• Non ci sono risultati.

6. Il credito e l’impiego dei fattori produttivi »

7.3. Conclusioni »

Tabella 7.11 - Distribuzione provinciale delle Imprese Manifatturiere e del settore "Alimenta- re e delle Bevande" in Emilia-Romagna nel 2015

Alimentare Bevande

Alimentare e Bevande

Altre

Manifatturiere Totale n. inc. % n. inc. % n. inc. % n. inc. % n. inc. %

Imprese totali Piacenza 288 6,1 22 13,4 310 6,3 2.247 5,6 2.557 5,7 Parma 1.016 21,4 21 12,8 1.037 21,1 4.184 10,5 5.221 11,6 Reggio Emilia 579 12,2 21 12,8 600 12,2 6.122 15,3 6.722 15,0 Modena 841 17,7 30 18,3 871 17,7 8.913 22,3 9.784 21,8 Bologna 633 13,3 26 15,9 659 13,4 8.203 20,5 8.862 19,7 Ferrara 349 7,4 6 3,7 355 7,2 2.249 5,6 2.604 5,8 Ravenna 400 8,4 7 4,3 407 8,3 2.388 6,0 2.795 6,2 Forli' - Cesena 364 7,7 21 12,8 385 7,8 3.357 8,4 3.742 8,3 Rimini 276 5,8 10 6,1 286 5,8 2.342 5,9 2.628 5,9 E.R. 4.746 100,0 164 100,0 4.910 100,0 40.005 100,0 44.915 100,0 Italia 58.036 8,2 3.412 4,8 61.448 8,0 439.453 9,1 500.901 9,0 Imprese artigiane Piacenza 168 5,2 8 20,5 176 5,4 1.470 5,7 1.646 5,7 Parma 609 18,9 9 23,1 618 19,0 2.566 9,9 3.184 10,9 Reggio Emilia 385 12,0 2 5,1 387 11,9 3.937 15,2 4.324 14,9 Modena 519 16,1 4 10,3 523 16,1 5.301 20,5 5.824 20,0 Bologna 482 15,0 5 12,8 487 15,0 5.200 20,1 5.687 19,5 Ferrara 268 8,3 2 5,1 270 8,3 1.473 5,7 1.743 6,0 Ravenna 290 9,0 3 7,7 293 9,0 1.668 6,5 1.961 6,7 Forli' - Cesena 278 8,6 2 5,1 280 8,6 2.504 9,7 2.784 9,6 Rimini 215 6,7 4 10,3 219 6,7 1.731 6,7 1.950 6,7 E.R. 3.214 100,0 39 100,0 3.253 100,0 25.850 100,0 29.103 100,0 Italia 39.868 8,1 869 4,5 40.737 8,0 273.970 9,4 314.707 9,2 Imprese industriali Piacenza 120 7,8 14 11,2 134 8,1 777 5,5 911 5,8 Parma 407 26,6 12 9,6 419 25,3 1.618 11,4 2.037 12,9 Reggio Emilia 194 12,7 19 15,2 213 12,9 2.185 15,4 2.398 15,2 Modena 322 21,0 26 20,8 348 21,0 3.612 25,5 3.960 25,0 Bologna 151 9,9 21 16,8 172 10,4 3.003 21,2 3.175 20,1 Ferrara 81 5,3 4 3,2 85 5,1 776 5,5 861 5,4 Ravenna 110 7,2 4 3,2 114 6,9 720 5,1 834 5,3 Forli' - Cesena 86 5,6 19 15,2 105 6,3 853 6,0 958 6,1 Rimini 61 4,0 6 4,8 67 4,0 611 4,3 678 4,3 E.R. 1.532 100,0 125 100,0 1.657 100,0 14.155 100,0 15.812 100,0 Italia 18.168 8,4 2.543 4,9 20.711 8,0 165.483 8,6 186.194 8,5

7. L’INDUSTRIA ALIMENTARE

183 sinteticamente descritta: numerosità aziendale manifatturiera in diminuzione, quasi costante il numero delle imprese alimentari. Deciso spostamento delle ragioni sociali che compongono l’universo imprenditoriale verso le società di capitale.

Circa l’80% delle imprese complessive occupano meno di 9 addetti sia per il manifatturiero che per l’alimentare, attorno al 15% sono le aziende che oc- cupano da 10 a 50 dipendenti, mentre tra il 2,5 e il 3% le realtà che coinvolgo- no oltre 50 unità lavorative.

Oltre il 65% delle imprese manifatturiere e alimentari è collocato nelle 4 provincie: Parma, Reggio Emilia, Modena e Bologna, tra le quali Parma ha in tutti i casi la predominanza.

La situazione di contesto si caratterizza per Pil in leggera crescita, aumento della dinamicità di esportazioni e importazioni, consumi in timida ripresa, qualche segnale positivo negli investimenti in macchinari e attrezzature; au- menta la produzione e aumentano i fatturati.

Tutto ciò premesso dopo che il manifatturiero nazionale in 15 anni ha perso oltre un quinto della produzione e l’alimentare ha realizzato un incremento di quasi 10 punti, i beni non durevoli hanno perso a loro volta altrettanto e nello stesso periodo il fatturato manifatturiero è cresciuto del 9% mentre quello ali- mentare del 41% − quello interno ha realizzato rispettivamente -6% e +30% e quello estero +50% e +119% −.

Ordinativi nazionali ed esteri, esportazioni, mesi di produzione e occupa- zione sono indici che descrivono un 2015 in generale positività.

Nonostante tutto questo, i segnali che si rilevano sono di generale sfiducia: il consumatore tra 2014 e 2015 ha visto aumentare, anche se di poco, la liqui- dità disponibile ma l’ha riversata solo in piccola parte nei consumi, le imprese, dal canto loro, restano estremamente caute nell’investire sia in impianti che in personale.

L’effetto “ricchezza”, ovvero se i mercati sono vivaci anche il valore degli immobili sale e le famiglie si sentono più ricche quindi più portate a spendere, proprio per la mancanza di fiducia, non trova il contesto per attecchire.

Le nostre imprese medie, medio piccole e artigianali soprattutto − e rife- rendoci nello specifico al territorio emiliano romagnolo tutto sommato privile- giate rispetto ad altre −, sono costrette a misurarsi, confrontarsi in competizio- ni impari sia quando si affaccino sui mercati esteri, ma ancor più quando a questa alternativa non possano accedere.

Il contesto in cui sono obbligate ad operare è condizionato da differenti li- velli socioeconomici:

la sua “aggregazione” si dimostra fondamentalmente burocratica, priva quindi di slanci, di dinamismo, di intuito, di politica e di statisti; si caratte- rizza per la mancanza di strategie da “Stato Unitario” dove le scelte con- vergono a contenere la singola sovranità solo per casi di “catastrofica” emergenza e nemmeno sempre, dove è eccessiva la dipendenza da interessi ad orizzonte temporale molto a breve termine che, seppure legittimi, si pre- sentano eccessivamente nazionalistici ed elettoralistici, di subalternità e privi di visioni strategiche di più ampio respiro. Naturalmente i Paesi a struttura più debole sono quelli che pagano un immediato maggior costo, ma le cure solo di emergenza che non risolvono i problemi, ma rallentano o solamente posticipano le conseguenze, finiranno per coinvolgere e contage- ranno anche i paesi “forti” dell’UE. La eccessiva dipendenza dalla finanza, dal sistema bancario e soprattutto dai decisori finanziari alimenta la neces- sità di vivere l’immediato, rincorrendo le problematiche del proprio singolo Paese a scapito di visioni e strategie comuni che potrebbero costruire un argine atto a contenere questo sbilanciamento di potere; la conseguenza di questo modo di “non governare”, fino ad ora, ha dato frutti molto poco vir- tuosi e ha regalato, e persevererà a regalare, spazi sempre maggiori alla spontanea, istintiva e populista tendenza all’anti europeismo. Purtroppo si continua a ragionare per singolo paese appartenente all’UE e insistiamo a disquisire su quale sia la posizione nella graduatoria del PIL, mentre se si parlasse di intera Unione, secondo i dati OCSE, oggi sarebbe alla pari con gli USA.

b) Attualmente la “crescita” italiana, pochissimo si lega allo sviluppo dei con- sumi interni: l’eccesso di necessità finanziaria, diretta e indiretta, della Pubblica Amministrazione, a tutti i livelli e soprattutto quelli locali, priva le famiglie di potere di spesa. La raccolta di risorse del Pubblico è per lo più improduttiva, la sola concreta redistribuzione di ricchezza si riduce alla semplice voce “stipendi ai dipendenti”, poiché tutto ciò che è rappresentato dai costi dei servizi e degli investimenti strutturali passa attraverso un si- stema di appalti che drena, anche attraverso moltiplicatori di costo che non hanno eguali nel mondo OECD, e alla fine concentra ricchezza invece di distribuirla. Il nostro Paese è disseminato di conflitti d’interesse rappresen- tati da veri e propri monopoli locali di gestione dei servizi fondamentali, che quando apparentemente privatizzati, non vivono situazioni di concor- renza di mercato ma perseverano ad avere il “potere impositivo” ereditato dall’Ente originale di appartenenza; inoltre spesso gli investimenti struttu- rali necessari, quando non svenduti, vengono mantenuti a carico della col- lettività.

7. L’INDUSTRIA ALIMENTARE

185 e disattesa dal sistema nazionale, continua nel perverso sistema di mantenere separate economia finanziaria ed economia reale contribuendo al processo de- flattivo e contribuendo a far perdere l’occasione di rilancio degli investimenti e di ripresa della necessaria inflazione in un momento unico poiché il costo del denaro è rappresentato da valori teoricamente negativi.

Tutto questo grava, assieme alla rigidità e scarsa produttività del lavoro e quindi al suo elevato costo, sulle imprese che, in tanti casi scelgono di non chiudere per senso di responsabilità sociale.

Il famoso adagio popolare “l’unione fa la forza” dovrebbe venire in soccor- so alla attuale situazione di contesto e suggerisce che potrebbe essere meglio affrontato dalle imprese pensando a sistemi di aggregazione anche non con- venzionali, anche per supplire all’assenza del sistema bancario, ma purtroppo l’imprenditore italiano si avvale di più dell’adagio opposto “chi fa da se fa per tre”: pur di non condividere anche solo parte della sovranità e del controllo sulla “sua“ impresa preferisce chiudere o vendere.

7.4. Flussi occupazionali e fabbisogno professionale nell’industria