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Diritto, ambiente, lavoro

Nel documento Diritto del lavoro e ambiente (pagine 45-57)

Secondo Carl Schmitt, la terra è detta nel linguaggio mitico «la madre del di-ritto» e ad esso si lega in triplice modo (1): lo serba dentro di sé, come giusta ricompensa del lavoro (2); lo mostra in sé, come confine netto (3); lo reca su di sé, quale contrassegno pubblico dell’ordinamento (4). L’immagine propo-sta da Schmitt, di una «dimensione terranea» dell’esperienza giuridica, è sug-gestiva perché non si limita ad identificare il rapporto tra terra e diritto nella società agricola e preindustriale (5): tematizza una riflessione più profonda sul rapporto esistente tra norma e luoghi (6), dalla quale scaturisce la consa-pevolezza della esistenza di una relazione di carattere sistemico, mediata dal diritto, tra attività produttive, lavoro e ambiente naturale. Le prime sono

(1) C.SCHMITT, Il nomos della terra, Adelphi, 1991, 19-20.

(2) «La terra fertile serba dentro di sé, nel proprio grembo fecondo, una misura interna. In-fatti la fatica e il lavoro, la semina e la coltivazione che l’uomo dedica alla terra fertile ven-gono ricompensati con giustizia dalla terra mediante la crescita e il raccolto» (ibidem).

(3) «Il terreno dissodato e coltivato dall’uomo mostra delle linee nette nelle quali si rendono evidenti determinate suddivisioni. Queste linee sono tracciate e scavate attraverso le delimi-tazioni dei campi, dei prati e dei boschi […]. È in queste linee che si riconoscono le misure e le regole della coltivazione, in base alla quale si svolge il lavoro dell’uomo sulla terra» (ibi-dem).

(4) «La terra reca sul proprio saldo suolo recinzioni e delimitazioni, pietre di confine, mura, case e altri edifici. Qui divengono palesi gli ordinamenti e le localizzazioni della convivenza umana» (ibidem).

(5) Resta inteso che, anche da questa specifica prospettiva di analisi, permane la stretta at-tualità del tema se lo sguardo del ricercatore si volge a quelle aree del pianeta in via di svi-luppo, specie se interessate da azioni di sistematica depredazione delle risorse naturali e umane con finalità produttive. È il caso, questo, della deforestazione dell’Amazzonia ana-lizzato, proprio nell’ottica del rapporto lavoro-ambiente, da G.ALIOTI, Chico Mendes. Un sindacalista a difesa della natura, Edizioni Lavoro, 2009.

(6) N.IRTI, Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, 2006, C.AMATO,G.PONZANELLI (a cura di), Global Law v. Local Law. Problemi della globalizzazione giuridica, Giappichelli, 2006, e, per le implicazioni interdisciplinari del fenomeno, P.PERULLI (a cura di), Terra mobile. At-lante della società globale, Einaudi, 2014.

serite in un più vasto ecosistema che le racchiude e ne permette lo svolgi-mento in funzione di limiti e regole giuridiche definite in modo convenzio-nale (c.d. embeddedness). Lavoro, produzione e redistribuzione della ricchezza divengono concetti vuoti di senso se non si pongono in relazione a una mi-sura che trova nella disponibilità delle risorse naturali, prim’ancora che umane, il principale parametro di riferimento. Dove la terra dà un prodotto

«vi può essere la civiltà, la quale dura quanto la fertilità del suolo sul quale, si è stabilita; sparita questa, sparisce l’uomo» (7).

Alle condizioni produttive e di lavoro di un tempo era legata una particolare forma di vita associativa che scandiva in un’unica sequenza i rapporti dell’uomo con il suo ambiente naturale e quelli del lavoratore con il suo am-biente di lavoro. Lo sviluppo economico antecedente all’avvento della indu-stria moderna si caratterizzava per un equilibrio tendenzialmente “naturale”

tra produzione, lavoro e ambiente: produzione e consumo avvenivano in forme e limiti già di per sé compatibili con la preservazione ambientale, e i progressivi passi in avanti fatti dal lavoro umano nell’utilizzo delle risorse naturali ai propri fini erano tali da essere sempre compensati dalla capacità della natura di autorigenerarsi (8). Il diritto si limitava a svolgere una funzio-ne organizzativa del momento distributivo della ricchezza gefunzio-nerata dalla tra-sformazione della terra e delle risorse naturali (9), secondo logiche legate, prevalentemente, alla struttura dell’organizzazione sociale e alle specifiche esigenze di sussistenza espresse dalle comunità (10).

(7) F.VIRGILII, L’Italia agricola odierna, Hoepli, 1930, 4.

(8) C.FALASCA, Lavoro e ambiente. La Cgil e la transizione alla sostenibilità, Ediesse, 2006, 33-34.

(9) Chiarissimo sul punto è J.S.JEVONS, Lo Stato in relazione al lavoro, in C.ARENA (a cura di), Lavoro, Utet, 1936, vol. XI, 201, quando osserva come «in molte comunità primitive vi sia bisogno di ben poco intervento legislativo, perché il popolo, mediante un’esperienza lun-gamente praticata, si è adagiato in un assetto di vita press’a poco perfetta in rapporto all’ambiente».

(10) Oltre a P.GROSSI, L’Europa del diritto, Laterza, 2007, cfr. F.CAPRA,U.MATTEI, Ecologia del diritto. Scienza, politica, beni comuni, Aboca, 2017, 29, per i quali il diritto, fino alla fine del Medioevo, «era un concetto altamente spirituale, basato sugli obblighi e sul ruolo dell’individuo all’interno di una comunità e in relazione con la terra, sostenitrice della vita».

In tema, si vedano altresì le pagine di D.PERLAM, Ideologia e pratica dell’azione sindacale, La Nuova Italia, 1956, 28-39, dedicate all’organizzazione dei “Mir” contadini in Russia che, secondo una consuetudine consacrata nei secoli, e risalente a lungo tempo prima dell’emancipazione, «ripartiva la terra tra le singole famiglie in piccole strisce di terreno ara-bile e di prato, tenuto conto della composizione del nucleo familiare e dei bisogni corri-spondenti. Le strisce che venivano assegnate ad una singola famiglia erano piuttosto nume-rose, ed apparivano sparse nell’intero terreno del Mir; ciò avveniva per ragioni di giustizia distributiva, in maniera che ciascuno potesse godere l’uso di terra dei vari gradi di produtti-vità, sia per la qualità del suolo, sia per la vicinanza al villaggio» (ivi, 29).

Su impulso della scienza e della tecnologia, la tradizione giuridica post-medievale ha accompagnato lo sviluppo della cultura industriale nel Nord del mondo, la cui massima espressione si è manifestata nell’assolutismo giu-ridico di matrice illuminista (11) e, segnatamente, nella teoria generale sulla proprietà privata, istituto per mezzo del quale è stato giustificato e poi rea-lizzato il dominio dell’individuo sulla terra (12). Dai medesimi presupposti culturali ha tratto origine, in forma del tutto speculare, l’idea dello Stato na-zione (sovrano), eretto a garanzia delle libertà economiche e del diritto di proprietà e chiamato a rappresentare la tensione etica e la dimensione della responsabilità nella ricerca dell’interesse generale. Al punto che Georg Wi-lhelm Friedrich Hegel affermerà che lo Stato coincide con l’ingresso di Dio nel mondo (13).

John Locke, in particolare, basandosi sulle caratteristiche salienti della fisica newtoniana (meccanicistica e atomistica) (14), dimostrerà che la proprietà privata individuale è un diritto naturale seguendo un ragionamento dedutti-vo e lineare il cui punto di caduta, diventato parte integrante del diritto posi-tivo degli ordinamenti giuridici a base democratica (15), sta nella seguente af-fermazione: qualsiasi cosa l’uomo rimuova «dallo stato in cui la natura l’ha fornita e lasciata, qualsiasi cosa alla quale abbia mescolato il suo lavoro, e al-la quale abbia aggiunto qualcosa di proprio, perciò stesso diviene di sua proprietà. Essendo rimossa da lui dalla condizione comune in cui la natura l’ha collocata, essa acquista con questo lavoro qualcosa che la esclude dalla proprietà comune degli atri uomini. Poiché infatti il lavoro è proprietà indi-scussa del lavoratore, nessuno se non lui stesso può avere diritto su ciò a cui

(11) P.GROSSI, L’Europa del diritto, cit.

(12) F.CAPRA,U.MATTEI, op. cit., 74.

(13) «Lo Stato in sé e per sé è la totalità etica, la realizzazione della libertà; ed è finalità asso-luta della ragione che la libertà sia reale. Lo Stato è lo spirito che sta nel mondo e si realizza nel medesimo con coscienza […]. L’ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamen-to è la potenza della ragione che si realizza come volontà» (G.W.F.HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, 1979, 430). Sul piano dei rapporti economico-sociali, per come riflessi nelle costituzioni moderne, lo Stato «“appalta” le esigenze della società, assumendo compiti di stimolo, di coordinazione, ed anche di gestione della vita economica» (L.MICCO, Lavoro ed utilità sociale nella Costituzione, Giappichelli, 1966, 54).

(14) F.CAPRA,U.MATTEI, op. cit., 97-98, per i quali Locke formulò una visione atomistica della società, basata sugli esseri umani individuali, acquirenti di proprietà con funzione estrattiva e trasformativa delle risorse naturali: «esattamente come i fisici riducevano le pro-prietà dei gas al moto degli atomi che li compongono, Locke cercò di ricondurre i fenome-ni osservati nella società al comportamento di corpi individuali distinti» (ivi, 78).

(15) H.L.A.HART, Contributi all’analisi del diritto, Giuffrè, 1964, 83 ss.; J.RAWLS, A theory of justice, Harvard University Press, 1971, 195 ss.; R.DWORKIN, Taking rights seriously, Harvard University Press, 1977, 82 ss.; A. BALDASSARRE, Diritti della persona e valori costituzionali, Giappichelli, 1997, 32-33.

si è unito il suo lavoro, almeno finché ne rimane abbastanza e di abbastanza buono per altri» (16).

L’ultimo inciso della celebre affermazione di Locke spiega il motivo per cui, già con le primordiali forme di enclosures e trasformazione dei beni comuni (abbondanti) in capitale (scarso) (17), gli ordinamenti giuridici abbiano ap-prestato dei correttivi di tipo etico-solidaristico alla libera concorrenza degli uomini sull’acquisizione della proprietà e sulla gestione delle risorse e delle specie presenti in natura al fine della loro conservazione. Venendo meno il presupposto della illimitatezza della terra e delle risorse naturali, infatti, la teoria generale sulla proprietà, intrinsecamente legata al lavoro e alla produt-tività (18), non sarebbe più giustificabile in termini assoluti, né tantomeno nelle forme estrattive che hanno connotato lo sviluppo economico dalla prima rivoluzione industriale. Lo stesso Locke, a ben vedere, è consapevole del fatto che l’intero impianto della teoria generale sulla proprietà privata e sulle relative ricadute sul piano della organizzazione economica e sociale si regga sul presupposto che le risorse naturali siano illimitate: «quel che ardi-sco affermare è che la stessa norma della proprietà, cioè a dire che ognuno possegga quel tanto di cui può far uso, può sempre valere nel mondo senza pregiudicare nessuno, poiché vi è terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti» (19).

Se nella sua narrativa di fondo la teoria generale sulla proprietà si presenta, apparentemente neutrale dal punto di vista della giustizia sociale e ambienta-le, una più accurata analisi mostra l’assoluta centralità del discorso sui limiti,

(16) J.LOCKE, Due trattati sul governo, Plus, 2006, §§ 27 e 34.

(17) S.PRUDHAM,Men and Things: Karl Polanyi, Primitive Accumulation, and Their Relevance to a Radical Green Political Economy,in Environment and Planning A – Economy and Space,2013, vol.

45, n. 7, 1569-1587.In argomento, d’obbligo il rinvio all’intera opera di Paolo Grossi, il quale, non solo nella sua monografia più feconda (cfr. P.GROSSI, Un altro modo di possedere.

L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica post-unitaria, Giuffrè, 1977), de-scrive i tratti fondamentali della modernità giuridica in termini di “assillo contro il colletti-vo”, di “sequela di persecuzioni”, perpetrate fino ad oggi, verso gli assetti fondiari collettivi di cui erano foltissime le età medievale e pos-medievale: «terre soprattutto boschive e pa-scolive gestite da comunità di utenti, inalienabili da parte dei comunisti perché, nella loro finalità di garantire la sopravvivenza, dovevano essere serbate intatte per le future genera-zioni che avrebbero continuato una catena risalente a tempi remoti» (P.GROSSI, Le comunità intermedie tra moderno e pos-moderno, Marietti, 2015, 43). Cfr. anche F.CAPRA,U.MATTEI, op.

cit., 90, per i quali, «man mano che l’Umanesimo pose la ragione individuale alla base della società moderna, la comunità organica venne diffamata e considerata simbolo dell’oppressione collettiva sull’individuo; le collettività medievali furono stigmatizzate come luoghi caratterizzati unicamente da ignoranza e assenza di diritto».

(18) Così U.MATTEI,A.QUARTA, Punto di svolta. Ecologia, tecnologia e diritto privato. Dal capitale ai beni comuni, Aboca, 2018, 45.

(19) J.LOCKE, op. cit., § 36.

anche alla libera iniziativa economica, rappresentati dalla sufficienza e dalla equità nell’utilizzo delle risorse naturali e nella distribuzione dei relativi frutti (20). È nel passaggio da una situazione di risorse abbondanti ad una di risor-se scarrisor-se che l’incantesimo della tecnica giuridica della proprietà comincia a dissiparsi, entrando in conflitto con le sue stesse premesse (21). A questo processo la questione demografica si lega inscindibilmente laddove, difronte alle crescenti domande di giustizia sociale e ambientale, contribuisce ad at-tenuarne o ad acuirne i profili di problematicità.

La storia sociale del diciannovesimo secolo è stata, non a caso, la storia di un doppio movimento. Sviluppo tecnologico, globalizzazione, cambiamenti demografici e ambientali sono stati processi sospinti da un comune fattore propulsivo: la limitatezza delle risorse naturali e degli spazi geografici dispo-nibili per la crescita. Nelle sue varie forme e connotazioni, la “conquista del-lo spazio” ha giocato un ruodel-lo centrale nelle dinamiche del cambiamento.

La globalizzazione economica, di cui lo sviluppo tecnologico rappresenta il principale vettore, è stata e continua ad essere il frutto della ricerca instan-cabile di spazi in cui dislocare nuove produzioni industriali e da cui trarre risorse naturali necessarie per produrre (22). D’altro canto, il capitale naturale – risorse, terre, luoghi – ha rappresentato e continua a rappresentare il limite principale alla crescita che spinge le economie a rompere i confini, tentando di beneficiare di uno spazio geografico illimitato (23). Efficacemente Paolo

(20) Conforta questa lettura la tesi di A.BALDASSARRE, op. cit., 72, secondo il quale Locke

«presupponeva esplicitamente una società in cui il capitale monetario e finanziario avesse un ruolo secondario e la cui struttura economica fosse data da proprietà non estese e da iniziative fondate su organizzazioni produttive di dimensioni incomparabilmente più picco-le delpicco-le attuali big corporations».

(21) Cfr. S. RODOTÀ, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata e i beni comuni, Il Mulino, 2013, 37.

(22) L’industria, in particolare, è stata semplicemente «il metodo umano di ristabilire l’armonia fra la specie e il suo ambiente, essendo l’uomo civile l’animale che riesce in larga misura ad adattare l’ambiente a se stesso, là dove altre specie devono, per lo più, adattarsi al loro ambiente, o vivere, se pure riescono in qualche modo a vivere, sempre fuor d’armonia con esso» (T.N.CARVER, La distribuzione della ricchezza, in C.ARENA (a cura di), op. cit., 22, nota 1). Più avanti nel testo, Carver ribadisce il concetto: l’uomo «non si trova in perfetta armonia col suo ambiente, in quanto ha bisogni ai quali il suo ambiente naturale non prov-vede. Come avviene ad ogni specie di esseri, la lotta principale che egli sostiene è quella per l’adattamento. La lotta umana per l’adattamento prende la forma di uno sforzo comune per aumentare la provvista di quei beni dei quali la natura ha fornito una quantità insufficiente.

Questo è ciò che s’intende per civiltà industriale» (ivi, 61).

(23) Sul capitale naturale come fattore limitante per la crescita economica, si veda ampia-mente H.E. DALY, Beyond Growth. The Economics of Sustainable Development, Beacon Press, 1996, parte II, spec. 149.

Perulli ha affermato che «la nostra odierna ossessione per il progresso tec-nologico è una reazione alle barriere frapposte al progresso geografico» (24).

Mentre da un lato «i mercati si estendevano su tutta la superficie del globo e la quantità di merci che in essi circolavano si sviluppava in proporzioni in-credibili, d’altro lato una rete di provvedimenti e misure politiche si integra-va in potenti istituzioni destinate a controllare l’azione del mercato relatiintegra-va- relativa-mente al lavoro, alla terra e alla moneta» (25). La legislazione sociale, in parti-colare, nascerà per arginare le forme di «sconfinato materialismo» (26) che la produzione industriale di massa avrebbe potuto implicare per la persona (27), intervenendo con dei correttivi per renderla, di fatto, sostenibile e social-mente accettabile (28). Il diritto dell’ambiente nascerà quando gli effetti di

(24) P.PERULLI, Introduzione: per un Atlante della società globale, in P.PERULLI (a cura di), op. cit., 5.

(25) K.POLANYI, La grande trasformazione, Einaudi, 2010, 98.

(26) Hugo Sinzheimer ha parlato del diritto del lavoro come «guardiano del genere umano in un’era di sconfinato materialismo» (H.SINZHEIMER, Die Fortentwicklung des Arbeitsrechts und die Aufgaben der Rechtslehre, in Soziale Praxis, 1911, vol. 20, 1237, cit. da B.HEPPLE, Factors influencing the making and transmormation of labour law in Europe, in G.DAVIDOV,B.LANGILLE (a cura di), The Idea of Labour Law, Oxford University Press, 2011, 30).

(27) La stessa ILO nacque come «risposta capitalistica alla rivoluzione sovietica, precisamen-te per introdurre alcune norme mondiali volprecisamen-te a limitare lo sfruttamento dei lavoratori» (cfr.

U.MATTEI,A.QUARTA, op. cit., 111). La letteratura giuslavoristica sul punto è vastissima. Ci si limita al rimando alla monografia classica in materia di L.CASTELVETRI, Il diritto del lavoro delle origini, Giuffrè, 1994, e al volume di G.CAZZETTA, Scienza giuridica e trasformazioni sociali.

Diritto e lavoro in Italia tra Otto e Novecento, Giuffrè, 2007. Per una prospettiva comparata, si veda B.HEPPLE (a cura di), The making of labour law in Europe. A comparative study of nine coun-tries up to 1945, Mansell, 1986.

(28) La legislazione sociale rappresenta «un fattore di stabilità dal punto di vista costituzio-nale materiale, uno strumento per contenere sostanzialmente la c.d. questione sociale nell’alveo di determinati fini politici, ossia di certi valori, attorno ai quali si organizza la so-cietà» (L.MICCO, op. cit., 75). Questo si avverte, in particolare, nella sua primissima fase, in cui la posizione delle norme in questione «è dovuta oltre che ad iniziative di carattere filan-tropico, soprattutto al desiderio, non proprio umanitario, di non depauperare le possibilità produttive della forza-lavoro» (ivi, 75-76). In termini analoghi, Raffaele De Luca Tamajo ha di recente ricordato che «il diritto del lavoro è certamente nato e cresciuto per tutelare il soggetto debole della relazione contrattuale e i suoi valori personalistici di libertà, sicurezza, dignità, ma pur sempre all’interno di una ponderazione, storicamente variabile, con le esi-genze di competitività e di sopravvivenza di un sistema capitalistico cui l’ordinamento rico-nosce legittimità» (R.DE LUCA TAMAJO, Jobs Act e cultura giuslavoristica, in DLM, 2016, n. 1, 6). È questa peraltro l’essenza e il teorema essenziale delle relazioni industriali secondo la elaborazione di Bruce Kaufman: «l’obiettivo delle relazioni industriali è di permettere un miglior funzionamento del sistema di mercato e del capitalismo. Per raggiungere tale scopo le relazioni industriali cercano di stabilizzare il sistema di mercato, rendendolo più umano, più professionale e democratico grazie a istituzioni nuove, ampie» (B.KAUFMAN, The global evolution of industrial relations: Events, ideas and the IIRA, ILO, 2004, 631). Analogamente,

quel sistema si manifesteranno anche sulle risorse naturali al punto da mi-nacciare la sostenibilità del modello stesso prim’ancora che la sopravvivenza delle generazioni future (29). Le specifiche normative preposte alla protezio-ne della fauna e della flora protezio-ne sono un esempio, al pari del principio per cui il lavoro non è una merce (30), il cui risvolto sul piano normativo è che «la società abbia un obbligo morale e legittimo di ricorrere alle leggi e alle istituzioni per modificare termini e condizioni di impiego ritenute inumane, antisociali o in violazione ai diritti umani fondamentali» (31).

Sul piano del diritto civile, questo ha comportato «lo spostamento del cen-tro di gravità del diritto privato dall’istituto della proprietà all’istituto dell’impresa» (32), per cui al modello dell’individualismo proprietario sotteso

Lyon-Caen ha sostenuto che il diritto del lavoro racchiude un sistema di norme «destinate a rendere lecito lo sfruttamento del lavoro umano al costo più favorevole (norme in questo senso vantaggiose per i datori di lavoro), e […] norme che concedevano ai lavoratori diver-si strumenti di azioni e di reazione per consentire loro di oppordiver-si a tale sfruttamento e limi-tarne le conseguenze». Si tratta di un quadro normativo soggetto a continua revisione e la cui modifica sposta il bilanciamento degli interessi verso una parte o al suo opposto, al va-riare dei rapporti di forza. In questo senso, il diritto del lavoro rappresenta «lo studio dei meccanismi giuridici specifici del capitalismo» (G.LYON-CAEN, Permanenza e rinnovamento del diritto del lavoro in una economia globalizzata, in LD, 2004, n. 2, 259. Sul punto, si veda anche M.G.GAROFALO, Un profilo ideologico del diritto del lavoro, in DLRI, 1999, n. 81, 1, 12, secondo cui «il fenomeno dell’industrialismo, lasciato alla spontaneità dei comportamenti di ciascun singolo imprenditore, poneva a rischio la stessa capacità della società di riprodursi: non erano, dunque, in contrasto con i postulati del liberalismo interventi correttivi dell’autorità dello stato».

(29) Per Polanyi, permettere al meccanismo di mercato di essere «l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società» (K.POLANYI, op. cit., 94). Nel ripercorrere il pensiero di Polanyi, Supiot ha sostenuto che, sul piano giuri-dico, le merci fittizie non sono equiparabili alla “finzione letteraria”: è possibile considerarle

(29) Per Polanyi, permettere al meccanismo di mercato di essere «l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino della quantità e dell’impiego del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società» (K.POLANYI, op. cit., 94). Nel ripercorrere il pensiero di Polanyi, Supiot ha sostenuto che, sul piano giuri-dico, le merci fittizie non sono equiparabili alla “finzione letteraria”: è possibile considerarle

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