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2. Elementi di economia antica e romana.

2.4. Il concetto di surplus.

Oltre le carestie, vi furono altre cause che, nel corso dei secoli, procurarono difficoltà negli approvvigionamenti di Roma, quali la pirateria e la speculazione.

Su quest’ultimo aspetto conviene spendere qualche parola in più: gli aediles curules del 189 a.C., Publio Claudio Pulcher e Servio Sulpicio Galba, multarono i rivenditori di grano1; allo stesso modo, la lex Iulia de annona era rivolta contro gli speculatori, ritenuti colpevoli di trattenere le spedizioni del cereale per Roma.

Alcuni tra gli studiosi prima citati esprimono dei ragionevoli dubbi sulla questione; nello specifico, essi si chiedono se è realmente veritiero e giustificabile il fatto che la folla affamata e la stessa amministrazione abbiano scagliato la loro rabbia e la loro frustrazione solo contro i commercianti di grano, i quali probabilmente non debbono poi essere considerati i soli responsabili: avrebbero potuto, cioè, creare, in condizione di normali raccolti, una carestia in un anno?

Steven Kaplan, studioso del commercio del grano francese e delle regolamentazioni del governo nel XVIII secolo, ritiene che speculazione e collusione tra commercianti potrebbero realmente aver contribuito a creare una vera e propria minaccia: bisogna far sorgere paura nell’immaginazione popolare2.

Le tesi maggiormente conosciute circa la reale motivazione che porta alla penuria di grano sono sostanzialmente antitetiche. Wilhelm Abel e di Emmanuel Le Roy Ladurie ritengono che la colpa sia da attribuire alla crescita della popolazione; tale modello, generalmente definito come neo- Malthusiano, presenta due variabili, una indipendente (la produzione) e una dipendente (la popolazione): “Population growth is dependent upon prior growth of production”3

.

Questa teoria ha ovviamente riscontrato ampie critiche, a partire dai Marxisti e dagli storici ispirati a Marx, per arrivare agli economisti dello sviluppo, come Ester Boserup, la quale ha proposto un nuovo modello, sempre con le due variabili, questa volta invertite: quella indipendente diventa la popolazione, la dipendente la produzione. In altri termini, l’aumento della popolazione dovrebbe piuttosto rappresentare un incremento e uno stimolo per la crescita della produzione agricola4.

1

Cfr., Liv., XXXVIII, 35, 5.

2 Cfr., W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 116; S. L. KAPLAN, Bread,

Politics and Political Economy in the reign of Louis XV, The Hague, Martinus Nijhoff, 1976, vol. I, pp. 52-63.

3

W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 116.

4 Cfr., W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 116, in cui sono anche

In tutto questo, va considerato il mercato e il ruolo da esso giocato nel rifornimento e nella vendita del cereale stesso: si tenga, cioè, presente che in ogni epoca e in ogni società, la variabilità di rifornimento da un anno all’altro (e spesso anche nello stesso anno) è alla base di tutti i problemi e di tutte le strategie annonarie adottate.

La complicazione subentra nel momento in cui domanda e offerta si incontrano, per esempio, sul mercato alimentare, la cui struttura è la sola in grado di determinare se il consumatore sarà o meno in preda ad eventuali disagi.

Gli economisti e gli storici propongono una serie di possibilità per tamponare i problemi di sostentamento alimentare. Cercando di sintetizzare, questi si riducono a tre tipi fondamentali: in primo luogo, si può cercare di ottenere un cambiamento nella produzione fisica; si può, ad esempio, limitare l’uscita delle qualità di grano più resistenti a climi sfavorevoli, così come è possibile favorire la crescita di nuove tipologie di grani, su terreni diversi.

Un’altra soluzione potrebbe essere quella dello stoccaggio alimentare, che affronta la variabilità temporale, bilanciando anni di cattivo e anni di buon raccolto. Un’ultima strategia, poi, riprendendo nuovamente il problema della disponibilità di risorse, è di sfruttare il fattore spazio: se la semina di grano fallisce in un’area, non è detto che succeda la stessa cosa in un terreno vicino. Il grano, infatti, viene ad ogni modo scambiato tra comunità, secondo il processo definito da John O’Stea con l’espressione “social storage”1

.

Inoltre, lo scambio di derrate, tra settori alimentari e non, dipende dalla capacità di produrre un

surplus, sia che si abbia a che fare con scambi familiari, con canali di mercato libero o mediante

coercizione.

Il concetto di surplus è stato da sempre oggetto di molteplici interpretazioni, legate, tra le altre cose, alla nascita e al mantenimento di alcuni gruppi sociali e di altre specifiche categorie non produttrici. In altri termini, la ricchezza di surplus deve essere considerata come un modo di rispondere al rischio della scarsità, in alcune forme di economia e, anche, in alcuni ambienti.

Paul Halstead, nel suo articolo sulla stabilità economica e il cambiamento sociale delle prime comunità agricole della Tessaglia, offre una panoramica sui diversi valori attribuiti al surplus, nel corso degli studi degli storici moderni2.

Generalmente, il surplus viene considerato come una conditio sine qua non si sarebbe potuta sviluppare una forma complessa di civiltà e società; “Society persuaded or compelled the farmers to produce a surplus of food over and above their domestic requirements, and by concentrating this

1 Cfr., W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 118. 2

Cfr., P. HALSTEAD, The economy has a normal surplus: economic stability and social change among early farming communities of Thessaly, Greece, in (ed. P. HALSTEAD-J. O’SHEA, Bad year economics. Cultural responses to risk and uncertainty, Cambridge 1989, pp. 68-81. Qui, in particolare, cfr., pp. 68-70.

surplus used it to support a new urban population of specialised craftsmen, merchants, priests, officials, and clerks”1

.

Una rivalutazione delle relazioni intercorrenti tra surplus e sviluppo sociale è stata promossa da W. H. Pearson, il quale propone una duplice critica del tradizionale punto di vista sulla questione. Secondo tale studioso, il surplus in senso assoluto non esiste, nel senso di una ridondante produzione che sconfini oltre la mera sussistenza, anche perché le necessità di cibo sono variabili, così come, d’altra parte, i livelli di mortalità. Inoltre, aggiunge Pearson, un uomo non vive di solo pane e le percezioni culturali di minimi livelli di sopravvivenza incorporano anche quantità variabili di altre risorse.

“If a minimum subsistence level could not be defined, absolute surplus could not exist”2

. Per tutte queste ragioni, quindi, Pearson rigetta l’idea dell’esistenza di un surplus.

In altri termini, egli vaglia piuttosto l’esistenza di un surplus relativo: il surplus, cioè, esisterebbe nel momento in cui la società stessa lo dichiara disponibile per uno scopo preciso. Non importa, nello specifico, quale sia lo scopo in questione, l’importante è che il processo stesso sia avviato dalla società, anche perché le eccedenze a disposizione potrebbero da una parte essere ricavate da un aumento della produzione, ma anche semplicemente ricollocando beni e servizi da un impiego ad un altro.

Per sintetizzare e rendere efficace quanto sinora esposto, è bene ribadire un concetto dello stesso Pearson, secondo cui: “There are always and everywhere potential surpluses available. What counts is the institutional means for bringing them to life”3

.

La tesi di Pearson è stata attaccata, soprattutto per la mancanza di un calcolo, anche approssimativo, di un livello minimo di sussistenza biologica.

Tuttavia, le sue convinzioni hanno avuto particolare successo, soprattutto la sua teoria sulla non esistenza di un surplus assoluto, piuttosto che quella della presenza costante di un surplus relativo4. Un’altra tesi interessante, già evidenziata ma che è bene ribadire in questa sede, è quella proposta da Sahlins, il quale, in primo luogo, attacca la falsa dicotomia tra “produzione per” e “produzione oltre” la sussistenza: in qualche forma, anche nelle società di piccola scala, le singole famiglie non

1 Citazione tratta da V. G. CHILDE, What Happened in History, Harmondsworth, Penguin 1954, letta e, a mia, volta,

ripresa da P. HALSTEAD, The economy has a normal surplus, 1989, cit., p. 68.

2

P. HALSTEAD, The economy has a normal surplus, 1989, cit., p. 68.

3H. W. PEARSON, The economy has no surplus: critique of a theory of development, in (ed.) K. POLANYI, C.M.

ARENSBERG e H.W. PEARSON, Trade and Market in the Early Empires: Economies in History and Theory, New York, 1957, p. 339.

4 Cfr., P. HALSTEAD, The economy has a normal surplus, 1989, cit., p. 69, con i relativi riferimenti agli studi di altri

sono autonomamente e sempre capaci di provvedere alla propria sussistenza, “they are depenent on others for mates, peace, food in emrgencies, etc”1

.

Tuttavia, la sua analisi si concentra maggiormente sulla produzione domestica, ritenendo che al loro interno alberghi un principio anti-surplus, dal momento che se surplus trova definizione come un’uscita attraverso il requisito dato dai produttori, la piccola famiglia si arresta a questo punto e non è, per di più, organizzata per questo.

Considerando questo aspetto, l’economia, o meglio il modo di produzione domestico, non presenta

surplus, né relativo né assoluto, e così per mobilitare le eccedenze bisogna ricorrere all’intervento

delle istituzioni: il compito di stimolare una maggiore produzione era lasciata ai leaders emergenti. Come fa notare Halstead, questo suo soffermarsi sull’effetto catalizzatore assegnato a tali leaders è stato di frequente utilizzato per spiegare lo sviluppo della complessità di una società, e del surplus che comporta2.

Al concetto di surplus, anche per suggestione di idee, si ricollega il problema, pregnante, dello stoccaggio, ossia, nello specifico, delle tecniche e dei metodi di sistemazione e conservazione, in depositi e magazzini, di derrate alimentari, destinate alla vendita o allo scambio con realtà locali prossime.

In particolare, l’aspetto essenziale da riportare è in relazione alla forma e alle funzioni che le diverse tipologie di magazzini di stoccaggio potevano assumere nel mondo romano.

J. Horvat, riprendendo lo studio di G. Rickman, li divide sostanzialmente in due: quelli allineati in fila singola o doppia, e quelli disposti in un cortile centrale, o almeno in un corridoio.

Tuttavia, come nota Catherine Virlouvet, egli omette un buon numero di strutture consacrate a tale utilizzo: le file disposte back to back, i silos interrati e fuori dal terreno, e le strutture che potrebbero essere qualificate quali capannoni o grandi camere3.

Gli horrea erano installazioni, le cui costruzione e manutenzione avevano un costo; per questo motivo dovevano essere utilizzati al meglio delle loro possibilità.

Ogni struttura aveva, tuttavia, funzioni diverse, alcune facilmente identificabili in quelle conservate e studiate.

Si tenga presente che lo stoccaggio è un elemento di una catena che prevede, in prima battuta, le attività di produzione e poi quelle di distribuzione e di vendita.

1 Concetto di M. Sahlins, preso da P. HALSTEAD, The economy has a normal surplus, 1989, cit., p. 69. 2

Cfr., P. HALSTEAD, The economy has a normal surplus, 1989, cit., p. 69 e gli autori di riferimento, da lui citati. Questo stesso approccio é stato utilizzato per lo studio dell’età del bronzo in Grecia, da parte di Gamble e di Renfrew, i quali affermavano, in particolar modo, che il valore tradizionale del surplus, quello definito da Childe e visto precedentemente, é condizione necessaria per lo stesso sviluppo della complessità sociale.

3 Cfr., C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, formes et fonctions. Premières pistes pour un

essai de typologie, in Horrea d'Hispanie et de la Méditerranée romaine, Madrid 2011, pp. 7-23. Qui, in particolare, cfr., pp. 8-9, nelle quali la studiosa offre gli esempi per le diverse tipologie su riportate.

“À côté de structure qui paraissent conçues exclusivement pour la conservation des produits (du moins en utilisation 'normale', on a vu que les circostances permettaient sans doute des usages exceptionnels), d'autres semblent combiner production et conservation et/ou conservation et vente”1.

Altre testimonianze giuridiche pervenuteci, come il Digesto e le tavolette dei Sulpicii a Pozzuoli, ci mostrano che questi magazzini, almeno localmente, permisero lo sviluppo di un credito assicurato sul loro contenuto. In questo senso, si evidenziano altre funzioni: la gestione dell’immobile, l’affitto e il subaffitto, operazioni di credito legate al valore capitalizzato, rappresentato mediante azioni2.

In maniera quasi manichea, attraverso concetti proposti da M. Finley e ripresi da altri studiosi, questa molteplicità di funzioni può grossolanamente riassumersi nel seguente modo: i piccoli magazzini erano strutture private, quelli grandi, complessi pubblici.

Quindi, secondo la tesi di Finley, sviluppata da Paul Erdkamp e combattuta da Andrea Giardina, solo le autorità politiche avevano la capacità di impegnarsi in una politica di stoccaggio, di investire in horrea e in personale legato a tali strutture, e di assumersi il rischio di perdite molto elevate3.

C. Virlouvet fa, inoltre, riferimento ad altre due dichiarazioni da considerare in questa frase: l’atto di stoccaggio in sé, e la durata dello stesso. Secondo Erdkamp, respinto da Giardina, gli stessi grandi mercanti non avevano i mezzi, né lo spirito (secondo lui il rischio era estraneo alla mentalità antica) per stoccare prodotti deperibili come il grano per una durata superiore ad un anno4.

A questo va ad aggiungersi il discorso sugli investimenti in horrea e nel personale addetto all’atto dello stoccaggio, i quali erano generalmente alle dipendenze dello Stato romano; tuttavia, come dimostra ad esempio il dossier epigrafico sui lavoratori degli horrea Galbana, non sempre questi erano affrancati e/o schiavi imperiali5.

Altre due varianti importanti nella determinazione della forma e della funzione degli horrea sono la congiuntura storica e quella geografica.

La prima può essere determinata da diversi fattori, quali l’aumento della popolazione urbana, che potrebbe aver contribuito all’edificazione di grandi complessi, come quello di Ostia, mentre è più

1 C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, cit., 2011, p. 11.

2 Cfr., C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, cit., 2011, p. 12, con relativa bibliografia e fonti

citate.

3 Cfr., C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, cit., 2011, p. 12. Per maggiore completezza, si

faccia anche riferimento ai seguenti lavori: A. GIARDINA, Il mercante, in L'uomo romano, Roma 1989, pp. 269-299; P. ERDKAMP, The Grain Market in the Roman Empire. A social, political and economic study, Cambridge 2005.

4 Allo stato attuale della documentazione, non si è in grado di stabilire con certezza la durata dello stoccaggio del grano.

Le fonti antiche ci lasciano piuttosto dei ricordi che non delle vere e proprie pratiche correnti. (Plinio, N.H., XVIII, 306; Hist. Aug., Sev., 23, 2). Altre fonti si soffermano, invece, sulla volontà di garantire alla popolazione romana la consumazione pubblica di grano; preoccupazione condivisa dal popolo e dagli imperatori. (tra le altre, cfr., Svet., Claud., 18, 3-4; 19; Tac., Ann., XV, 18, 5).

5 Si rimanda, per un approfondimento, a C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, cit., 2011, p.

difficile stabilire le influenze dettate in un lasso di tempo breve. In questo senso potrebbe rientrare, ad esempio, l’utilizzo di altre aree, inizialmente non concepite a tale fine.

Tenuto conto di tutte queste variabili, attraverso l’esame della loro forma, gli horrea si dividono essenzialmente in due tipologie (che, a loro volta, presentano delle suddivisioni interne): uso esclusivamente dedito allo stoccaggio (tipo A) e uso misto (tipo B).

Le categorie finora messe in luce sono le seguenti (si riporta, di seguito, la traduzione delle tipologie proposta da C. Virlouvet):

TIPO A: conservazione:

A1: conservazione circoscritta [media e lunga durata (almeno un anno senza essere aperto)]. Questo gruppo presenta, a sua volta, queste diverse caratteristiche:

A1a: vicino al luogo di raccolta dei prodotti; A1b: vicino al luogo di spedizione;

A1c: vicino al luogo di distribuzione.

A2: conservazione con rotazione [breve o media durata (al massimo un anno); sulla lunga durata vi sono tuttora dubbi]. Le caratteristiche di questo secondo gruppo della tipologia A sono:

A2a: vicino al luogo di raccolta dei prodotti; A2b: luogo di passaggio;

A2c: vicino al luogo di distribuzione.

TIPO B: gruppo misto, stoccaggio e vendita. Questo gruppo presenta due divisioni: B1: stoccaggio e vendita sul posto;

B2: base di stoccaggio e stoccaggio per vendita su posto1.

Si ritorna ora, sull’aspetto geografico della questione esaminata, che aiuta nella determinazione di una tipologia funzionale di questo horreum.

In particolar modo, si sottolineano due aspetti:

1) la ricostruzione delle reti di tali horrea: vicino a cosa venivano situati? A luoghi di produzione o di consumazione? E in più, a cosa faceva riferimento o a chi apparteneva un determinato vano magazzino? A un porto o ad una grande città?

1 Per maggiori informazioni, cfr., C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, cit., 2011, pp. 18-21,

la quale, servendosi di tali categorie, offre una tabella, con le caratteristiche formali e giuridiche di alcuni horrea del mondo romano.

2) l’integrazione degli horrea con l’ambiente circostante; la sua distanza da vie di comunicazione, terrestri e/o fluviali, il suo inserimento in un quartiere1.

Infine, come sostiene Marie Brigitte Carre, se le scoperte recenti hanno gettato nuova luce sulle strutture degli scambi, queste non ci danno totalità d’informazione sulla quantità e i beni che transitavano, “ni sur la propriété de ces bâtiments, leur gestion et l’organisation matérielle qui les régit. Notre connaissance du rôle précis des bâtiments de stockage et de leur place dans la chaîne de distribution, amputée de toutes ces informations, est nécessairement partielle”2.

Gli esempi presentati dalla studiosa mostrano, tra le altre cose, come cambi la dimensione di tali

horrea in base ad una scala di distribuzione: ad esempio, nella Mauretania Tingitana le capacità di

stoccaggio diminuiscono in relazione alla distanza dal mare, sia che si tratti di depositi per la raccolta di grano destinato a Roma, sia che si tratti, invece, di depositi destinati all’approvvigionamento di centri civili o militari dell’entroterra del paese3.

1 Cfr., C. VIRLOUVET, Les entrepôts dans le monde romain antique, cit., 2011, pp. 14-15; M.-B. CARRE, Les réseaux

d'entrepôts dans le monde romaine. Étude de cas, in Horrea d'Hispanie et de la Méditerranée romaine, Madrid 2011, pp. 23-41.

2 M.-B. CARRE, Les réseaux d'entrepôts, cit., 2011, p. 24. In questo articolo, la studiosa offre una rilettura di alcuni

horrea del mondo romano, e in particolare in Africa, nella Licia e nell’Italia Cisalpina.

3. Il grano nell’alimentazione, nella società e nella politica.