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Conclusioni: dal territorio quale luogo di genesi del vincolo di subordi-

Nel documento Diritto del lavoro e ambiente (pagine 156-175)

nella nuova geografia del lavoro

Non è questa la sede per digredire sul ruolo che i sindacati hanno svolto nelle vicende in commento. È tuttavia opportuno rilevare, senza pretesa di generalizzazione alcuna, come anche rispetto al rapporto tra lavoro e am-biente emerga una corrispondenza tra tradizione giuridica, modello di capi-talismo e sistema di relazioni industriali in Italia, a cui si somma «una man-cata capacità, e forse più spesso […] una manman-cata volontà, di affrontare le questioni della produzione e del lavoro nel loro contesto e con una visione temporale di lungo periodo» (92). La cultura partecipativa del lavoro fatica ad attecchire nel nostro modello di capitalismo, prima ancora che nel nostro

(88) T.CANNON, Reducing People’s Vulnerability to Natural Hazards. Communities and Resilience, United Nations University Research Paper, 2008, n. 34; AA.VV., Building Resilient Communi-ties. Risk Management and Response to Natural Disasters through Social Funds and Community-Driven Development Operations, World Bank, 2008; K.WARNER (a cura di), Perspectives on Social Vul-nerability, UNU Institute for Environment and Human Security, 2007; B. WISNER, P.

BLAIKIE, T.CANNON, I.DAVIS, At Risk. Natural hazards, people’s vulnerability and disasters, Routledge, 2004.

(89) Cfr. UN, Sendai Framework for Disaster Risk Reduction 2015-2030, 2015.

(90) M.TIRABOSCHI, Prevenzione e gestione dei disastri naturali (e ambientali): sistemi di welfare, tutele del lavoro, relazioni industriali, in DRI, 2014, n. 3, 580.

(91) Ibidem.

(92) B.DE MARCHI, Per costruire un processo integrato di ricerca e prevenzione a Taranto, in Epidemio-logia & Prevenzione, 2012, n. 6, 302.

sistema di relazioni industriali, dove i rapporti tra capitale e lavoro stentano a smarcarsi da logiche di contrapposizione e diffidenza reciproca tali da consolidare un paradigma relazionale e soprattutto contrattuale di tipo estrattivo, compromissorio ed emergenziale, anziché integrativo (93), colla-borativo e orientato a obiettivi e programmi condivisi il cui orizzonte tem-porale non sia l’anno finanziario, il voto politico o la elezione delle rappre-sentanze sindacali unitarie (94).

Questo ha finito per innescare un gioco degli specchi nel quale allo spirito paternalistico che contraddistingue il tradizionale modello di capitalismo ita-liano ha corrisposto una tendenziale attitudine conflittuale del sindacato. In assenza di autentica solidarietà, partecipazione ed effettivo coinvolgimento, l’asimmetria di potere ha favorito da un lato la logica del più forte e dall’altro quella del più radicale (95). Ha favorito, sotto un altro punto di vi-sta, la insostenibilità del sistema di relazioni industriali, incapace di spostare

(93) La distinzione concettuale tra contrattazione distributiva e integrativa si deve a R.E.

WALTON, R.B.MCKERSIE, A Behavioral Theory of Labor Negotiations. An Analysis of a Social Interaction System, McGraw-Hill, 1965.

(94) In conclusione di un articolo di visione sulla prima di una lunga serie di riforme sul contratto a tempo determinato, nel 2002 Marco Biagi esortava apertamente gli operatori pratici ma anche le parti sociali e gli studiosi del diritto del lavoro a «provare ad abbandona-re una cultura (anche giurisprudenziale) costruita sul sospetto e sulla diffidenza» (M.BIAGI, La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in M.BIAGI (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al D.Lgs.

6 settembre 2001, n. 368, Giuffrè, 2002, 20). Cultura che si intreccia con i dati di identità della tradizione giuslavoristica italiana, la cui catena fondativa, ci ricorda R.DEL PUNTA, CSR, organizzazione e qualità del lavoro, in L.MONTUSCHI, P.TULLINI (a cura di), op. cit., 5, risale fino alla Costituzione: «al di là dei riconoscimenti di facciata all’organicismo cattolico, come nell’art. 46, è la visione oppositiva (quella storicamente più adeguata ai tempi) che ha pre-valso», sicché il destino della clausola sociale di cui al secondo comma dell’art. 41 Cost. ve-niva affidato «agli stessi principi costituzionali (come quello dell’art. 36, 1° co.), al legislato-re costituzionalmente vincolato, e soprattutto all’esistenza garantita (cfr. artt. 39 e 40) di un contropotere collettivo». Cultura giuslavoristica «pesantemente condizionata dalla – certo non gratuita, ma unidimensionale e quindi riduttiva – visione del potere imprenditoriale come naturalmente vocato alla prevaricazione e quindi socialmente pericoloso», la quale,

«negli anni ‘80 soprattutto, dava per scontato che le spinte alla flessibilità provenienti dalle imprese fossero solo espressione di una rivincita, di una richiesta di riequilibrio dei rapporti di forza rispetto a quelli che si erano espressi negli anni della conflittualità permanente e non voleva considerare che quelle spinte avevano ben più profonde motivazioni, scaturenti dalle modificazioni indotte dalle dinamiche economiche» (F.LISO, Brevi osservazioni sulla revi-sione della disciplina delle mansioni contenuta nel decreto legislativo n. 81/2015 e su alcune recenti tenden-ze di politica legislativa in materia di rapporto di lavoro, Working Paper CSDLE “Massimo D’Antona” – IT, 2015, n. 257, 21).

(95) Questo argomento verrà ripreso e ampliato nel cap. IV, spec. nel § 3, sez. II.

le dinamiche della rappresentanza e della regolazione del lavoro oltre il dato contingente (96).

Nella realtà che si offre all’osservazione, le stesse dinamiche contrattuali continuano ad essere influenzate più dal maggior potere negoziale che alcu-ni tipi di aziende possono vantare nei confronti del sindacato, che da un orientamento fisiologico della contrattazione verso obiettivi condivisi di produttività e competitività. Le esperienze di accordi concessivi vissute in Italia nell’ultimo decennio, che hanno trovato nel caso Fiat un archetipo neppure troppo rappresentativo, scaturiscono da negoziati caratterizzati da strategie manageriali di tipo coercitivo e minaccioso («prendere o lasciare», pratiche di whipsawing, minaccia di disinvestimento), che inseriscono nell’etica delle relazioni sindacali «un forte elemento di turbamento» (97). Co-sicché quella che dovrebbe essere la funzione moderna primaria della con-trattazione collettiva e della mediazione sindacale, cioè il bilanciamento tra gli interessi della produzione e quelli di sostenibilità del lavoro, diventa una disfunzione nella misura in cui il fattore occupazione viene strumentalizzato per strappare concessioni sotto pressione coercitiva, alterando così il meto-do del leale confronto fra le parti, che meto-dovrebbe realizzarsi sempre ad armi pari, secondo i principi di solidarietà e proporzionalità sanciti non solo nella nostra Costituzione, ma anche in quelle norme dell’ordinamento internazio-nale che vengono disattese con disinvoltura in quanto confinate nella di-mensione del «diritto morbido» (98).

(96) La ragione di questa propensione alla “vista corta” va ricercata, secondo G.DELLA ROCCA, L’innovazione tecnologica e le relazioni industriali in Italia, Fondazione Adriano Olivetti, 1985, 32, nell’atteggiamento negativo, imposto dalla cultura stessa del movimento colletti-vo, verso qualsiasi forma di partecipazione e corresponsabilizzazione alla gestione di istituti aziendali e anche pubblici. «Questo atteggiamento e questa cultura hanno costretto il sinda-cato italiano entro gli stessi ambiti dell’attività contrattuale rivendicativa, in balìa ai cam-biamenti nei rapporti di forza sul mercato e sui luoghi di lavoro, chiusa nella difesa del det-taglio della norma dell’accordo sottoscritto con l’azienda come esclusiva fonte di tutela del lavoratore».

(97) Così S.SCIARRA, Automotive e altro: cosa sta cambiando nella contrattazione collettiva nazionale e transnazionale, in DLRI, 2011, n. 130, 346, con riferimento al caso Fiat.

(98) Il riferimento è, in questo caso, alla linea guida dell’Ocse in forza della quale nel conte-sto di trattative svolte in buona fede con i rappresentanti dei lavoratori sulle condizioni di impiego, o laddove i lavoratori esercitassero il diritto di organizzazione, le aziende sono esortate a «non minacciare di trasferire fuori dal paese in questione, in tutto o in parte, un’unità produttiva, né di trasferire in altri paesi i lavoratori dell’unità dell’impresa al fine di influenzare slealmente tali trattative od ostacolare l’esercizio del diritto di organizzarsi» (Li-nee Guida OCSE destinate alle Imprese Multinazionali, 2011, 28). Al § A.5 parte I, cap. II, del medesimo documento si prevede altresì che le imprese multinazionali dovrebbero «astener-si dal ricercare o dall’accettare esenzioni non contemplate nelle norme di legge o

regola-Il limite del sistema di relazioni industriali italiano continua a manifestarsi sotto diversi profili, intrecciandosi con i fili di una produzione legislativa che

«va avanti tra flussi e riflussi, legati al contingente, in una società senza l’energia storica per ristabilire l’unità dei rapporti sociali» (99): sul piano or-ganizzativo, in un modello di relazioni tra capitale e lavoro ancora molto improntato alla logica del conflitto e della risoluzione di problematiche con-tingenti, anziché alla logica della cooperazione e della costruzione partecipa-ta e sostenibile del destino dell’impresa e dei territori; sul piano giuridico ed economico, nel conflitto tra una concezione del territorio quale fondamento originario del diritto, e una concezione che ne declama la pura dimensione applicativa e dunque estrattiva (100), dove alcuni tipi di aziende tendono «ad imporre il proprio interesse […], considerando la città e i suoi […] abitanti come un semplice serbatoio di mano d’opera, trascurando ogni altra esigen-za dello sviluppo civile e del progresso sociale» (101).

Con la drammatica consapevolezza che il conflitto tra norme e luoghi si sta consumando anche in una forma di globalizzazione e dumping a rovescio, che amplia la nozione di Sud globale (102) ad ogni area geografica caratterizzata dalla presenza diffusa di vulnerabilità, esclusione e ingiustizia sociale. Al punto che il Sud del mondo, oggi, non si identifica più con i Paesi sottosvi-luppati o in via di sviluppo, bensì con quelle periferie esistenziali dove le persone, difronte alla impossibilità di compiere scelte significative per man-canza di alternative, sono ridotte da soggetti a oggetti.

La tragica vicenda della garment factory cinese di Prato del 2015 è solo un esempio che vale a dimostrare come una nuova partita della concorrenza al ribasso si stia già giocando all’interno dei confini nazionali: enclave di lavoro nero, sottoccupazione e degrado ambientale complicano non poco il diffici-le ruolo di mediazione del sindacato cui spetta risolvere, anche nella dimen-sione locale delle relazioni industriali, il dilemma tra la difesa dei diritti fon-damentali della persona e lo scardinamento dello status quo in nome della salvaguardia dell’occupazione.

Il movimento sindacale, in queste vicende, continua a scontare le conse-guenze di un limite storico della propria funzione sul piano della tutela della

mentari relative ai diritti umani, all’ambiente, alla salute, alla sicurezza, al lavoro, alla fiscali-tà, agli incentivi finanziari o ad altre materie».

(99) P.PERLINGIERI, op. cit., tomo I, 28.

(100) Sul rapporto tra diritto, economia e territorio, N.IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, 2006.

(101) Queste le parole usate da Antonio Cederna, in un articolo sulla situazione dell’Italsilder (poi Ilva) di Taranto comparso sul Corriere della Sera il 13 aprile del 1972.

(102) D.MITLIN, D.SATTERTHWAITE, Urban Poverty in the Global South. Scale and Nature, Routledge, 2013.

salute (e non solo): finché il campo di azione sindacale non si espande oltre i confini della “fabbrica”; finché l’azione collettiva è rivolta alla sola gestione dei problemi contingenti; finché la sua vocazione solidaristica non si con-nette con le battaglie per la tutela dei diritti fondamentali della persona e dei beni comuni locali; finché tutto questo non avviene, il sindacato perde la possibilità di controllare quei complessi meccanismi che influenzano le scel-te reali delle aziende e la effettività dei diritti dei lavoratori (103), restando in-capace di generalizzare i contenuti e gli strumenti che appaiono più adeguati alla lotta (104). Con la conseguenza che non volendo o non riuscendo a pro-porsi in via immediata scopi o risultati che si collocano al di fuori del suo diretto raggio d’azione, «l’accorta politica contenitrice degli imprenditori fi-nisce, alla lunga, per avere la meglio, nel senso di spostare in avanti e pro-crastinare all’infinito il raggiungimento di traguardi che dal novero delle cose sperate passano ben presto nel calderone delle speranze deluse» (105).

È in questo contesto, ancora molto attuale in alcune aree del Paese, non so-lo del Mezzogiorno (106), che maturano le premesse del cortocircuito tra la-voro e ambiente, con la collusione anziché la partecipazione, fra impresa e rappresentanze dei lavoratori (107), che evoca «vicende lontane e ormai stori-cizzate, ma non cancellate dalla memoria collettiva, segnate da fallimenti delle politiche del lavoro e ampie zone d’ombra nella stessa linea d’azione

(103) C.SMURAGLIA, Introduzione a C.SMURAGLIA, C.ASSANTI, F.GALGANO, G.GHEZZI, La democrazia industriale. Il caso italiano, Editori Riuniti, 1980, 13. La conflittualità, secondo Smuraglia, non è solo coscienza dei rapporti di classe e degli strumenti di cui i lavoratori e il sindacato dispongono: «è anche capacità di operare in un contesto che non sia solo settoria-le e corporativo e che imponga scelte strategiche di più ampio respiro» (ivi, 15).

(104) L.MONTUSCHI, Diritto alla salute e organizzazione del lavoro, Franco Angeli, 1976, 42 e 29.

(105) Ivi, 34.

(106) A. GARILLI, Lavoro nel Sud. Profili giuridici, Giappichelli, 1997; A. BELLAVISTA, A.

GARILLI (a cura di), Mezzogiorno sviluppo lavoro, Giappichelli, 2012.

(107) Collusione che «tende altresì a rinsaldarsi quando c’è da lottare contro un nemico esterno che rischia di mettere in pericolo la sopravvivenza stessa dell’azienda, o comunque i livelli occupazionali. Questo nemico esterno può configurarsi, ad esempio, nei cittadini che vivono nelle zone limitrofe all’azienda, e che sono minacciati da agenti patogeni propagati dalla fabbrica nell’ambiente circostante» (R.DEL PUNTA, Tutela della sicurezza sul lavoro e que-stione ambientale, in DRI, 1999, n. 2, 154). In argomento, cfr. altresì G.SATERIALE, Contrattare in azienda. Come scegliere gli obiettivi giusti e come negoziarli, Edit. Coop., 1999, 149-150, per il quale, difronte alle crisi occupazionali degli anni Ottanta, «la rimozione del tema e del ruolo giocato in precedenza dalle organizzazioni sindacali è stata tanto profonda che spesso i la-voratori e gli stessi sindacati si sono trasformati, da avanguardie di un movimento più vasto sulle problematiche ambientali e della salute, come erano stati (soprattutto nei settori ad alto rischio), a controparti (assieme all’azienda) di movimenti ecologisti che chiedevano la bonifica o la chiusura di certe attività nocive o pericolose».

del movimento sindacale» (108). Sullo sfondo, la latitanza dei partiti e delle istituzioni politiche, sostanzialmente incapaci di assumersi la responsabilità delle scelte di sviluppo sostenibile del territorio e del Paese più in generale, anche al di là delle posizioni del sindacato (109). La crisi ambientale diviene, in questo senso, crisi della rappresentanza e della governance politica e sin-dacale.

L’ambiente entra così nella lista dei fattori che condizionano la posizione contrattuale dei lavoratori e delle loro rappresentanze come ulteriore conse-guenza di un difetto di informazione e di mobilità nel mercato (110). Non so-lo. Il conflitto tra lavoro e ambiente si manifesta nel contesto di una subor-dinazione di natura socio-economica (111), cioè di una condizione oggettiva di vulnerabilità e dipendenza che in molti casi preesiste alla relazione con-trattuale, configurandosi non già come l’effetto giuridico tipico del contratto di lavoro, ma come il presupposto economico-sociale dello stesso (112). In taluni specifici contesti, la subordinazione nel rapporto di lavoro non

(108) P.TULLINI, op. cit., 164.

(109) In argomento, si veda B.ZIGLIOLI, “Sembrava nevicasse”. La Eternit di Casale Monferrato e la Fibronit di Broni: due comunità di fronte all’amianto, Franco Angeli, 2016, il quale svolge una comparazione tra i disastri ambientali dell’Eternit di Casale Monferrato e quello della Fi-bronit di Broni, rilevando come nel primo caso il sindacato si sia “fatto carico” del proble-ma dell’asbesto in tutti i suoi risvolti, inclusi quelli ambientali e sulla cittadinanza, mentre nel secondo abbia prevalso una strategia di azione sindacale orientata alla difesa del lavoro ad ogni costo, con le problematiche ambientali circoscritte al perimetro dello stabilimento.

Tratto comune di entrambe le vicende è stata l’assenza di un disegno politico adeguato, consapevole e responsabile da parte dei partiti e delle istituzioni locali.

(110) Nel senso che chi ha paura del mercato finisce in qualche misura per avere paura del proprio datore di lavoro, essendo «disposto a non far valere i propri diritti, o comunque a subire le imposizioni della controparte nella negoziazione, per difetto di alternative» P.

ICHINO, Il lavoro e il mercato. Per un diritto del lavoro maggiorenne, Mondadori, 1996, 21.

(111) Per una ricostruzione della nozione socio-economica di subordinazione, L.GAETA, F.

STOLFA, P.TESAURO, Il rapporto di lavoro: subordinazione e costituzione, Utet, 1993, 48. Si veda anche F. LUNARDON, L’evoluzione del concetto di subordinazione nell’elaborazione dottrinale, in AA.VV., Subordinazione e autonomia. Vecchi e nuovi modelli, Utet, 1998, 265 ss.; R.PESSI, Contri-buto allo studio della fattispecie lavoro subordinato, Giuffrè, 1989, 162 ss.

(112) D’obbligo, sul punto, il rimando a R.DE LUCA TAMAJO, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Jovene, 1976, 86-87, per il quale risulta «contraddittorio pensare alla totale elimi-nazione della supremazia del datore dal momento che “nel” rapporto resterà pur sempre istituzionalizzato un minimum di soggezione all’altrui potere e, quindi, formalizzata quella posizione di forza già presente nella realtà effettuale. Ed è appunto in questa ineliminabile soggezione ad un sia pur ridotto potere ordinatorio altrui – che costituisce il connotato ti-pologico fondamentale del rapporto di lavoro e che caratterizza l’esplicazione di un’attività nella quale è implicata in modo così rilevante la persona del prestatore e così accentuato è il

“contatto personale” tra le parti – che può cogliersi appieno l’esistenza di una istituzionale inferiorità psicologica del prestatore».

risce (solo) dal contratto individuale di lavoro, ma da un contratto sociale dell’emergenza, la cui parvenza di politica industriale fornisce, con il con-corso della coalizione sindacale e delle pubbliche autorità (113), una legitti-mazione a una condizione di vulnerabilità economico-sociale di fatto (114).

In assenza di una simile legittimazione, a ben vedere, quel rapporto di lavo-ro sarebbe illegittimo perché derivante da un consenso contrattuale forte-mente inquinato dallo stato di bisogno e perché contrario ai principi di soli-darietà, libertà e dignità. La stessa libera iniziativa economica non sarebbe riconoscibile dal diritto in quanto contraria all’ordine democratico prim’ancora che all’utilità sociale.

L’idea dello sviluppo sostenibile veicolata dalla nostra costituzione indica una strada diversa. A una concezione estrattiva del territorio quale luogo di genesi del vincolo di subordinazione si oppone la proposta del territorio quale dimensione della sostenibilità, delle comunità vive, con dei legami so-ciali forti, in cui si integrino le considerazioni soso-ciali e ambientali nelle deci-sioni economiche (115). Luoghi in cui «la persona sia sviluppata e non con-culcata» (116), attraverso la condivisione di un modello di valori e una meto-dologia partecipativa nei processi decisionali; in cui si favoriscano le buone pratiche e il confronto continuo tra i portatori di interesse, per aumentare l’innovazione e la competitività; in cui si consolidi la valutazione, regolare e pubblica, della qualità e dell’impatto delle azioni realizzate e delle politiche industriali; in cui si faccia della cittadinanza attiva un fattore di resilienza e competitività.

(113) M.PEDRAZZOLI, Democrazia industriale e subordinazione. Poteri e fattispecie nel sistema giuridico del lavoro, Giuffrè, 1985, 34-35, e spec. 343, dove l’A. è chiaro nel sostenere che «fattispecie negoziale tipica del lavoro subordinato e coalizione vanno di pari passo perché, sul piano delle categorie giuridiche, nessuna delle due pare concepibile senza l’altra». Cfr. altresì il punto di partenza del ragionamento di Pedrazzoli, costituito dall’idea per cui l’aspetto carat-teristico del rapporto di lavoro è che «il lavoratore individuale è certamente sottoposto al potere dell’imprenditore, ma allo stesso tempo il potere di quest’ultimo è a propria volta coordinato a quello del lavoro sindacalmente organizzato» (O.KAHN-FREUND, Il lavoro e la legge, Giuffrè, 1974, 21).

(114) La democrazia industriale assume un rilievo «in quanto elemento normativo che con-trobilancia nella stessa fattispecie i portati e le ripercussioni della subordinazione “storica”, concorrendo pertanto alla conformazione di una diversa fattispecie in cui interagiscono e si compensano due effetti. In breve, dal punto di vista della costruzione giuslavoristica la de-mocrazia industriale è l’effetto di coalizione in quanto costitutivo della “nuova” subordinazione comple-mentarmente all’effetto della disposizione di lavoro altrui in forza della proprietà dei mezzi di produzione»

(M.PEDRAZZOLI, op. cit., 362).

(115) A.AGUSTONI (a cura di), Comunità, ambiente e identità locali, Franco Angeli, 2005.

(116) A.PREDIERI, voce Paesaggio, in Enc. Dir., 1981, XXXI, 510.

Un progetto che si alimenta della consapevolezza che la promozione del de-centramento (articoli 5 e 117 Cost.) è la sola via che possa culminare in una partecipazione attiva da parte di tutti a una rinnovata decisionalità e, suo tramite, nella realizzazione del singolo individuo in ambito sociale, politico ed economico, all’interno di una più vasta collaborazione reciproca (articolo 118 Cost.) (117). Al punto che il valore ambiente non costituisca più appan-naggio esclusivo di gruppi ed associazioni naturalistiche, ma diventi il col-lante e la spinta solidaristica per una partecipazione nuova a livello del terri-torio e per il coagularsi di nuove energie a livello politico (118).

Lo sviluppo tecnologico, se adeguatamente governato, rende oggi possibile governare e non subire le dinamiche del cambiamento eco-sistemico che stiamo vivendo, consentendo la possibilità di connettere i territori nella rete globale che da rischio può diventare canale per la diramazione di modelli

Lo sviluppo tecnologico, se adeguatamente governato, rende oggi possibile governare e non subire le dinamiche del cambiamento eco-sistemico che stiamo vivendo, consentendo la possibilità di connettere i territori nella rete globale che da rischio può diventare canale per la diramazione di modelli

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