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3. Il grano nell’alimentazione, nella società e nella politica 1 Cereali: tipologie, clima e terreni.

3.4. Politiche annonarie in età imperiale (da Augusto a Costantino).

3.4.4. La cura annonae di Tiberio.

Tiberio, salito al trono con la morte di Augusto avvenuta nel 14 d.C., è solitamente ricordato come un personaggio poco stimato, dalla politica conservatrice e rivolta a ristabilire il vecchio ordine romano, dal carattere rude, poco paziente, crudele, pronto a togliere di mezzo qualsiasi elemento che avesse potuto recargli disturbo.

Puntò a riformare moralmente e finanziariamente lo Stato, servendosi – come ci viene a più riprese rilevato da Tacito e da Svetonio – dell’appoggio e del consiglio del Senato, vedendo di cattivo occhio qualsiasi forma di adulazione394.

Quin etiam speciem libertatis quandam induxit conservatis senatui ac magistratibus et maiestate pristina et potestale. Neque tam parvum quicquam neque tam magnum publici privatique negotii fuit, de quo non ad patres conscriptos referretur

[Svet., Tib., 30]395.

La sua politica granaria fu alquanto deludente per la popolazione la quale, non solo si vedeva privata degli elementi necessari di sopravvivenza, ma era altresì respinta e poco amata396.

Di Tiberio, infatti, non si ricordano leggi riguardanti le distribuzioni frumentarie, né sistemi particolari per gli approvvigionamenti, né tantomeno decreti speciali in favore della plebe e del proprio nutrimento.

La sua principale occupazione fu la risoluzione della situazione delle province, le quali non presentavano quasi mai al loro interno una situazione pacifica.

Si potrebbe solo supporre che, non essendo registrati interventi, né modifiche, che egli si sia posto sul solco della strada aperta da Augusto, mantenendone gli ordinamenti. Ciò potrebbe evincersi dal fatto che, tra i consoli e i magistrati che gli giurarono fedeltà possono annoverarsi C. Turranio, il primo prefetto dell’annona istituito proprio da Augusto, e Seio Strabone397

.

394 Cfr., Tac., Ann., IV, 6.

395 “Arrivò anzi a introdurre una certa parvenza di libertà, conservando al Senato e alle cariche dello Stato l’antico

prestigio e potere. Non ci fu questione né tanto piccola né tanto grande, di ambito pubblico o privato, di cui non si riferisse al Senato” [(a cura di) F. CASORATI-L. DE SALVO, Svetonio, Vite dei Cesari, Roma 2010].

396 Fu estremamente impopolare ed egli stesso non cercò di guadagnarsela; anzi diceva espressamente di mirare soltanto

alla stima dei posteri: quippe illi non perinde curae gratia praesentium quam in posteros ambitio. [Tac., Ann., VI, 46, 2].

397 Sex. Pompeius et Sex. Ap‹p›uleius consules primi in verba Tiberii Caesaris iuravere, apudque eos Seius Strabo et C.

Non fu comunque munifico nei confronti della popolazione, né capace di risollevare i loro animi398. Anzi, ridusse anche gli spettacoli e lasciò incompiute alcune opere avviate dal suo predecessore:

Princeps neque opera ulla magnifica fecit (nam et quae sola susceperat), Augusti templum restitutionemque Pompeiani theatri, imperfecta post tot annos reliquit) neque spectacula omnino edidit

[Svet., Tib., 47]399.

Un suo donativo è ricordato per il 15 d.C., come esecutore testamentario di Augusto, il quale aveva lasciato al popolo quaranta milioni di sesterzi e tre milioni e mezzo alle tribù400.

Le frumentazioni indubbiamente continuarono, anche perché nessuna fonte ne tace l’esistenza. In questo frangente, largo potere decisionale era ancora astutamente lasciato al Senato; nella realtà gli interventi principali restavano appannaggio del Principe, essendo egli responsabile dell’approvvigionamento generale di grano (la cosiddetta cura annonae). I congiaria e i donativi non superarono i limiti della consuetudine e, infatti, oltre a quello del 15 d.C. già ricordato, abbiamo testimonianza solo di tre congiaria: quello del 17 d.C., per il trionfo e nel nome di Germanico, quelli del 20 e del 23, in occasione del tirocinium di Nerone e Druso, figli maggiori di Germanico. Quello, infine, del 30 per l’assunzione della toga virile di Gaio, fu solo promesso e mai effettivamente elargito.

Il donativo del 17 è ricordato da Tacito anche se inserito in sordina, e legato al fatto che l’imperatore non riuscì a richiamare a sé la fiducia del popolo con la benevolenza, a causa anche del favore che cominciava a godere Germanico. In più, si deve ricordare che questo congiarium non è menzionato nei Fasti Ostiensi.

398 La crudezza del suo animo è più volte ricordata dagli autori antichi che ne hanno descritto la vita. Svetonio, ad

esempio, nel suo racconto, ricorda un episodio significativo che denota non solo quanto fosse osteggiato dalla plebe, ma anche la sua durezza nei confronti di chi lo ostacolava.Un giorno, mentre passava un funerale, un uomo urlò al morto di parlare nell’aldilà con Augusto, facendogli presente che ancora i suoi lasciti non erano stati dati da Tiberio al popolo. Per tutta risposta, Tiberio lo fece imprigionare e uccidere, raccomandando al morto di riferire al padre come realmente stavano le cose. Dopo aver introdotto, in questa battuta iniziale, Tiberio; cerchiamo ora di ricostruire quel poco che, attraverso le fonti antiche, l’epigrafia e la numismatica, riusciamo a ricavare circa la sua politica granaria, le sue relazioni con le province e il mercato privato dello stesso grano. Per tutto il racconto, cfr., Svet., Tib., 57.

399 “Da principe non compì alcuna costruzione grandiosa: le sole che aveva intrapreso – un tempio di Augusto e il

restauro del teatro di Pompeo – ,dopo tanti anni lasciò incompiute. Non diede nemmeno pubblici spettacoli” [(a cura di) F. CASORATI-L. DE SALVO, Svetonio, Vite dei Cesari, Roma 2010].

Ceterum Tiberius nomine Germanici trecenos plebi sestertios viritim dedit seque collegam consulatui eius destinavit. Nec ideo sincerae caritatis fidem adsecutus amoliri iuvenem specie honoris statuit struxitque causas aut forte oblatas arripuit.

[Tac., Ann., II, 42, 1]401.

Anche il donativo del 20 è legato alla famiglia di Germanico e concesso ad uno dei suoi figli, i quali, iniziando ad essere osannati tra la popolazione, divennero poi bersaglio dell’accusa di Tiberio e condannati a morte402.

Additur pontificatus et, quo primum die forum ingressus est, congiarium plebi admodum laetae, quod Germanici stirpem iam puberem aspiciebat.

[Tac., Ann., III, 29, 3]403.

Di questa distribuzione abbiamo, però, notizia nei Fasti Ostiensi: VII idus Iun(ias) Nero to[g(am)

vir(ilem)] sumpsit; cong(iarium) di[visum].

L’ultimo donativo di cui si fa menzione risale, invece, al 23 e anche qui è in connessione con l’altro figlio di Germanico, Druso404.

Si può comunque notare che, in ogni caso, non si parla espressamente di grano donato volontariamente alla popolazione, ma di onori concessi a personaggi più o meno importanti che ruotavano intorno alla sua figura.

Meritano, tuttavia, di essere ricordate le sue virtù organizzative, soprattutto nell’amministrazione provinciale e finanziaria, per di più in mezzo a difficoltà economiche finora sconosciute.

Il suo genio è da riconoscere nella presa di coscienza, secondo cui vi era stata ed era tuttora presente una degenerazione della società, diffusa in larghe fasce della popolazione, per quanto poi le colpe, inevitabilmente, ricadessero sulla sua persona.

401

“Tiberio, allora, concesse ai poveri trecento sesterzi a testa, in nome di Germanico, e designò se stesso come collega di lui nel consolato. Non avendo, tuttavia, potuto suscitare fiducia nella spontaneità della sua benevolenza, decise di allontanare il giovane fingendo di tributargli onori e cercò pretesti o afferrò quelli che il caso gli offriva” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

402

Per il racconto sulle vicende riguardanti Druso e Nerone, figli di Germanico, e per il donativo alla plebe, cfr., Svet., Tib., 54, 1. Si tenga, inoltre, presente Tac., Ann., III, 29, 3.

403 “nel giorno in cui egli [Nerone] entrò per la prima volta trionfalmente nel foro fece fare un’elargizione alla plebe,

lietissima di poter vedere, ormai giovinetto, un figlio di Germanico” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

Interventi caratteristici del suo Principato sono da annoverare nel 32, quando scoppiò, parallelamente, una forte crisi all’interno dello Stato, che segnerà anche l’avvio dell’ultima fase del suo governo, caratterizzata da un clima di forte terrore, durante il quale non riuscì, ancora una volta, a risolvere i problemi della plebe, attanagliata dalla morsa della fame e ferocemente ribellatasi. Sono proprio le parole scritte da Tacito, in relazione a questo evento, che sono da tenere ben presenti; in quanto leggiamo non solo che Tiberio richiamò i magistrati al loro dovere circa il mantenimento dell’ordine pubblico, poiché non erano riusciti a gestire il buon funzionamento della

cura annonae, ma nella narrazione è sottolineato che Tiberio aveva provveduto ad importare

maggiori quantità di grano dalle province, rispetto addirittura ad Augusto: addiditque quibus e

provinciis et quanto maiorem quam Augustus rei frumentariae copiam advectaret405.

Anche qui, però, risolse la situazione con un editto molto severo, non accolto con favore dalla plebe406.

Tuttavia l’anno seguente, dopo la grave crisi economica, scoppiata per lo stringente rigore della legge sull’usura, provvide egli stesso a riparare la situazione, anticipando dal suo conto 100 milioni di sesterzi, con i quali provvide anche a ricostruire parte delle zone dell’Aventino colpite da un incendio, traendone motivo di gloria agli occhi della popolazione407.

Milies sestertium in munificentia ea conlocatum, tanto acceptius in vulgum, quanto modicus privatis aedificationibus

[Tac., Ann., VI, 45, 1]408.

Ritornando sul discorso degli approvvigionamenti e sulla frase di Tacito riguardo la maggiore quantità di grano che Tiberio riuscì ad importare, dobbiamo sicuramente soffermarci, ora, sulla condizione delle province in quegli anni e al loro ruolo annonario per Roma.

Il dato riportato da Tacito farebbe pensare che l’opera di potenziamento di Augusto in Egitto per il grano fu funzionale, giacché, proprio Tiberio parla di quantitativi di cereali provinciali,

405

Tac., Ann., VI, 12, 2.

406

Cfr., Tac., Ann., VI, 12.

407 Questi indennizzi sono ricordati anche nei Fasti Ostiensi, nei quali, per il 36 si legge: k. Nov. pars Circi inter vitores

arsit, ad quod T[i.] Caesar (sestertium milies) public(e) [d(edit)].

408

“Con quell’atto di munificenza spese cento milioni di sesterzi, generosità accolta con tanto maggior favore da parte del popolo, in quanto era noto che egli [Tiberio] era economo nelle sue dimore personali” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

notevolmente accresciuti.In più, proprio per la gestione dell’Egitto, scoppiò un’aspra contesa tra Germanico e lo stesso imperatore.

Germanico, tra il 16 e il 19, si era recato in Egitto per conoscerne la storia e la magnificenza della sua antichità, violando però un decreto che era già stato di Augusto, e pienamente accettato da Tiberio, ossia quello di non recarsi in quel territorio senza aver ottenuto un’autorizzazione dall’Imperatore. Per di più, durante questa sua visita, Germanico si trovò di fronte il popolo egiziano che lo osannava e, quando si accorse che quella gente era colpita da una grave carestia, aprì i granai pubblici, diminuendo il prezzo del cereale e concedendo distribuzioni gratuite.

Sed cura provinciae praetendebatur, levavitque apertis horreis pretia frugum multaque in vulgus grata usurpavit [Tac., Ann., II, 59, 1]409.

Soprattutto in seguito a questo episodio la rivalità tra i due si fece sempre più grave, poiché il comportamento di Germanico, agli occhi di Tiberio, aveva leso gli interessi degli approvvigionamenti granari per l’Italia e per Roma, in particolare.

Nei capitoli successivi dello stesso libro Tacito annovera un aumento dei prezzi dei viveri che inferocì la plebe romana.

Per quanto i due momenti potrebbero avere un filo conduttore e la loro trama risulti sicuramente avvincente, mancano, come sottolinea Yavetz410, riscontri certi per dimostrare una relazione diretta tra i due eventi.

Ciò che si può, invece, certamente sostenere è che difficilmente la reale causa dell’ira di Tiberio nei confronti di Germanico possa essere attribuita alle abitudini filo-provinciali che Germanico aveva assunto411. In realtà, l’accusa di filoellenismo non era nuova, avendo già colpito quei personaggi ritenuti scomodi412.

Nello stesso periodo, molto scompiglio vi fu anche in Africa, sconvolta per diversi anni dalla guerriglia condotta da Tacfarinas contro il governo e il presidio romano lì stanziato, nonostante

409

“La preoccupazione per la carestia che tavagliava quel paese fu la causa del suo viaggio; là egli [Germanico], aprendo i granai dello Stato, fece diminuire il prezzo del grano; praticò molte consuetudini gradite al popolo” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

410

Z. YAVETZ, Tiberio: dalla finzione alla pazzia, Bari 1999, pp. 23-24.

411

Sine milite incedere, pedibus intectis et pari cum Graecis amictu, P. Scipionis aemulatione, quem eadem factitavisse apud Siciliam quamvis flagrante adhuc Poenorum bello accepimus. [Tac., Ann., II, 59, 1]. “andare in giro senza scorta armata, con calzature aperte e con mantelli alla moda dei Greci, emulando Publio Scipione, che secondo gli storici fece lo stesso in Sicilia, pur nel pieno della guerra contro i Cartaginesi” [(a cura di) E. ODDONE-M.CALTABIANO, Tacito, Annali, Milano 1978].

questi, in passato, avesse militato nell’esercito romano come ausiliario. Dopo aver disertato, cominciò a raccogliere briganti per dar vita alle proprie azioni.

Tacfarinas mise realmente a dura prova le forze romane, con continui assalti e, spesso, con violente devastazioni e attacchi nei villaggi.

Eodem anno Tacfarinas, quem priore aestate pulsum a Camillo memoravi, bellum in Africa renovat, vagis primum populationibus et ob pernicitatem inultis, dein vicos exscindere, trahere graves praedas

[Tac., Ann., III, 20, 1]413.

La guerriglia prolungata nello stesso territorio non rendeva agevoli le comunicazioni e nemmeno fiorente la produzione di grano, con conseguente difficoltà, per Roma, nel reperirlo.

Tacito, però, probabilmente, esaspera il racconto dicendo, tra le altre cose, che Tacfarinas inviò dei messi a Tiberio con la pretesa del riconoscimento di un territorio per sé e per il suo esercito414. Sicuramente era un avversario forte e capace, ma era pur sempre un ribelle e un disertore: i Romani non erano, cioè, alle prese con re o sovrani di altre terre.

La battaglia terminò definitivamente soltanto nel corso dei primi anni venti, grazie all’intervento di Dolabella, al quale Tiberio negò le insegne trionfali415. Questo gesto ebbe però l’effetto boomerang di accrescere tra il popolo la fama di Dolabella e di diminuire quella del Principe.

Dolabellae petenti abnuit triumphalia Tiberius [...] et huic negatus honor gloriam intendit: quippe minore exercitu insignis captivos, caedem ducis bellique confecti famam deportarat.

[Tac., Ann., IV, 26, 1]416.

Ancora nel IV libro degli Annali di Tacito ci si imbatte in un passo degno di nota e meritevole di un approfondimento:

413 “In quello stesso anno Tacfarinas che nella precedente estate, come ho narrato, era stato cacciato da Camillo, rinnovò

la guerra in Africa, prima con devastazioni fatte un po’ qua e un po’ là, così fulminee da rimanere impunite, poi distruggendo villaggi, e catturando grande bottino” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

414 Cfr., Tac., Ann., III, 73, 1-2. 415 Cfr., Tac., Ann., IV, 23-26. 416

“Tiberio negò a Dolabella, che le chiedeva, le insegne trionfali […] l’onore negato accrebbe la fama, poiché con un esercito più piccolo aveva catturato prigionieri di gran conto, aveva riportato la gloria di aver ucciso il capo e di aver condotto a termine la guerra” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

I tributi in frumento, le imposte in denaro e ogni altra entrata statale erano in appalto a società di cavalieri romani [...] La plebe subiva sì il flagello di dure carestie, ma il principe non ne aveva colpa alcuna, anzi cercò di porre rimedio alla sterilità della terra e alle difficoltà dei trasporti via mare con tutto l’impegno e la diligenza possibili.

[Tac., Ann., IV, 6].

Questo passo è molto importante, in quanto consente di avere un margine un po’ più ampio circa il comportamento di Tiberio in materia economica, e del grano nello specifico.

Le righe su riportate ci permettono di sapere quanto fosse potente e potenziato il ceto equestre, da sempre la classe imprenditoriale e capitalistica romana.

Il ceto mercantile, infatti, sfruttava il commercio del grano, non perché questo fosse utile ai loro introiti – poiché merce poco redditizia sul mercato – ma per la possibilità del commercio stesso. Ciò si pone nel solco di un recente passato se si pensa, ad esempio, alla figura di Catone.

Catone, così come Tiberio, infatti, pur cercando di difendere il lavoro del contadino e disprezzando la degenerazione dei costumi, era interessato, in realtà, ad acquisire maggiori ricchezze.

Ex quo genere comparationis illud est Catonis senis: a quo cum quaereretur, quid maxime in re familiari expediret, respondit: ‘Bene pascere’; quid secundum, ‘Satis bene pascere’; quid tertium? ‘Male pascere’; quid quartum, ‘Arare’. Et cum ille qui quaesierat dixisset, ‘quid faenerari?’, tum Cato ‘Quid hominem – inquit – occidere?’.

[Cic., De off., II, 25, 89]417.

Gli interessi economici di Catone, a detta di Plutarco, si spingevano ben oltre: ad un certo punto della sua vita l’agricoltura divenne un passatempo e i suoi introiti derivavano piuttosto dall’acquisto di “bacini, sorgenti di acque calde, luoghi riservati a tintorie, fabbriche di pece, terreni ricchi di pascoli naturali e di bosco”418

.

Attraverso questo breve accenno alla figura di Catone, abbiamo potuto notare quanto diversi potessero essere gli interessi commerciali, non strettamente connessi con l’agricoltura o la distribuzione delle terre.

In più, Catone stesso scrive chiaramente che i prodotti destinati alla vendita sono olio e vino, mentre il grano deve essere venduto solo quando eccede, quod supersit419.

Si può evincere il rapporto tra Tiberio e i negotiatores e mercatores, proprio in relazione al

417

“Di un genere analogo di paragone è quel detto di Catone, il quale, richiesto da un tale che cosa avvantaggiasse di più il patrimonio, rispose: ‘Allevare bene il bestiame’; e che cosa per seconda ‘Allevarlo sufficientemente bene’; e che cosa per terza ‘Allevarlo male’; e che per quarta ‘Arare’. Ed avendogli chiesto l’interrogante: ‘E che del dare ad usura?’, rispose Catone: ‘E che, dell’uccidere un uomo?’. [(a cura di) L. FERRERO e N. ZORZETTI, Cicerone, Lo Stato – Le leggi – I doveri, Torino 1997].

418 Plut., Cato Maior, XXI, 5. 419 Cat., De agri cult., II, 7.

commercio del grano.

Un monopolio imperiale del grano a Roma, nonostante questo fosse indispensabile per accattivarsi il consenso popolare, non credo possa essere esistito, in quanto avrebbe causato una parallela impennata dei prezzi.

“Basta il senso comune per far comprendere che la libertà dei commerci può giovare alla loro floridezza, e al mantenimento dell’equilibrio dei prezzi più assai di qualsivoglia monopolio e di qualsiasi artificio fiscale420”.

Tiberio, nello specifico, stabilì ottimi rapporti con i commercianti, proteggendo ed incoraggiandone l’attività. Nel 19, infatti, quando i prezzi salirono e la massa fu colpita dagli alti prezzi del raccolto, egli:

saevitiam annonae incusante plebe statuit frumento pretium, quod emptor penderet, binosque nummos se additurum negotiatoribus in singulos modios.

[Tac., Ann., II, 87, 1]421.

Il tutto potrebbe benissimo essere messo in relazione con la crisi agraria italiana: nonostante, infatti, abbondanti cereali giungessero dalle province, forse non erano sufficienti a garantire il fabbisogno della popolazione. Inoltre bisognava probabilmente provvedere ad avere delle riserve di grano, sia come prestazione annonaria, sia come acquisto dello Stato, con o senza intervento dei commercianti privati, poiché ciò avrebbe permesso, da una parte, di superare i reali bisogni della popolazione e, dall’altra, di evitare l’aumento dei prezzi sul mercato della piazza di Roma: un incremento costante delle risorse, infatti, manteneva un prezzo moderato del grano.

Così come sostenuto per Augusto, lo stesso si farà per Tiberio: ancora non si assisteva ad una piena centralizzazione delle due casse nelle mani dell’imperatore ed esisteva indubbiamente un commercio libero del grano, così come sicuramente giungevano a Roma ingenti quantitativi non sottoposti a stoccaggio, ma rimaneva lo Stato l’arbitro del prezzo del mercato.

Per l’esistenza, poi, di negotiatores e mercatores frumentarii ci viene in soccorso l’epigrafia.

Una bella e interessante epigrafe, oggi conservata a Roma, proviene da una casa vicino il Tevere, e ci testimonia l’esistenza di un certo Caius Iunio422

, il quale rivestì la carica di praefectus annonae e di procurator a rationibus.

Si ritiene questa epigrafe molto interessante poiché dedicata a Caius Iunio dai mercatores

frumentarii et olearii Afrari: il che lascia ampio margine per ammettere che il commercio pubblico

420 G. CARDINALI, Frumentatio, in Dizionario Epigrafico, 1962, p. 304.

421 “Perché la plebe accusava l’eccessivo costo dei viveri, egli [Tiberio] stabilì il prezzo del grano per i compratori,

dicendo che, da parte sua, egli avrebbe dato in aggiuta ai venditori due sesterzi per ogni moggio” [(a cura di) B. CEVA, Tacito, Annali, Milano 2009].

e privato del grano fosse molto intrecciato e condotto non da sprovveduti, ma da persone che conoscevano alla perfezione i problemi e le dinamiche, i bisogni e le aspirazioni del popolo romano e, magari, collaboravano insieme per un margine più ampio di guadagni e consensi. Questa stessa epigrafe, nel VI volume del CIL, è posta nella sezione riguardante l’ordine equestre.

Un’altra epigrafe, a testimonianza di quanto sinora detto, proviene dal teatro di Ostia e attesta la presenza di un certo Marcus Iunio, decurione e duumviro, ma anche mercator e addetto alla cura