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Concezione del denaro, attività di prestito e nascita dei monti di pietà

Capitolo 1: Nascita del Monte di Pietà di Verona e quadro giuridico

1. Concezione del denaro, attività di prestito e nascita dei monti di pietà

Molto si è già scritto sul contesto culturale e sugli ideali economici dominanti durante il periodo della venuta in essere dei monti di pietà; non intendiamo dunque delineare una sintesi bibliografica in merito, ma alcune riflessioni risulteranno sicuramente utili17. Anzitutto, v’è da rilevare che la letteratura, se non è concorde sul ruolo svolto dai banchi di pegno cristiani nel promuovere la nascita del moderno concetto di banca18, non è unanime nemmeno sulla

funzione storica svolta da queste pie istituzioni al momento della nascita. Infatti, mentre Garrani afferma che

Nei secoli XIV e XV la miseria era diffusa in tutta l’Europa, ed anche in Italia: l’usura, coi suoi alti saggi di interessi, opprimeva e deprimeva la gente delle città e delle campagne.

In questo clima di grave disagio economico i Francescani tentarono, in un primo tempo, di estirpare il prestito ad interesse, ma ciò, non riuscì, ed allora cercarono di svellere dal terreno economico l’usura, facendosi essi stessi creatori di istituti di credito per la erogazione di prestiti senza interesse, specialmente per tenui importi e nei primordi. Vi fu dunque un adattamento pratico alle esigenze dei tempi, non senza contrasti, lotte, ed urti nelle concrete applicazioni19.

Montanari, come già Mira nel 195820, ma a distanza di quasi mezzo secolo, contesta questa visione, sottolineando che:

Fino a pochi anni orsono la gran mole di studi locali sui Monti non riusciva a sottrarsi ad alcuni luoghi comuni, uniformemente diffusi. Da un lato veniva enfatizzato il ‘mito delle origini’, facendolo assurgere a momento topico della catarsi economico-sociale della comunità fondante, dall’altro scattava il processo di demonizzazione della presenza ebraica, letta come idrovora del ‘sangue cristiano’. Le forze del bene, impersonate dall’iperattivismo predicatorio-organizzativo dei Francescani Osservanti, s’incaricavano di sconfiggere le tendenze disgregatrici del tessuto finanziario urbano, imponendo un drastico ridimensionamento delle attività feneratizie ebraiche ed erigendo i Monti di Pietà21.

17 Nel corso della trattazione ci riferiremo ai monti di pietà quale istituzione promossa e diffusa soprattutto dalla

predicazione francescana. A onor del vero, ricordiamo che la «idea dei Monti non era originaria del Quattrocento: il termine mons inteso come accumulo di moneta o di doni provenienti dalla carità era molto antico. Tertulliano riferisce di «deposita pietatis» per indicare offerte destinate a sostenere i bisognosi. «Mons Christi», «Monte d’oro», «Monte della carità», «Monte dei poveri», «Presto o Camera de’ pegni» e molte altre denominazioni concordano nei primi secoli della cristianità a indicare istituzioni orientate a raccogliere le elemosine per sostenere gli indigenti. La definizione appropriata e che distingue i Monti di Pietà come istituti per il credito e le precedenti organizzazioni è molto tarda, risale a papa Giulio II [sic] che nel 1596 definisce i Monti come istituti di beneficenza che erogano denaro ai bisognosi contro pegno, «al fine di proteggerli dalle spoliazioni degli usurai»»; T. FANFANI, Sulle origini «etiche» del credito: dai Monti di Pietà alla banca moderna, «Bancaria», LIX (2003), I, pp. 3-4.

18 Montanari parla di sterilità di ogni dibattito in merito, polemizzando con Garrani; MONTANARI, Il credito e la

carità, I, p. 11.

19 GARRANI, Il carattere bancario, pp. 1-2.

20 MIRA, Intorno al carattere bancario, pp. 529-532. 21 MONTANARI, Il credito e la carità, I, p. IX.

Se è vero che nel tempo la polemica anti-ebraica svolse un ruolo di primaria importanza per la vita dei monti di pietà, forse è esagerato porla quale elemento fondante di un’istituzione che ha avuto una così lunga storia. Riteniamo senz’altro più realistico ricercare le radici dei monti nelle concezioni economiche cristiane dominanti per tutto il Medioevo e ancora decisamente influenti all’inizio dell’Età Moderna. Lo stesso Barbieri, peraltro, riconosce una punta di antisemitismo nella predicazione del Beato Bernardino da Feltre, forse il più grande dei propagandisti dei nuovi luoghi pii, ma specificando che:

Le sue invettive a quest’ultimo proposito sono note, com’è noto un certo antisemitismo, che i pochi suoi sermoni fino ad oggi conosciuti ci hanno rivelato. Ma chi esamina le prediche bernardiniane di Pavia del 1493, avverte ch’è ben ridotto tale atteggiamento, contraddittorio, del resto, con la sua stessa vocazione di universale umanità.

Attaccò gli ebrei, in veste di prestatori, che arrivavano – lo dice in una predica pavese sunteggiata da un suo confratello – ad esigere interessi inauditi. Attaccò più ancora i cristiani, quando soli o associati agli ebrei facevano assai duramente pesare il loro capitale sul mondo dei bisognosi22.

Del resto, se le predicazioni dei frati, che spesso ponevano al centro la lotta contro l’usura, suscitavano grandi correnti di entusiasmo23, e Bernardino da Feltre si permetteva di dire nel 1493 all’Università di Pavia, quindi non davanti ad un pubblico di sempliciotti, che il monte di pietà «placa l’ira di Dio, mette in fuga i peccati, salva l’anima, arreca sollievo ai corpi, aiuta i poveri, allevia i ricchi, caccia i giudei»24, non ci sentiamo certo di concludere che i

predicatori fossero tutti dei cinici profittatori desiderosi di eliminare gli ebrei in quanto concorrente economico o che le persone che credettero nella funzione dei monti appartenessero tutte alla schiera dei “poveri sciocchi idealisti”, truffati da una lobby di avidi francescani.

La nascita dei monti di pietà non ebbe comunque vita facile e a renderne più difficile la fondazione giungeva la forte tradizione di opposizione al prestito ad interesse vigente in seno alla Chiesa cattolica25, le cui prime tracce vanno ricercate nella precedente legge ebraica.

Nell’Antico Testamento si riscontra un duplice atteggiamento nei confronti dei beni terreni. Da un lato apprezzamento: talora l’abbondanza è vista come una benedizione di Dio, e nella letteratura sapienziale la povertà è presentata come una conseguenza dell’ozio e della mancanza di laboriosità. Da un altro lato, i beni

22 G. BARBIERI, Il pensiero economico dall’Antichità al Rinascimento, Bari, Istituto di Storia Economica –

Università di Bari, 1960, p. 431.

23 GARRANI, Il carattere bancario, pp. 4-5. 24 MUZZARELLI, Il denaro e la salvezza, p. 87.

25 V’è comunque da osservare che l’attività di prestito praticata dagli istituti religiosi è precedente all’istituzione

dei monti, giungendo a coinvolgere anche gli ordini militari all’inizio del Basso Medioevo; cfr. A. DEMURGER, I

terreni e la ricchezza non sono condannati per se stessi, ma per il loro uso cattivo. I profeti bacchettavano gli imbrogli, l’usura, gli sfruttamenti specialmente nei confronti dei più poveri26.

Il “passo-chiave” della scrittura riguardo al tema dell’usura è contenuto nel

Deuteronomio, in cui si legge:

XXIII, 19: Non farai a tuo fratello prestiti a interesse, né di danaro, né di viveri, né di qualsivoglia cosa che si presta a interesse

XXIII, 20: Allo straniero potrai prestare a interesse, ma non al tuo fratello; affinché l’Eterno Iddio tuo ti benedica in tutto ciò a cui porrai mano, nel paese dove stai per entrare per prenderne possesso.

Questi versetti hanno causato più di una diatriba in epoca medievale, ma anche prima, interrogando i cristiani sul significato di fratello e straniero. L’avvento del Cristo aveva infatti quantomeno allargato l’attributo della fraternità, emancipandolo dal vincolo di sangue della tradizione giudaica. Riferisce Lattanzio:

Tra noi non ci sono né servi né padroni; non esiste altro motivo se ci chiamiamo fratelli se non perché ci consideriamo tutti uguali (…); schiavi e signori, grandi e piccoli sono uguali fra di loro (…), distinguendosi davanti a Dio solo per virtù27.

Alle soglie del primo secolo dell’era cristiana, invece, l’attività usuraia era molto diffusa, soprattutto dopo che la cultura ebraica era entrata nell’orbita di quella greco-romana28; nonostante i più illustri rappresentanti dello stoicismo medio, Panezio e Posidonio, avessero contribuito non poco alla diffusione, presso l’opinione pubblica, del disprezzo per coloro che praticavano l’usura29, la legislazione romana ammetteva la riscossione di tassi fino al 12%.

Venendo alla mentalità cristiana, vi è da ricordare che lo stesso Gesù aveva invitato a «non volgere le spalle a chi desidera da te un prestito»30. E contemporaneamente il Signore invitava i bisognosi a chiedere, perché «vi sarà dato»31. Peraltro, si badi, questa esortazione al

credito fraterno si accompagnava al famoso «prestate senza sperarne nulla»32.

L’ammissione della necessità di sostenere il prossimo ed il divieto contemporaneo di pretenderne un lucro saranno la costante della elaborazione teorica cristiana in tema di prestito ad interesse. È con Sant’Ambrogio da Milano (340-397) in particolare che si apre

26 L. DATTRINO, I Padri della Chiesa e l’usura. Beni terreni e salvezza eterna, Roma-Monopoli, Vivere In, 2005,

p. 31.

27 Riportato in Ivi, p. 35.

28 Cfr., tra gli altri, G. VIVENZA, Il 48% del “virtuoso” Bruto, «Economia e Storia», V (1984), pp. 211-225. 29 S. SCHIRONE, R. SCOGNAMIGLIO, Ricchi per ogni generosità. Economia e uso dei beni nel Nuovo Testamento,

Roma-Monopoli, Vivere In, 1998, p. 176.

30 Mt 5, 42. 31 Mt 7, 7-8. 32 Lc 6, 35.

un’interpretazione volta a considerare come fratello «colui che partecipa della tua stessa natura, co-erede nella grazia divina; ogni popolo dunque, il quale anzitutto viva nella fede, e poi sotto la legge romana»33. Non ci soffermeremo ulteriormente sul dibattito canonico riguardante il Deuteronomio, se non per sottolineare che i passi citati non furono utilizzati dai difensori dei monti di pietà a sostegno della propria posizione34.

Le Sacre Scritture non costituirono neppure l’unico fondamento del cristiano divieto di fenerare; la Chiesa fu sempre preoccupata che le classi inferiori non venissero sfruttate, ma anche attenta al predominio del lavoro sul capitale quale mezzo per guadagnare le risorse sufficienti alla sussistenza35. Secondo Barbieri, attraverso la fatica del lavoro, un individuo, pur perseguendo il proprio interesse, svolge anche un ruolo sociale, mentre l’usuraio non produce nessun tipo di ricaduta positiva36. Il principio della sterilità del denaro, richiamato anche da San Tommaso sulla base di Aristotele, «ripete la sua giustificazione in quello suaccennato, non avendo altrimenti senso l’accostamento del divieto di usura alle norme regolanti le società di animali, in cui si proibisce, come già notammo, il patto di dividere i frutti, salvo sempre il capitale»37. In questo contesto, i casi di lucro cessante, danno emergente e periculum sortis, eccezioni che giustificano la riscossione di un interesse su prestito, servono semplicemente a tutelare la proprietà privata38 e il godimento dei beni legittimamente acquisiti: i danni derivanti da una di loro eventuale privazione, anche temporanea, vanno risarciti, fatto salvo sempre il dovere del superfluo ai poveri e la subordinazione della vita economica a fini superiori39.

Ma nella elaborazione tomista i concetti monetari sono ancora quelli tradizionali, basati sul riconoscimento di due funzioni alla moneta, quella di misura dei valori e quella di mezzo di scambio40; quindi, soprattutto rispetto alle concezioni monetarie, la posizione dell’Aquinate resta legata ad Aristotele: il denaro è sterile e, di conseguenza, ogni prestito ad interesse va condannato41. Sarà solo con il De origine, natura, jure et mutationibus monetarum di Nicola Oresme (1325-1382)42, vescovo di Lisieux, che l’elaborazione teorica cristiana comincerà a

33 Passo ambrosiano riportato in B. NELSON, Usura e cristianesimo, Firenze, Sansoni, 1967, p. 28. 34 Ivi, p. 46.

35 G. BARBIERI, Ideali economici degli italiani all’inizio dell’Età Moderna, Milano, Giuffrè, 1940, p. 75. 36 Ivi, p. 75.

37 Ivi, p. 75.

38 Che Leone XIII, con la Rerum Novarum del 1891, riconoscerà come diritto naturale. 39 BARBIERI, Ideali economici degli italiani, p. 75.

40 BARBIERI, Il pensiero economico, p. 287. 41 Ivi, p. 287.

42 L’opera di questo religioso fu pionieristica anche nel vasto campo della matematica superiore; fu, infatti, il

primo in Occidente che usò un sistema libero di coordinate e perfino delle potenze con esponenti frazionari; la sua concezione del numero fu incerta ma inconfondibile, diversa da quella degli antichi ma non ancora compiuta come quella araba. Cfr. O. SPENGLER, Il tramonto dell’Occidente, Parma, Guanda, 2005, p. 122.

subire delle modificazioni in materia monetaria, aprendo al concetto di produttività del capitale, cominciando ad intravedere una relazione inversa tra quantità e valore della moneta e sganciando essa dalla esclusività proprietaria del sovrano43. Il valore di questo trattato, pur senza nasconderne i limiti, è sottolineato anche da Schumpeter, nella sua monumentale Storia

dell’analisi economica44, e dalle lezioni di storia del pensiero economico di Lionel Robbins45. Tuttavia, già prima di Oresme, nel XIII secolo si erano avute aperture significative sull’uso del denaro, soprattutto per quel che riguarda la legittimazione dell’attività mercantile, prima annoverata dalla Chiesa in molti casi tra le iniziative usuraie: il canonista Burcardo di Strasburgo riconosceva la pubblica utilità del lavoro svolto dai mercanti, mentre l’inglese Tommaso di Cobham affermava che «ci sarebbe una grande indigenza in molti paesi se i mercanti non portassero ciò che abbonda in un luogo verso un altro luogo dove le stesse cose mancano. Così possono legittimamente ricevere il prezzo del loro lavoro»46. Si tratta di un notevole passo avanti, se ricordiamo che San Tommaso, secondo il quale v’è qualcosa d’ignobile nel commercio in sé, giustifica il guadagno commerciale solo in casi estremamente specifici: necessità di procacciarsi da vivere; desiderio di ottenere mezzi materiali per servire fini caritatevoli; desiderio di servire publicam utilitatem, purché il lucro sia moderato e possa esser considerato come la ricompensa di un lavoro (stipendium laboris); miglioramento della cosa commerciata; differenze di valore dovute a differenze di luogo; il rischio (propter

periculum)47.

In questo contesto, v’è da osservare, sulla scia del Barbieri, che l’istituzione dei monti «coincide con un momento estremamente significativo delle dottrine economiche e delle idealità maturate nel periodo umanistico-rinascimentale»48. Caduto, con Oresme, il nominalismo aristotelico, la moneta, liberata da vincoli feudali e politici, divenne mezzo di arricchimento per molte famiglie, che approfittarono della scarsità del denaro vigente nel periodo, ma accompagnata ad un aumento della domanda connesso con gli ideali “goderecci” e di sfarzo suggeriti dall’epoca49. Le speculazioni finanziarie dei grossi capitalisti non venivano a porsi semplicemente come ostacolo alla normale sopravvivenza dei poveri, ma imponevano un giogo pesante anche alle normali attività manifatturiere, che trovano dunque difficoltà crescenti per proseguire la propria fondamentale opera economica. Sant’Antonino

43 BARBIERI, Il pensiero economico, pp. 299-308.

44 J.A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, Volume I: Dai primordi al 1790, Torino, Bollati

Boringhieri, 1990, p. 116.

45 L. ROBBINS, La misura del mondo, Milano, Ponte alle Grazie, 2001, pp. 81-84.

46 J. LE GOFF, Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 148. 47 SCHUMPETER, Storia dell’analisi, I, p. 112.

48 BARBIERI, Il pensiero economico, p. 408. 49 Ivi, pp. 408-409.

da Firenze, Bernardino da Siena e Bernardino da Feltre furono i primi a riconoscere l’importanza del denaro quale fattore produttivo indispensabile al normale progresso della società50. E se Bernardino da Siena arrivava a dire degli usurai che «farebbero corde di liuto anche con le budella di Cristo»51, lo scopo del Feltrino, in particolare, era quello, pur nell’obbedienza alla canonica dottrina in materia d’usura, di elaborare forme nuove di sostegno alle categorie produttive: i monti di pietà diventano la grande battaglia di Bernardino proprio nella ricerca di questa duplice finalità, connessa anche alla lotta alla mania del superfluo che prendeva consistenza con l’Umanesimo.

La lotta contro il prepotere del danaro non fu limitata all’aspetto negativo dell’isolamento dell’usuraio, ma si arricchì in primo luogo – anche nell’oratoria del Nostro – di una precisa dottrina sul superfluo, che aveva le sue origini in un inequivocabile precetto evangelico. A mitigare il carattere vincolante di esso erano state invocate – com’è noto – le esigenze dello stato e anche del decoro: categorie troppo correnti nell’epoca bernardiniana, perché potessero venir disattese in quelle spettacolari adunanze di popolo. Ma proprio davanti agli uomini del Rinascimento il Piccolino52 tagliava corto con le incertezze mitigatrici di quel sacrosanto dovere di solidarietà, investendo con questo monito i suoi ascoltatori: è ben meglio rinunciare ai mezzi della propria grandezza che

privare il fratello della vita [corsivo dell’Autore]53.

Ma superare gli ostacoli dettati dalle concezioni antifeneratizie non fu facile; la disputa teologica vide contrapporsi da un lato i francescani, promotori dei monti, e dall’altro dominicani ed agostiniani, tra i quali ricordiamo in particolare Annio da Viterbo e Tommaso De Vio54, che, nunzio pontificio alla corte imperiale nella seconda decade del Cinquecento, era considerato al tempo il teologo più prestigioso, oltre ad essere un fervente avversario di Lutero55. Agostiniani e domenicani puntavano, nelle loro critiche, in particolare su due punti: anzitutto, l’interesse, anche piccolo, richiesto dai monti di pietà veniva additato come pratica usuraia56; in secondo luogo, si diceva, il principio di coprire, con gli interessi attivi, soltanto le spese di gestione non possedeva il carattere del puro e solo indennizzo, perché i monti realizzavano avanzi di gestione, derivanti da un’attività usuraia e quindi peccaminosa57. Queste considerazioni si univano alle obiezioni “storiche” al prestito con guadagno: la sterilità del denaro, il principio del mutuum date nihil inde sperantes58, la concezione dell’interesse come lucro su un bene non proprio, ovvero il tempo, che appartiene solo a Dio.

50 Ivi, pp. 410-411.

51 In DATTRINO, I Padri, p. 23.

52 Soprannome attribuito al Beato Bernardino da Feltre. 53 BARBIERI, Il pensiero economico, pp. 415-416.

54 R. SAVELLI, Aspetti del dibattito quattrocentesco sui monti di pietà: consilia e tractatus, in Banchi pubblici,

banchi privati e monti di pietà nell’Europa preindustriale, Genova, Società Ligure di Storia Patria, 1991, p. 544.

55 J.-M. SALLMAN, Carlo V, Milano, Bompiani, 2003, p. 264. 56 GARRANI, Il carattere bancario, p. 16.

57 Ivi, pp. 25-26. 58 Lc, 6, 35.

Come osservato molto propriamente dal Garrani, le obiezioni perdevano di consistenza nel momento in cui si scontravano con le finalità vere e proprie dei nuovi istituti di credito: essi puntavano a mitigare il saggio di interesse (visto che gli ebrei prestavano anche al 30%); senza la richiesta di un piccolo prezzo i banchi di pegno cristiani non sarebbero potuti sorgere, aggravando le condizioni dei poveri, costretti poi a ricorrere maggiormente allo strozzinaggio giudaico e cristiano. Di fatto, dunque, i monti andavano incontro alle esigenze economiche del tempo, soprattutto del popolo minuto. Inoltre, nell’idea del Piccolino i banchi di pegno non dovevano nascere come opera meramente assistenziale, ma come vero e proprio supporto alla vita economica. Con grande realismo egli capì che per funzionare essi avevano assolutamente bisogno di sostenere delle spese, dovute alla normale amministrazione: la conservazione dei pegni, la tenuta dei libri contabili, il pagamento di fitti per i locali e di stipendi per i ministri. Di conseguenza, va assolutamente distinta la sovvenzione al povero, ch’è gratuita, dalle attività di custodia e di amministrazione, le quali implicitamente comprendono un contratto di locazione di opere, che comporta un compenso, ovviamente da far pagare al beneficiario del servizio59; solo così i monti avrebbero potuto proseguire la propria benefica opera. Fu merito poi del frate-giurista Fortunato Coppoli l’aver elaborato dottrinalmente la soluzione del problema.

Al fine di aggirare i grossi ostacoli teologico-giuridici (petrinologici) posti dalle numerose norme giuscanonistiche contro il mutuo con interesse, il frate-giurista scompone abilmente la fattispecie della obbligazione di prestito su pegno (quello posto in essere dal Monte) in quattro rapporti giuridici fondamentali: il contratto di mutuo, il contratto di pegno, il contratto di locazione d’opera («facio ut des») ed il contratto di mandato. Mentre i primi due (in cui non si fa questione di interesse, dunque) intervengono fra i privati mutuatari e la Comunità operante per mezzo dei funzionari stipulanti gli atti, i quali ricevono i pegni in nome della stessa, che perciò è una delle parti di tali negozi, le altre due specie contrattuali – la locazione d’opera e il mandato – intercorrono tra i mutuatari e gli impiegati della istituzione, non considerati quali organi del Monte, bensì quali persone private, giacché sta a loro carico il rischio della perdita o del deterioramento dei beni pignorati e lo stipendio è loro dato in funzione del lavoro avente ad oggetto le operazioni di prestito e di pegno.

Esaminati i quattro negozi alla luce del diritto romano e del diritto canonico, Coppoli conclude dicendo che è lecito il Monte e sono legittimi i negozi giuridici posti in essere. In breve, concede, e non può fare diversamente, che il contratto di mutuo è per definizione teologico-giuridica, gratuito – lo era anche nel diritto romano – ma concorrendo con il mutuo altre figure giuridiche, e quindi altri atti legali, consegue che la creazione del Monte di Pietà assume per coloro che vi ricorrono un aspetto di onerosità: essa – e qui stanno le novità e