sarebbe riduttivo considerarla solo quale mezzo per ottenere cibo e reddito senza degradare l‘ambiente, poiché bisogna far riferimento anche agli impatti che essa produce sulle comunità, dunque alla sua rilevanza sociale. Infatti, come ricordano Bové e Dufour (2001), le pratiche di agricoltura economicamente e socialmente sostenibili, rispondendo alla triade dell‘agricoltura ―produrre, dare lavoro e preservare‖, hanno il fine di rispondere all‘insieme dei bisogni della società: il bisogno alimentare di cibi sani e di qualità; il bisogno di rivitalizzare l‘ambiente rurale fornendo adeguati beni e servizi in termini di ambiente, paesaggio e gestione del territorio; un bisogno di qualità e diversità dell‘ambiente rurale. L‘agricoltura contadina è dunque definita da un perimetro ed un approccio: il perimetro (o spazio di ricognizione) definisce l‘attività contadina a partire dai suoi effetti, diretti o indiretti, interni o esterni all‘azienda, precisando i confini di questo tipo di agricoltura; l‘approccio rappresenta il senso, l‘orizzonte cui bisogna tendere, indipendentemente dalle condizioni specifiche della propria azienda e si sviluppa attraverso dieci principi fondamentali. Il decalogo dell‘agricoltura contadina prevede di: ripartire le quantità di produzione per permettere al maggior numero di contadini di esercitare la professione e ricavarne il necessario per vivere; essere solidali con i contadini delle altre regioni del mondo; rispettare la natura; valorizzare le risorse abbondanti e fare economia su quelle rare; ricercare la trasparenza nei processi di acquisto, produzione, trasformazione e vendita dei prodotti agricoli; assicurare la buona qualità del prodotto, nel gusto e nella sicurezza sanitaria; garantire il massimo di autonomia nel funzionamento dell‘azienda agricola; ricercare collaborazioni con altre figure del mondo rurale; mantenere la diversità delle popolazioni animali allevate e le varietà di vegetali coltivati, preservando la biodiversità; ragionare sempre su tempi lunghi ed in maniera globale (Bové, Dufour 2001).

Questi principi, che sono interdipendenti – cioè non possono essere considerati in maniera isolata dal momento che ognuno rappresenta una condizione necessaria, ma non sufficiente, dell‘agricoltura contadina – contribuiscono a definire le caratteristiche fondamentali di quello che Van der Ploeg ha identificato con l‘espressione ―modo di produrre contadino‖. Nella sua elaborazione teorica, il sociologo olandese si concentra in un primo momento sui quattro livelli che vanno a costituire lo stile aziendale: il repertorio culturale, cioè il modo di concepire l‘agricoltura e il sistema di conoscenze; le specifiche forme di organizzazione del processo lavorativo che dipendono dalla disponibilità delle risorse e dalla capacità organizzativa e gestionale di ―soggetti culturalmente e socialmente strutturati‖; le modalità di rapportarsi ai fattori esterni, comprese le relazioni con il mercato e con la tecnologia; la capacità di elaborare strategie di difesa rispetto alle regole istituzionali e di indicare prospettive nuove per sostenere forme di agricoltura sostenibile (Cavazzani 2006: 11). Partendo da questi quattro elementi fondamentali, si possono delineare i principi alla base del nuovo paradigma di sviluppo rurale incentrato sul modo di produrre contadino.

In primo luogo, occorre far riferimento alla figura centrale del contadino il quale, svolgendo un ―mestiere a tre dimensioni‖ (Bové, Dufour 2001: 120), riveste il ruolo di ―chiave di sostenibilità‖ (Colombo 2002: 155). L‘attività dell‘agricoltore non si limita, infatti, soltanto alla dimensione produttiva, ma implica anche una relazione con l‘oggetto di lavoro (la materia vivente e il territorio), la partecipazione al mantenimento e alla conservazione dell‘occupazione, della biodiversità e del territorio. Il metodo contadino di fare agricoltura, infatti, è strettamente connesso alla ―condizione contadina‖, ossia quell‘―insieme di relazioni dialettiche tra l‘ambiente in cui i contadini devono operare e le loro risposte, attivamente costruite, volte a creare gradi di autonomia al fine di affrontare la dipendenza, la privazione e la marginalizzazione a cui l‘ambiente li sottopone (Ploeg van der 2009a: 343).

Il modo di produzione contadino rappresenta una ―unità analitica, empirica e strutturale‖ (Ploeg van der 2009b: 19). Innanzi tutto, è volto alla produzione e alla crescita del maggior valore aggiunto possibile, pertanto si tenta di sormontare le ostilità generando reddito in modo indipendente ed utilizzando risorse autocreate ed autogestite, a differenza del modello imprenditoriale che punta all‘appropriazione di risorse esterne alla rincorsa di sempre maggiori profitti, prosciugando il valore aggiunto prodotto da altri. In secondo luogo, l‘attenzione è posta sulla base di risorse disponibile per ogni unità di produzione e

consumo che è quasi sempre limitata: nel modo di produzione contadino, infatti, il miglior risultato deve essere ottenuto con una determinata quantità di risorse, senza deteriorarne la qualità per permetterne la riproduzione. Una terza caratteristica riguarda la composizione di questa base di risorse in termini quantitativi: la manodopera è generalmente abbondante, ma gli oggetti di lavoro relativamente scarsi, per cui la produzione contadina tende ad essere intensiva. Inoltre, le risorse materiali e sociali costituiscono una ―unità organica‖ e sono coloro i quali partecipano attivamente al processo lavorativo a possederle. Altra caratteristica fondamentale è la centralità del lavoro, sia in termini quantitativi che qualitativi. Infine, esiste una specificità delle relazioni che si stabiliscono tra l‘unità contadina di produzione e i mercati che si differenzia nettamente dalla completa mercificazione cui è soggetta l‘agricoltura imprenditoriale.

Tali caratteristiche richiamano tre principi di progettazione che contraddistinguono il modo di produzione contadino: il primo è che l‘obiettivo finale non è esterno alla situazione locale, ma si trova all‘interno di essa, per cui le risorse locali vengono modellate e combinate insieme col fine di trovare soluzioni locali a problemi globali; il secondo implica che gli scambi non si configurano come semplici transazioni redditizie, ma come conversioni, dunque il mercato non costituisce il principio ordinatore; inoltre, ampio spazio è dato all‘importanza delle innovazioni contadine che sono capaci di disegnare nuove tecnologie incentrate sul lavoro ed appropriate per le specifiche esigenze locali (Ploeg van der 2009a: 228).

L‘insieme delle risposte contadine tese ad aumentare il livello di autonomia, può essere

rapportato a ciò che lo storico olandese Slicher van Bath68 definisce ―libertà contadina‖,

che comporta due tipi di relazioni: ―una che assicuri la libertà (per lo meno relativa) dalle inique condizioni di sfruttamento e sottomissione; l‘altra (evidentemente legata e condizionata dalla prima) che assicuri la libertà di agire in modo tale che la conduzione agricola sia allineata agli interessi e alle prospettive dei produttori coinvolti‖ (Ploeg van der 2009a: 52).

La lotta per l‘autonomia si esprime attraverso la capacità di agency, lo spirito d‘iniziativa, dei produttori da cui deriva la grande eterogeneità del mondo rurale. Quando Van der Ploeg (2006) fa riferimento al concetto di agency, vuole evidenziare in primo luogo il fatto che ci si trova di fronte a soggetti attivi, non statici, che hanno un proprio sistema di

68 Slicher van Bath B. (1960), De agrarische geschiedenis van West-Europa, 500-1850, Helt Spectrum,

conoscenze attraverso cui sono capaci di conoscere ed interpretare in maniera attiva e consapevole il contesto entro cui agiscono. Essendo tali soggetti protesi verso un obiettivo, l‘agency rappresenta anche la capacità di trasformare l‘interpretazione del contesto in un progetto volto al futuro. Infine, il concetto di agency richiama la capacità di implementare e realizzare i progetti, attraverso una vera e propria programmazione per raggiungere gli obiettivi prefissati.

Assumendo come riferimento il concetto di agency, viene così rovesciato il rapporto deterministico tra struttura ed azione sociale, che stava alla base della teoria della modernizzazione agricola. I condizionamenti strutturali, che naturalmente sono operanti, definiscono uno ―spazio di relazione‖ entro il quale si collocano le diverse pratiche sociali, che si configurano come scelte autonomamente elaborate sulla base delle risorse materialmente disponibili (Cavazzani 2006: 12).

Ciò può essere meglio compreso facendo riferimento ad un altro concetto fondamentale nell‘analisi del modello contadino: la coproduzione. Con questa nozione, Van der Ploeg (2009) indica la ―interazione poliedrica e in continua evoluzione tra l‘uomo e la natura vivente‖, tra materia e società, che implica la mutua trasformazione di entrambi gli elementi. La combinazione di questi elementi, determinata dalla tecnologia – cioè dalla capacità sociale di utilizzare e modificare la natura attraverso il processo lavorativo che si serve di specifici strumenti e tecniche – produce un triplice effetto: modifica la natura, modifica i rapporti sociali e sviluppa la tecnologia. In questo processo di trasformazione, in merito tanto alla natura quanto ai rapporti sociali, le possibilità di mutamento sono numerose e diversificate. È nello spazio rurale che avviene la coproduzione tra il sociale e la natura viva, pertanto la ruralità è definita da Van der Ploeg (2006: 58) come ―locus della coproduzione‖ in cui l‘agricoltura opera come legame tra natura e società.

A partire dai concetti di coproduzione e coevoluzione, si sviluppa l‘analisi sulla specificità del modo di produrre contadino, basato sulla capacità di organizzare l‘attività agricola non solo in funzione della produzione, ma anche della riproduzione delle risorse produttive. Condizione essenziale e indispensabile per la coproduzione, nonché suo risultato, è la costruzione e il mantenimento di una base di risorse autocontrollata. Infatti, per mezzo della coproduzione, che racchiude in sé il senso della produzione e della riproduzione, le risorse vengono convertite in una varietà di beni e servizi e al tempo stesso si riproducono come risorse. Attraverso questo processo, la base di risorse non solo viene rafforzata ed estesa, ma può anche essere migliorata da un punto di vista qualitativo, ad esempio tramite l‘utilizzo di reti sociali estese all‘interno delle quali circolano risorse di

buona qualità o si diffondono azioni collettive che portano ad un miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali.

In funzione della loro capacità di agency, i contadini operano delle novelties (innovazioni) nella gestione aziendale che si configurano come ―potenzialità capaci di realizzarsi ma non ancora pienamente evidenti‖ (Ploeg van der 2006: 65). Queste si esprimono sia in strategie che puntano a rafforzare circuiti non commerciali per rigenerare le risorse produttive e ridurre la dipendenza dal mercato, sia nella capacità di decostruire e ricostruire le norme riadattando gli strumenti alla propria logica di produzione (Cavazzani 2006). Perché una novelty possa realizzarsi e generalizzarsi, occorre che esistano anche dei progetti collaterali, vale a dire progetti di altri attori (come lo Stato) che permettano di sviluppare elementi aggiuntivi ed importanti per la realizzazione dell‘innovazione in questione. Una sinergia tra diversi progetti collaterali potrà, poi, permettere di strutturare una certa traiettoria di sviluppo.

Questa interconnessione si manifesta, tra l‘altro, in forme di cooperazione sociale che derivano dalla capacità, e dalla necessità, di stabilire relazioni con diversi soggetti, sia a livello locale che esterno, costruendo vere e proprie reti di scambio e collaborazione (socially regulated exchange) in un‘ottica di complementarietà piuttosto che di competizione. Un esempio è la collaborazione tra produttori che non passa attraverso il mercato, ma che si costruisce progressivamente in un meccanismo regolato dalle relazioni sociali. Queste forme di cooperazione fanno sì che si diffondano gli interessi e le prospettive individuali e che la lotta per l‘autonomia oltrepassi il livello della singola unità agricola per generalizzarsi. 2.2.2 L’approccio agroecologico

Risposte concrete alla crisi che si delinea sullo scenario globale provengono dall‘approccio agroecologico che emerge come ―uno dei più robusti sentieri attualmente disponibili in direzione di uno sviluppo equo e sostenibile‖ (Altieri, Funes-Monzote, Petersen 2011: 2). Le iniziative basate sui principi dell‘agroecologia, infatti, puntano a trasformare l‘agricoltura industriale operando una transizione dei sistemi agroalimentari esistenti da un tipo di produzione fortemente basato su energie fossili ad un paradigma alternativo che incoraggi la produzione locale da parte di piccole unità di produzione, a basso tenore di carbonio e basate su pratiche sostenibili che consentano di garantire la sostenibilità su tutti i livelli.

L‘agroecologia può essere considerata ―la scienza dell‘agricoltura sostenibile‖ in quanto rappresenta ―l‘applicazione di concetti e principi ecologici allo studio, alla progettazione e

alla gestione di agroecosistemi sostenibili‖69. L‘agroecologia si fonda su alcuni principi base

che sono illustrati da Altieri e Toledo (2011): il riciclaggio di nutrienti ed energia all‘interno dell‘azienda, anziché la dipendenza da inputs esterni; l‘integrazione tra agricoltura e allevamento; la diversificazione nel tempo e nello spazio di specie e risorse genetiche nei sistemi agroecologici, dai campi al paesaggio; l‘attenzione posta sulle interazioni e sulla produttività di tutto il sistema agricolo, anziché sulle singole specie. Un accento particolare viene posto sui concetti di sostenibilità e resilienza:

Sustainability and resilience are achieved by enhancing diversity and complexity of farming systems via polycultures, rotations, agroforestry, use of native seeds and local breeds of livestock, encouraging natural enemies of pests, and using composts and green manure to enhance soil organic matter thus improving soil biological activity and water retention capacity (Altieri, Toledo 2011: 588).

L‘agricoltura agroecologica comprende in sé un‘ampia gamma di sotto-categorie (agricoltura sostenibile, agricoltura ecologica, eco-coltivazione, eco-agricoltura, agricoltura a bassi inputs esterni, agricoltura biologica, permacoltura, agricoltura biodinamica) che hanno in comune la sostenibilità e la resistenza nei confronti del paradigma della modernizzazione. Ma occorre prestare attenzione a non porre tutto ciò che è ―alternativo‖ all‘interno dello stesso calderone. Altieri e Toledo propongono, a titolo esemplificativo, il caso di sistemi organici gestiti come monocolture dipendenti da inputs esterni e che, pertanto, non possono essere annoverati tra i sistemi agroecologici.

I sistemi di coltivazione riconducibili ai principi dell‘agroecologia, hanno delle caratteristiche peculiari che vengono riconosciute da Altieri e Toledo in: un uso migliore dei beni e servizi della natura come inputs funzionali; l‘integrazione di processi naturali e rigenerativi (ad esempio la fissazione dell‘azoto, la rigenerazione del suolo e i nemici naturali degli organismi nocivi) nei processi di produzione del cibo; la riduzione al minimo di inputs non rinnovabili (come pesticidi e fertilizzanti chimici); un uso migliore dei saperi e delle capacità degli agricoltori, aumentandone l‘indipendenza; un uso produttivo della capacità delle persone di lavorare insieme per risolvere problemi comuni. Tutto ciò permette di definire i sistemi di produzione basati sull‘agroecologia come ―biodiversi, resilienti, energeticamente efficienti e socialmente giusti e includono le basi di una sovranità energetica, produttiva e alimentare‖ (Altieri 2008: 2). Ad avviso di Colombo (2002), un

sistema agroecologico correttamente funzionante, e quindi messo a punto con la piena partecipazione della comunità, risulterà: praticabile tecnicamente, cioè adatto alle condizioni ambientali e pedologiche, resistente ai parassiti, realizzabile con gli inputs disponibili; economicamente vantaggioso; adatto a garantire benefici a tutti i membri della comunità stessa senza generare differenze di genere; rivolto alla minimizzazione del rischio produttivo e attento anche al rischio di marginalizzazione dei gruppi svantaggiati. Le aziende di piccola scala che praticano un‘agricoltura sostenibile si basano sull‘uso integrato di diverse tecnologie e pratiche in un contesto in cui sono favoriti i processi naturali e in cui i residui di un‘attività diventano presupposto per quelle successive. La logica produttiva si fonda su una diversificazione colturale che permette di migliorare lo sfruttamento delle risorse e di far fronte a problemi di natura ambientale che potrebbero inficiare il lavoro della terra. La grande eterogeneità di pratiche e di fattori sociali, culturali, economici e ambientali coinvolti, dà luogo a ―sistemi locali unici‖ (Colombo 2002: 75) che rivelano l‘inappropriatezza delle ―ricette tecnologiche‖ dell‘agricoltura modernizzata che si autodefiniscono universalmente valide.

Alcuni casi concreti, citati da De Schutter (2011b) possono delucidare i principi finora analizzati. In due provincie occidentali dalla Tanzania, ad esempio, l‘agrosilvicoltura ha incorporato alberi multifunzionali all‘interno dei sistemi agricoli permettendo di recuperare 350.000 ettari di terreno, e questa tecnica si sta progressivamente riproducendo anche in Malawi, Mozambico e Zambia. Altri esempi provengono da alcuni Paesi dell‘Africa Occidentale, dove la raccolta delle acque nelle zone aride consente di coltivare terreni prima abbandonati e degradati, attraverso la costruzione di barriere in pietra lungo i campi che riducono il deflusso superficiale delle acque durante la stagione delle piogge, in modo da incrementare l‘umidità del suolo, riempire le falde freatiche e ridurre i fenomeni di erosione. L‘aumento della capacità di ritenzione idrica e di biomassa consente, inoltre, di fornire nutrimento al bestiame che può pascolare nelle zone che costeggiano le barriere in

pietra. Ancora, in Kenya è stata utilizzata la strategia push-pull70 che ha permesso di

controllare le erbacce e i parassiti nocivi alle coltivazioni in maniera del tutto naturale, consentendo di raddoppiare le produzioni e migliorando le condizioni del suolo. Altri esempi rintracciati in Asia dimostrano, poi, che in zone vocate alla risicoltura, l‘integrazione

70 Questa tecnica consiste nello spingere via (push) i parassiti dai campi di mais alternandolo con colture

insettifughe (come il Desmodium) e al tempo stesso nell‘attirarli (pull) verso terreni in cui un‘erba che secerne una gomma appiccicosa (Napier) provvede ad intrappolarli. In più, il Desmodium, essendo anche utilizzato come mangime per il bestiame, apporta benefici anche per l‘allevamento.

tra agricoltura e allevamento può garantire un successo notevole: nelle risaie, anatre e pesci sono utilizzati come ―pesticidi‖ e forniscono anche proteine aggiuntive alle famiglie. Infatti, cibandosi di erbacce, insetti e parassiti, questi animali riducono il lavoro manuale di sarchiatura; inoltre, gli escrementi delle anatre contengono nutrienti per le piante e anche la loro attività natatoria favorisce la crescita del riso. Questo sistema ha fatto registrare un incremento del 20% nei raccolti e un aumento di reddito netto addirittura dell‘80%.

I sostenitori della ―superiorità‖ dell‘agricoltura industrializzata fondano la loro posizione su una presunta maggiore produttività dei sistemi industriali ed una altrettanto pretesa incapacità dell‘agricoltura sostenibile di poter nutrire la popolazione mondiale. Ma bisogna osservare quali fattori vengono presi in considerazione per misurarne l‘efficacia. Se, ad esempio, si tiene conto della ―produttività apparente‖ (come la produzione ottenuta da un lavoratore), l‘agricoltura industriale risulterà più efficace; ma introducendo altri elementi (energia, unità di risorse chimiche, rinnovamento degli agroecosistemi) il risultato sarà molto diverso.

I paragoni tra agricoltura industriale e tradizionale vengono quasi sempre istituiti in base a criteri puramente economici: scarti di produttività, rendimenti. Il ―resto‖, cioè l‘ambiente, la vita della gente, le culture, non viene mai considerato (Pérez-Vitoria 2007: 99).

Numerosi studi hanno dimostrato il contrario, avvalendosi di diverse variabili. Sono state, infatti, individuate almeno cinque ragioni per sostenere la superiorità (dal punto di vista economico, sociale e ambientale) delle alternative ecologiche messe in atto dai contadini rispetto a forme di agricoltura industriale. Nel suo articolo dal titolo significativo Small Farms as a Planetary Ecological Asset: Five Key Reasons Why We Should Support the Revitalisation of Small Farms in the Global South, Miguel Altieri (2008) espone in maniera dettagliata questi cinque punti fondamentali.

La prima, e più immediata, ragione è che ―i piccoli contadini sono la chiave della sicurezza alimentare del mondo‖. Nonostante il 91% dell‘1,5 miliardi di ettari di terra agricola nel mondo sia destinato, e in misura crescente, a colture per l‘esportazione, agrocarburanti e alimenti transgenici per il bestiame, milioni di piccoli agricoltori, soprattutto nel Sud globale, continuano a produrre gran parte dei prodotti di base necessari per nutrire il pianeta. Uno studio condotto da alcuni ricercatori dell‘Università del Michigan (Badgley et al 2007), in cui sono stati analizzati 293 casi che hanno messo a confronto

agricoltura convenzionale e agricoltura organica71, ha dimostrato che quest‘ultima potrebbe

fornire in media quasi altrettanto cibo a livello globale di quanto ne viene prodotto attualmente (secondo stime più prudenti), o addirittura accrescere la produzione alimentare globale del 50%. Più nel dettaglio, considerando dei casi analizzati nei Paesi del Nord, si è calcolato che la produzione biologica potrebbe fornire una quantità di cibo pari al 92% dell‘attuale disponibilità calorica; nei casi analizzati nei Paesi in via di sviluppo, il rapporto è