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Il ruolo dello Stato nel commercio.

2. Elementi di economia antica e romana.

2.1. Il ruolo dello Stato nel commercio.

L’approvvigionamento alimentare, e di grano nello specifico, ha rappresentato un aspetto fondamentale di ogni società che ha parimenti causato incertezza, dal momento che il grano non era sempre facilmente reperibile, causando le parallele perdita di vita e di impatto per il condizionamento della vita culturale.

Ogni società ha poi realizzato una serie impressionante di meccanismi culturali per tamponare le variabili determinanti la carenza di cibo1.

Lo scienziato sociale ritiene, tuttavia, che alcune di queste variabili, quali, ad esempio, la frequenza, la durata, la regolarità, la gravità possano essere stabilite con una buona approssimazione; arrivando

1“Human communities have developed an impressive array of cultural mechanisms for buffering variability” [P.

HALSTEAD-J. O’SHEA, Introduction: cultural responses to risk and uncertainty, in (a cura di) P. HALSTEAD-J. O’SHEA), Bad year economics. Cultural responses to risk and uncertainty, Cambridge 1989, pp. 1-8. Qui, in particolare, cfr., p. 1.

a determinare, in singoli contesti, la struttura base dei maccanismi di difesa attuati da ogni società –

coping mechanism1.

L’indagine sulle variabili e sulle conseguenti risposte culturali hanno avuto importanti implicazioni sugli studi diacronici e sincronici delle discipline sociali: in altre parole, lo spunto offerto da tali discipline è quello di fornire, sincronicamente, uno strumento di analisi per indagare e spiegare una serie di fenomeni etnografici, i quali, però, suscitano molte controversie, in relazione alla loro spiegazione (se questa sia, cioè, funzionalista o non-materialista). Entrambi i processi, tuttavia, procedono essenzialmente nella stessa direzione e in maniera imperfetta “picking a puzzling aspect of human behaviour and then proceeding to explain it on an ad hoc basis in terms of some preferred cultural or environmental factor”2

.

Questo stesso approccio, però, potrebbe essere efficace anche per investigare le società più antiche. All’aspetto sincronico dobbiamo aggiungere quello diacronico, il quale presenta un insolito valore euristico per spiegare i cambiamenti a lungo termine, siano essi sociali e/o culturali.

La variabilità, secondo quanto affermato da Paul Halstead e John O’Shea, in particolare quella relativa alla grave e imprevedibile scarsità delle risorse vitali, crea una forte pressione allo stesso livello del comportamento umano; ragion per cui, la maggior parte dei meccanismi di tamponamento – buffering mechanisms – utilizzati dall’uomo sono di tipo culturale, di cui il più potente tende a divenire un meccanismo sociale: in questo senso, la variabilità ambientale è una forte forma di cambiamento sociale, da considerare ovviamente a lungo termine, la quale rappresenta anche uno dei punti cruciali e più difficili da studiare per le scienze sociali3.

A fronte di quanto sinora detto e per cercare di comprendere meglio alcuni rischi e fattori economici importanti sul problema dell’approvvigionamento alimentare, conviene, attraverso lo studio degli autori appena citati, offrire al lettore una definizione meno ambigua di variabilità. Il concetto di variabilità, infatti, può essere definito in due modi differenti: come l’andamento reale della variazione di approvvigionamento delle derrate alimentari, o come il funzionamento di questi stessi fattori, con uno spettro cioè che varia dallo studio sul clima, sui microorganismi fino allo stesso giudizio umano, i quali condizionano molto la disponibilità di una determinata risorsa alimentare: gli aspetti rilevanti sono, in ogni caso, tempistica, frequenza e gravità nella carenza del cibo. Ad ogni modo, qualsiasi fonte di variabilità presenterà, di fondo, tre caratteristiche

1

Cfr., P. HALSTEAD-J. O’SHEA, Introduction, 1989, cit., p. 1.

2 P. HALSTEAD-J. O’SHEA, Introduction, 1989, cit., p. 1. 3 Cfr., P. HALSTEAD-J. O’SHEA, Introduction, 1989, cit., p. 2.

diagnostiche: struttura temporale, struttura spaziale e intensità relativa, di utilità per cercare di allontanare le calamità derivanti dalla scarsità dei raccolti.

Quando ci riferiamo alla struttura spaziale, dobbiamo considerare due elementi: la scala temporale, oltre cui un determinato rischio può presentarsi, e la durata della stessa scarsità che ne deriva. La struttura spaziale si riferisce, invece, alla dimensione dell’area: tra gli aspetti ad essa concatenati vi sono, ad esempio, l’omogeneità di un medesimo territorio, quanto e come cioè, un determinato rischio è diffuso nella stessa area. E l’intensità si riferisce, nello specifico, alla gravità della mancanza dei raccolti e al grado di variazione della stessa scarsezza. Riferiscono P. Halstead e J. O’Shea che “a particular cause of crop failure may be consistent or variable in the severity of its effects. Intensity may, therefore, be seen as having both a temporal and a spatial component”1

. La Roma di Augusto, e in generale la Roma di tutta l’età imperiale, contava una popolazione pari circa a un milione di abitanti, o forse più: cifra che, da quanto si può evincere dai dati di cui si dispone, rimase invariata fino al IV secolo d.C. La città di Roma è stata definita, a ragione, come una delle più imponenti metropoli del mondo antico, il cui numero di abitanti sarà raggiunto, nell’Occidente europeo, solo agli inizi del XIX secolo da Londra.

Nei primi secoli della storia imperiale di Roma, infatti, la popolazione è stata stimata circa in un milione di abitanti, con una necessità di importazione alimentare pari circa a 150.000-300.000 tonnellate (per un totale che si aggirava intorno ai 20-40 milioni di modii) di grano all’anno. A queste, vanno aggiunte le riserve di olio e vino, le cui importazioni erano più convenienti allo Stato Romano se effettuate via mare.

È ovviamente palese il fatto che la questione relativa al suo approvvigionamento non sia mai stata lasciata al caso o alla sola azione di privati, dal momento che, diversamente da quanto avverrà per l’Europa del XIX secolo, Roma non conobbe né la rivoluzione della produzione agricola, né quella dei mezzi di trasporto.

In particolare, come sottolinea, tra gli altri, Catherine Virlouvet, il problema dell’approvvigionamento della Città in età imperiale è un dibattito ancora aperto e ampiamente discusso, sintetizzato dalla stessa attraverso due interrogativi principali: “qual è il ruolo giocato dallo stato da un lato, e dai privati dall’altro, nell’approvvigionamento di questo milione di bocche? È possibile scorgere un’evoluzione nel ruolo rispettivo giocato da stati e privati?”2

1

P. HALSTEAD-J. O’SHEA, Introduction, 1989, cit., p. 3.

2 Cfr., C. VIRLOUVET, L’approvvigionamento di Roma imperiale: una sfida quotidiana, in (a cura di) E. LO

Un punto cruciale è indubbiamente rappresentato dal capitale e dalla gestione di questo da parte dello Stato Romano; punto che aiuta a comprendere meglio anche l’analisi dell’agricoltura in ambito romano (includendo sia l’età repubblicana che quella imperiale).

Il capitale è necessario per bilanciare i diversi fattori di produzione e per fornire flessibilità e opportunità di lavoro e di innovazione dei mezzi agricoli, in genere.

Di solito i piccoli proprietari di terre (che non oltrepassavano i 10-30 ha di terreno da coltivare) avevano mezzi sufficienti per possedere schiavi e buoi; i grandi possidenti, invece, avevano molta terra e un parallelo capitale da investire, ma resta caratteristica la loro capacità di coinvolgere capitali esterni nelle aziende agricole.

Questa particolarità è stata messa bene in evidenza da Paul Erdkamp, il quale ha spiegato magistralmente questo fenomeno, servendosi di Plinio il Giovane quale fonte principale di analisi, attraverso l’esempio dei contraenti (che acquistavano, trasformavano e/o vendevano i raccolti di vitigni e uliveti) e gli affittuari i quali, nella proprietà di Plinio, possedevano anche capitali da investire e spesso offrivano il loro lavoro quale parte del patto (come avveniva nei possedimenti imperiali nel Nord Africa)1.

In definitiva, seguendo Paul Erdkamp, si può aggiungere che: “Agricultural surplus may be defined as total harvest minus seed and minus consumption by agricultural workers and farm animals. In other words, it is that part of total production which is not required to continue production”2

.

In generale, dobbiamo ricordare che, dalla Repubblica ad Augusto, si assiste ad una evoluzione continua dell’economia, anche in funzione del progresso politico-militare, fino a raggiungere il suo apogeo con l’impero.

Roma fece poi giungere al suo interno alimenti da ogni parte possibile del Mediterraneo: sia che il grano fosse offerto a Roma come tributo, sia acquistato dalle autorità competenti dello Stato, il suo movimento avveniva tramite redistribuzione.

Se poi tale movimento era causato dalla vendita di grano mediante agricoltori, vi erano una serie di scambi di mercato, anche se il cereale era acquistato da gettiti fiscali3.

1

Cfr., P. ERDKAMP, The Grain Market in the Roman Empire. A social, political and economic study, Cambridge 2005, p. 33. Il passo di Plinio citato é Plin., Epist., 9, 37, il cui commento dettagliato é presente nell’opera appena citata alle pp. 26-30.

2

Cfr., P. ERDKAMP, The Grain Market, 2005, cit., p. 34.

3 Cfr., P. TEMIN, The Economy of the Early Roman Empire, in The Journal of Economic Perspectives, vol. 20, nr. 1,

Un elemento importante, messo in evidenza da uno studio di Hopkins, consiste in un riesame delle tasse imposte da Roma alle province, la maggior parte delle quali erano pagate in denaro. “ [...] the tax obligations were too large for customary or reciprocal actions to accomplish them”1

. Inoltre, seppur, ad esempio, buona parte delle tasse imposte all’Egitto e all’Africa fossero pagate in natura mediante il grano, solo una piccola parte di esse (circa il 15/30%) era destinata al servizio annonario e, quindi, alle distribuzioni alla popolazione: il resto rimaneva in mano di privati che, per mezzo anche di navi proprie, lo immettevano nuovamente sul mercato.

Stabilire, quindi, il prezzo del grano per Roma in maniera grossomodo definitiva risulta difficile anche perché viziato dalle distribuzioni gratuite promosse dall’annona, nonostante qualche cifra occasionale sia sopravvissuta, mediante la documentazione letteraria, epigrafica e papiracea.

Per questo motivo, il grano era requisito e coltivato un po’ dappertutto, per la consumazione e la spedizione locale, sia ovviamente per alimentare la richiesta dell’Urbe: in linea di massima, il prezzo del cereale nelle zone periferiche doveva essere più basso, sicuramente rispetto a Roma, “the largest location of excess demand for wheat”2

.

Peter Temin, in maniera sintetica ed efficace, ci propone uno schema, nel quale inserisce sull’asse verticale i prezzi locali del grano e su quello orizzontale le distanze da Roma: egli, in particolare, regredisce sei differenze nei prezzi del grano a Roma e in altre località versus le distanze oltre mare da Roma.

Prendendo come coefficiente il costo stesso del trasporto del grano, egli ha notato una regressione pari a 0,74, arrivando a stabilire che ci furono momenti in cui il trasporto del grano non era disponibile, probabilmente in annate di cattivi raccolti, anche se sarà difficile stabilire cosa sia accaduto realmente, data anche la rugosità e lacunosità delle informazioni a nostra disposizione: in ogni caso, il commercio nel Mediterraneo, almeno per ciò che attiene i primi anni dell’era imperiale, sembra sia stato florido, nonostante la linea tra mercato pubblico e mercato privato non fu mai totalmente netta3.

Inoltre, nonostante Peter Temin abbia cercato di stabilire il prezzo del grano attraverso un’oscillazione tra i 4 e i 6 HS per modio, uno dei veri problemi, per cercare di ricostruire la storia dell’economia di mercato di Roma, proviene proprio dalla difficoltà di non avere una serie continua

1

P. TEMIN, Economy of the Early Roman Empire, 2006, cit., p. 137.

2 P. TEMIN, Economy of the Early Roman Empire, 2006, cit., p. 138.

di prezzi di molti beni di consumo e di prima necessità, e le parallele modifiche, con l’impossibilità quindi di poterli comparare tra di loro: abbiamo solo esempi di casi isolati.

Ma una città come Roma, in cui si pagavano affitti, in cui i datori di lavoro pagavano i salari ai lavoratori liberi e noleggiavano schiavi, in cui ancora i viaggiatori pagavano il cibo e le bevande per loro stessi e per i propri animali, dimostra la presenza di una vera e propria economia di mercato, svolta principalmente mediante scambio di soldi1.

Gli Stati medievali e alcuni dei tempi moderni potevano scegliere, per l’approvvigionamento delle città e delle capitali, tra una politica dell’ “annona” (nel senso di una politica diretta dei rifornimenti, mediante la creazione di scorte di proprietà del Governo e di distribuzioni a prezzo fisso o gratuite) e una politica di “polizia di grano” (stretto controllo dei mercanti e dei privati); si poteva anche adottare un misto tra le due soluzioni.

In qualche modo, anche a Roma accadeva la stessa cosa. Lo Stato Romano attribuiva un ruolo di primo piano alla politica annonaria, senza, tuttavia, opporsi all’esistenza di un commercio privato, anche in materia di approvvigionamento in grano dell’Urbe: lo Stato, cioè, interveniva, in entrambi i casi, per ciò che atteneva il commercio dei cereali.

Guéry, a proposito degli scambi e dei mercati dell’Ancien Régime, scriveva che: “nourrir le peuple ou s’assurer qu’il est bien nourri est un des attributs de la royauté”2

.

Come afferma Jean Andreau, questa frase, ad eccezione della parola ‘regalità’, può essere applicata anche alla Roma della fine della Repubblica o dell’Alto Impero3

.

Il ruolo dello Stato, in materia di scambi e di commercio, è duplice, con un versante economico e uno più prettamente sociale.

In particolare, da una parte, contro le attività private, economiche e non, il compito dello Stato è di natura disciplinare: ha il diritto e il dovere di esercitare una regolamentazione, di far trionfare la legalità e regnare l'ordine; dall’altra, il suo dovere è quello di assicurare a ciascun gruppo e a ciascuna persona vantaggi compatibili con le leggi e i bisogni della città e dei poteri pubblici, come, ad esempio, rendere crediti ai commercianti e agli armatori, così come ai cittadini o ai peregrini. Il

1

Cfr., P. TEMIN, A Market Economy in the Early roman Empire, in The Journal of Roman Studies, vol. 91, 2001, pp. 169-181. Qui, in particolare, cfr., pp. 173-174.

2 Cfr., A.GUÉRY, Échanges et marchés d'Ancien Régime, Bulletin du MAUSS, 9, 1er trimestre 1984, pp. 117-130.

Qui, nello specifico, p. 121.

3

Cfr., J. ANDREAU, La cité romaine dans ses rapports à l'échange et au monde de l'échange, in Économie antique. Les échanges dans l'Antiquité: le rôle de l'État, Saint-Bertrand-de-Comminges 1994, pp. 83-99. Qui, in particolare, pp. 92-93, nelle quali questo concetto è anche reso esplicito, mediante il riferimento a numerosi testi di autori antichi.

commercio, in ultima istanza, si presenta come una legge applicabile a tutti e, nello stesso tempo, come un progetto di diritto professionale, esercitato sui gruppi piuttosto che sull’attività.

A questo, come sottolinea ancora Andreau, non va dimenticato l’aspetto sociale, e politico insieme: ossia assicurare l’approvvigionamento della città, in grano in particolar modo. “C’est donc par le biais de la consommation que les pouvoirs publics se préoccupaient de l’intérêt économique de l’ensemble de la population, ou du moins de l’ensemble des citoyens”1.

Ai fini della tematica qui proposta, seguendo anche le direttive della New Institutional Economic (NIE) e, in particolare le linee guida di Peter Klein, cerchiamo di offrire qualche elemento più preciso circa le reali implicazioni e il ruolo giocato dallo Stato Romano in materia economica, “is to explain what institutions are, how they arise, what purposes they serve, how they change and how – if at all – they should be reformed”2.

Un altro asserto importante, elaborato da un altro dei seguaci della NIE, Yoram Barzel, è la definizione di diritti economici, i quali rappresenterebbero la capacità di un individuo di consumare, direttamente, i servizi di un bene o, indirettamente, di usarli mediante lo scambio3.

Ancora, secondo Dennis P. Kehoe, la teoria dei costi di transazione si presta bene a spiegare i legami economici esistenti tra le varie tipologie di possesso della terra e le leggi sorte per regolare tale possesso.

Sempre secondo tale studioso, questo tipo di approccio, basato appunto sui costi di transazione, si presta bene a spiegare la persistenza di alcune forme di possesso che la sola economia neoclassica avrebbe difficoltà ad accettare e, quindi, spiegare: effettivamente, l’Impero Romano finanziò spesso, anche a costo di cifre proibitive, le piccole proprietà, quale mezzo, evidentemente, per portare ad economie di scala e ad una maggiore produttività dell’agricoltura4

.

Le leggi agrarie furono promulgate con continuità, anche se il problema dell’approvvigionamento in cereali non fu mai risolto in maniera definitiva: nonostante ciò, lo Stato continuò sempre a giocare le sue carte attraverso un’abile costruzione di queste leggi.

1 Cfr., J. ANDREAU, La cité romaine, cit., 1994, p. 96.

2 P.G. KLEIN, New Institutional Economics, in B. BOUCKAERT-G. DE GEEST, Encyclopedia of Law and

Economics, I, Cheltenham (UK)-Northampton (MA) 2000, pp. 456-489. Qui, nello specifico, cfr., p. 456; D. P. KEHOE, Law and rural economy in the Roman Empire, Michigan 2007, pp. 3-4.

3

Il diritto economico é “an individual’s ability, in expected terms, to directly consume the services of an asset, or consume it indirectly through exchange.” [Y. BARZEL, A Theory of the State: Economic Rights, Legal Rights, and the Scope of the State, Cambridge 2002, p. 15]. D. W. Allen, invece, definisce questi diritti come la capacità di esercitare una libera scelta in relazione all’utilizzo di un bene o di un servizio. Cfr., D. W. ALLEN, Transactions Costs, in B. BOUCKAERT-G. DE GEEST, Encyclopedia of Law and Economics, I, Cheltenham (UK)-Northampton (MA) 2000, p. 898; S. Shavell, ancora, distingue tra “possessori di diritti” – che permettono di usufruire delle loro cose, evitando ad altri il loro utilizzo – e “diritto di trasferire un diritto possessorio”. Cfr., S. SHAVELL, Foundations of Economic Analysis of Law, Cambridge MA, 2004, pp. 9-26; D. P. KEHOE, Law and rural economy in the Roman Empire, Michigan 2007, pp. 32-33.

Durante l’Impero, ad esempio, i piccoli proprietari furono da sempre sostenuti e protetti nelle dispute sorte con i grandi possidenti di terre, nonostante fosse evidente come il governo centrale tendesse ad avere dalla propria parte il forte potere economico delle classi più ricche.

Effettivamente, pur patteggiando la causa dei più deboli, era difficile, per questi, recarsi presso i tribunali, solitamente sotto l’influenza dei ceti imprenditoriali e mercantili romani, per dirimere e risolvere conflitti sorti in materia agraria (e non solo), che finivano per cadere nel dimenticatoio e non essere mai aperti e affrontati.

Lo sviluppo di estese proprietà private e il parallelo inserimento dello stesso Stato, quale possessore di terre, hanno contribuito a saldare il ruolo delle istituzioni nelle campagne.

Attraverso uno studio comparativo di W. Jongman e R. Dekker, verranno qui sintetizzate alcune tra le principali forme di intervento statale, i loro contesti e il risultato della loro applicazione, partendo da due asserti imprescindibili: la numerosa popolazione di Roma; “the concentration of imperial power in the hands of a small Roman elite provided the impetus for the emergence of an imperial capital with some one million inhabitants”1

; e, nel libero mercato, i cattivi raccolti che procedono paralleli all’incremento dei prezzi, determinando una fuoriuscita dallo stesso mercato dei poveri consumatori, per i quali il prezzo del cereale diventa proibitivo.

Lo Stato Romano interveniva, quindi, spesso ma non in senso morale e civile, quanto piuttosto per scansare il pericolo di rivolte popolari2.

Un metodo da poter utilizzare sarebbe quello di analizzare il problema a partire dalla domanda, eliminando dalle donazioni di frumento alcune categorie sociali: questo si verificò in alcuni periodi drammatici creatisi per forti carenze di grano, come avvenne per gli stranieri nel 6 d.C.3

La regolamentazione della voce “offerta” offre maggiori strategie da effettuare, migliorando, ad esempio, le condizioni di produzione, legiferando a favore di un controllo più stretto sulla burocrazia, sulla produzione, sul commercio e la lavorazione dei cereali. Tutti questi processi possono prendere avvio dalla semplice canalizzazione dei fiumi, per arrivare al sistema delle esenzioni fiscali.

Tutto ciò passa quasi inevitabilmente in secondo piano, nei periodi di grave penuria del cereale, durante i quali si impedì, ad esempio, ai commercianti di esportare le scorte di grano stivate nei magazzini in altre città o, in particolare, in quelle città in cui la carestia era ancora più forte e i prezzi più elevati.

1

W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 118, con i relativi riferimenti alle opere di altri studiosi.

2 Cfr., W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 118, i quali riportano anche

un episodio recente avvenuto in Tunisia.

3

Cfr., G. RICKMAN, Corn Supply, 1980, cit., p. 63; Episodi simili si verificarono anche nei secoli successivi, a Leida e Amsterdam. Per maggiore completezza, cfr., W. JONGMAN – R. DEKKER, Public intervention in the food supply, 1989, cit., p. 118.

Un’altra manovra di intervento potrebbe essere quella di fissare il prezzo del grano, il quale può