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Configurazioni narrative: il Filosofo greco

La conoscenza scientifica nel periodo classico: la nascita del cosmo

III.3 Configurazioni narrative: il Filosofo greco

La concezione del cosmo elaborata dalla filosofia greca, in particolare da Aristotele, e storicamente collegata al geocentrismo di Tolomeo, viene definita come un mondo concepito come un tutto finito e ben ordinato, nel quale la struttura spaziale incarna una gerarchia di valore e perfezione, mondo nel quale “al di sopra” della terra pesante ed opaca, centro della ragione sublunare del cambiamento e della corruzione, si “elevavano” le sfere celesti degli astri imponderabili, incorruttibili e luminosi146. Nella versione di Aristotele147 il minuscolo cuore centrale dell’universo costituisce il nucleo per cui tutto il resto è stato fatto. È la dimora dell’uomo e le sue caratteristiche sono molto diverse da quelle delle regioni celesti al di sopra di esso148.

Il pensiero greco, non ha mai voluto ammettere che l’esattezza possa essere di questo mondo: nel mondo sublunare - quello appunto, abitato dal Filosofo greco, - la natura non era matematizzabile.

Per Aristotele, le matematiche erano una scienza astratta e secondaria, erano esclusivamente oggetti del pensiero, per l’appunto astratti: applicarle allo studio della natura, corrispondeva a commettere un errore, se non, addirittura, a rappresentare un controsenso. In questa realtà domina quindi l’imprecisione, l’ “essere” matematico non s’incarna nel nostro mondo, a meno che non vi sia forzato con l’arte. In questo caso - basti pensare alla perfezione di alcune opere greche - è però l’arte che s’impone sulla natura e non viceversa. Questa dualità oppositiva di due mondi - quello sublunare da un lato e quello celeste dall’altro - fa sì che, su quest’ultimo, visto come un mondo divino, vigano leggi differenti.

L’antica tradizione astronomica deve infatti in parte la sua esistenza ad una diffusa percezione primordiale del contrasto fra la potenza e stabilità dei cieli e l’insicurezza impotente della vita terrestre. Questa stessa percezione, nella cosmologia aristotelica, è espressa dalla netta distinzione fra le regioni superlunare e sublunare. Tuttavia nella versione molto particolareggiata di Aristotele, la distinzione viene fatta espressamente dipendere sia dalla posizione centrale della Terra sia dalla perfetta simmetria delle sfere che generano i moti stellari e quelli planetari. Secondo Aristotele, la superficie interna della sfera della Luna divide l’universo in due regioni del tutto differenti, piene di tipi diversi di materia e sottoposte a leggi diverse. La regione terrestre in cui vive l’uomo è la regione della varietà e del mutamento, della nascita e della morte, della generazione e della corruzione. La regione celeste è invece eterna ed immutabile. Soltanto l’etere, fra tutti gli elementi, è puro ed incorruttibile. Solo le sfere celesti interdipendenti si muovono in circolo naturalmente ed eternamente, senza mai variare la loro velocità, occupando sempre esattamente la stessa regione di spazio e tornando sempre su se stesse. La sostanza e il moto delle sfere celesti sono le sole cose compatibili con l’immutabilità e la maestà dei cieli, e sono i cieli che generano e controllano tutta la varietà e il mutamento che si verificano sulla Terra. Nella descrizione fisica che Aristotele fa dell’universo, come in ogni religione primitiva, la fascia dei cieli è la sede della perfezione e della potenza da cui dipende la vita terrestre. Distanza ed immobilità fanno dei cieli una sede accettabile per gli dei che possono intervenire a piacere nelle vicende umane149.

S’ammetteva perciò che nei cieli, i movimenti assolutamente e perfettamente regolari delle sfere e degli astri, fossero conformi alle leggi della geometria più rigorosa e rigida,

146 Ivi, p. 35.

147 E in misura assai maggiore nella revisione medievale cristiana della cosmologia aristotelica. 148 Kuhn, Thomas S. (2000), op. cit., p. 105.

proprio in virtù del fatto che, i cieli, sono altra cosa dalla terra. Questo fa sì che in Grecia si sviluppi un’astronomia matematica e non una fisica matematica. E, in effetti, la scienza greca, non solo ha costituito una cinematica celeste, ma ha anche osservato e misurato il cielo con un’esattezza sorprendenti, servendosi di calcoli e strumenti di misura che ha ereditato o inventato. Ma, al contrario, non ha mai tentato di matematizzare il movimento terrestre né - con un’unica eccezione - di impiegare sulla terra uno strumento di misura, ed anche misurare precisamente una cosa qualunque al di fuori delle distanze. Questo punto, diviene per la mia analisi, di fondamentale importanza. Sarà infatti, proprio attraverso questi strumenti di misurazione, - strumenti che mancano alla cultura greca - che si affermerà un’idea di esattezza nel mondo che sostituirà, secoli dopo, questo dominio del “più o meno”. Va da sé che non possedere uno strumento che possa misurare esattamente il tempo, rende impossibile anche una precisa misurazione del movimento, fattore questo, che risulterà determinante nella rivoluzione intellettuale che darà il via alla scienza moderna: qui la precisione del cielo greca scenderà in terra. Ora si può capire meglio come anche la scienza di Archimede, senza la possibilità di un’esatta misurazione del movimento, non abbia potuto fondare una dinamica e come mai la tecnica greca non abbia potuto superare il livello della téchnē150.

Il ristagno tecnico presso i Greci va di pari passo con l’assenza d’un vero pensiero tecnico. L’avvio del pensiero tecnico presuppone, parallelamente alle trasformazioni nell’ordine politico, sociale ed economico, l’elaborazione di un nuovo habitus psichico. Quand’esso parrà sbloccarsi, il pensiero tecnico, in realtà, si costituirà. Costruendo delle macchine, formerà il proprio habitus psichico.

In realtà il Filosofo greco, che ha inventato la filosofia, la scienza, la morale, la politica e certe forme d’arte, sul piano della tecnica non è stato un innovatore. La sua attrezzatura e le sue conoscenze tecniche, prese dall’Oriente in antica data, non sono state profondamente modificate da nuove scoperte; le innovazioni o i perfezionamenti, che ha introdotto in certi campi, non hanno sorpassato i limiti del sistema tecnologico che appare già fissato nell’epoca classica o che consiste nell’applicazione della forza umana o animale attraverso vari strumenti, e non nell’utilizzazione delle forze della natura mediante macchine motrici. In modo generale la cultura materiale dei Greci non ha superato lo stadio definito, a seconda degli autori, come tecnica dell’òrganon, eotecnica, tecnica di semplice adattamento alle cose. L’attrezzo, mosso direttamente dall’uomo, appare ancora come un prolungamento dei suoi organi. L’òrganon, invece d’agire per virtù della sua struttura interna, di produrre un effetto il cui meccanismo non sia dello stesso tipo dello sforzo dell’uomo, trasmette ed amplifica la forza umana. Questo ristagno tecnico e questa persistenza d’una mentalità premeccanica nel momento stesso in cui il pensiero tecnico pare prender forma costituiscono dei fenomeni tanto più sorprendenti in quanto sembra a prima vista che il Filosofo greco disponesse dell’habitus psichico che avrebbe dovuto permettergli di fare decisivi progressi su questo terreno come in altri. La stagnazione tecnica del mondo antico potrebbe essere determinata dalla struttura stessa della società e dell’economia antica: una società aristocratica ed un’economia fondata sulla schiavitù151.

Un passo di Schuhl sull’immobilità tecnologica nel mondo greco può essere illuminante: “Se non si fece ricorso alle macchine […] fu perché non c’era bisogno di economizzare la manodopera, quando si avevano a disposizione, abbondanti e poco costose, macchine viventi, a metà fra l’uomo libero e la bestia: gli schiavi”. E poi: “l’abbondanza della manodopera servile rende la macchina antieconomica: l’argomento d’altronde si capovolge e forma un circolo vizioso dal qual l’antichità non seppe uscire: poiché, a sua

150 Koyrè, Alexandre (2000), op. cit., pp. 101-102 151 Vernant, Jean-Pierre (1978), op. cit., pp. 319-320.

volta, l’assenza di macchine faceva sì che non si potesse fare a meno di schiavi. Inoltre l’esistenza della schiavitù non creava soltanto condizioni tali per cui la costruzione di macchine che risparmiassero la manodopera appariva poco desiderabile dal punto di vista puramente economico; essa comportava una particolare gerarchia dei valori che portava al disprezzo del lavoro manuale”152. Questo disprezzo, tratto comune della civiltà aristocratiche (ed anche di altre), era talmente diffuso presso i Greci che il significato stesso di artigiano diviene spregevole e si applica a tutte le tecniche: tutto ciò che è proprio dell’artigiano o del manovale, porta vergogna e deforma l’anima oltre il corpo. Così l’opposizione di ciò che è servile e di ciò che è liberale si prolunga con quella della tecnica e della scienza: e l’esistenza stessa della schiavitù, per un curioso contraccolpo, distoglie il Filosofo greco da tutte le ricerche che avrebbero potuto avere l’effetto di abolirla: fare ricerche sulle applicazioni pratiche vuol dire derogare, decadere; inoltre questa convinzione della preminenza della teoria sulla pratica, in cui tutti concordano nel vedere il carattere peculiare dell’habitus psichico greco, viene ad essere rafforzata e sostenuta da quella della superiorità della natura sull’arte, la quale non può che imitarla, senza mai attingere la sua perfezione e non può dunque produrre che copie. Qualsiasi mestiere manuale ostacola ed impedisce lo sviluppo armonioso del corpo; in più l’anima finirebbe col corrompersi perché il lavoro ha per fine di “soddisfare ciò che c’è di più inferiore nell’uomo, il desiderio della ricchezza”153. Così il disprezzo che si ha per l’artigiano si estende al commerciante: in rapporto alla vita liberale occupata da “ozi studiosi” il negozio, gli affari non hanno spesso che un valore negativo; la vita contemplativa, dice Aristotele, è superiore alle forme più alte dell’attività pratica. Anche l’ingegnere e lo stesso sperimentatore non sono più considerati dell’artigiano; la teoria si oppone alla pratica. Vitruvio, grande architetto dell’epoca, tenta di proclamare l’intenzione di unirle nel suo trattato, ma invano. Per molti studiosi dell’epoca, uno dei grandi meriti di Pitagora, era di aver fatto delle matematiche una disciplina liberale studiandole dal punto di vista immateriale e razionale. Plutarco ci racconta come Platone si adirò contro Archita ed Eudosso che avevano intrapreso la soluzione di certi problemi geometrici, come quello della duplicazione del cubo, con l’aiuto di apparecchi meccanici: “Poiché Platone si era corrucciato con loro dichiarando che essi corrompevano e guastavano la dignità e ciò che v’era d’eccellente nella geometria, col farla discendere dalle cose intellettive e incorporee alle cose sensibili e materiali, e col farle usare materia in cui bisogna impiegare troppo vilmente e troppo bassamente l’opera della mano: da quel tempo, io dico, la meccanica o l’arte degli ingegneri venne ad essere separata dalla geometria ed essendo lungamente tenuta in disprezzo dai filosofi, divenne una delle arti militari”154.

Varie testimonianze mostrano che, utilizzando le conoscenze scientifiche dell’epoca, il Filosofo greco ha potuto abbastanza presto affrontare alcuni problemi tecnici al livello della teoria. In Platone ed in Aristotele, il termine architéktōn designa, in opposizione al manovale o all’artigiano che lavora con le sue mani, il professionista che dirige dall’alto i lavori: la sua attività è d’ordine intellettuale, matematico essenzialmente. Possedendo gli elementi d’un sapere teorico, egli può trasmetterlo in un insegnamento di carattere razionale, molto differente dal tirocinio pratico. I Mechanica attribuiti ad Aristotele, vogliono dare la spiegazione razionale degli effetti prodotti dalle “macchine semplici”, che formano la base di tutte le combinazioni meccaniche e le cui proprietà derivano, secondo l’autore, dal cerchio come loro principio comune. Questo sforzo di delucidazione teorica dei problemi che si pongono in certi campi dell’attività tecnica verrà approfondita

152 Schuhl, Pierre Maxime (1962), op. cit., p. 120. 153 Koyrè, Alexandre (2000), op. cit., p. 59. 154 Ivi, p. 65.

in seguito dalla scuola alessandrina155. Uomini come Ctesibio e Filone e, più tardi, Erone vengono chiamati “costruttori di macchine”. Sono ingegneri, inventori. Costruiscono la teoria dei diversi tipi di macchine: della loro fabbricazione, del loro funzionamento, delle loro regole d’uso. Essi hanno una duplice preoccupazione: sistemazione razionale, di forma dimostrativa, che si appoggi sui principî156, e chiarezza e precisione, nei dettagli di costruzione, tali da poter servire alla pratica dei mestieri interessati. Quest’ingegnosità tecnica, unita ad una ricerca dei principî generali e delle regole matematiche che permettono - quand’è possibile - di calcolare la costruzione e l’impiego dei congegni, ha prodotto una serie di notevoli invenzioni. Tuttavia non ha agito sul sistema tecnologico dell’antichità per trasformarlo, non ha infranto l’intelaiatura dell’habitus psichico premeccanico. Ed infatti una doppia constatazione s’impone: laddove le macchine descritte dagli ingegneri hanno effettivamente una destinazione utilitaria, esse sono impiegate e concepite sotto forma di strumenti che moltiplicano la forza umana, alla quale, malgrado la loro complessità, ricorrono come al solo principio motore. Quando esse fanno appello ad altre forme d’energia e, invece d’amplificare una forma data in partenza, funzionano da automa che sviluppa il suo movimento proprio, si tratta d’opere che si situano, conformemente a tutta una tradizione d’oggetti meravigliosi, in margine al campo propriamente tecnico: sono dei thaùmata, costruiti per provocare lo stupore. La bizzarria stessa dei loro effetti, prodotti da un dispositivo nascosto, ne limita strettamente la portata; il loro valore e il loro interesse provengono non tanto dai servizi che possono rendere, quanto dall’ammirazione e dal piacere che suscitano nello spettatore. In nessun momento compare l’idea che, mediante questa specie di macchine, l’uomo possa comandare alle forze della natura, trasformarla, rendersene signore e padrone. Per spiegare i limiti entro i quali, malgrado la sua ricchezza inventiva, questo pensiero tecnico è rimasto rinchiuso, s’è giustamente insistito sugl’intralci che mettevano al suo sviluppo le strutture economico- sociali della Grecia, ed in particolare l’esistenza d’una abbondante mano d’opera servile e l’assenza di sbocco interno per la produzione mercantile157.

Dunque, una possibile spiegazione dello stato e della stagnazione della tecnica antica, si fonda interamente sulla premessa implicita della dipendenza della tecnica riguardo alla scienza. Poiché solo in quest’ipotesi, l’habitus psichico del Filosofo greco dell’antichità diviene qualcosa d’importante. Insomma la spiegazione sociogenetica affermerebbe che poiché il Filosofo greco, per ragioni storiche, sociali, cosmologiche determinate, ha disprezzato il lavoro e le questioni meccaniche, e, in altri termini, perché la scienza non ha costituito nessuna tecnologia, la tecnica antica non ha superato un certo livello, relativamente primitivo, e si è sviluppata così poco nel corso dei secoli. A tal proposito bisogna tener conto, come s’è già notato, che nella concezione aristotelica (ed anche in quella platonica) esiste un’opposizione radicale tra epistémē e téchnē.

Nella storia umana la tecnica precede la scienza, e non viceversa. Dobbiamo dunque osservare che esiste un’origine indipendente della tecnica, e dunque l’esistenza di un pensiero tecnico, di un pensiero pratico essenzialmente differente dal pensiero teorico della scienza. Questo non esclude che la scienza non possa volgersi verso la tecnica e fare teoria della pratica; allora appunto, appare la tecnologia, scienza tecnica e tecnica scientifica; ma questo, nel mondo greco non avvenne, e probabilmente per le questioni che finora illustrate. Si potrebbe dire che la scienza greca ha certamente posto le basi della

155 A questa importante scuola di pensiero, dedicherò una parte consistente del prossimo capitolo.

156 Erone ricorda un certo numero di regole di metodo: una proposizione non può contraddirne un’altra, di cui

s’è data precedentemente la dimostrazione; la ricerca deve partire da quel che è evidente, e di cui la causa è evidente; chi vuole avanzare nella scoperta delle cause deve partire da uno o più principî fisici e riportare ad essi tutte le questioni che si presentano.

tecnologia nel suo studio delle “cinque potenze” (le macchine semplici). Ma non l’ha mai sviluppata. Così la tecnica antica è rimasta allo stadio pre-tecnologico, pre-scientifico, sebbene numerosi elementi della scienza geometrica e meccanica (statica) siano stati incorporati nella téchnē. La scienza greca non ha costituito una vera tecnologia, perché essa non ha elaborato una fisica. Ancora, da più parti - fonti storiche, opere d’arte, trattati - ci accorgiamo che l’abbondanza di schiavi, che Aristotele considera come “macchine animate”, fanno sì che non si senta la necessità di ricorrere ad altre fonti d’energia che a quella umana. In secondo luogo, il fatto che si ricorresse a manodopera servile generò una particolare gerarchia dei valori e il disprezzo del lavoro meccanico, considerato per l’appunto, come servile. Ma il difetto più grave che sia Aristotele che Platone rimproverano al lavoro meccanico, è ch’esso genera un intimo desiderio di ricchezza - e questa è la condanna di tutto un aspetto della civiltà moderna - distogliendoci dalla ricerca. Se le arti liberali sono superiori, dice Aristotele, questo deriva dal fatto che non hanno utilità158.

In più, in Grecia, s’è opposta allo sviluppo di una civiltà tecnologica il dominio che esercitava sugli habitus psichici, come una sorta di categoria, l’opposizione fra natura ed arte. L’arte imita la natura in virtù di procedimenti meccanici, ma la natura - come diceva Plotino - la natura non usa leve. Per gli antichi, l’uomo è destinato a vivere nel mondo, e non a sfruttare, né a correggere il mondo. Il Filosofo greco non ambiva a mutilare quell’opera d’arte che è il mondo, mutandone il volto. C’è, in qualche modo, un interesse estetico verso il mondo che spiega alcune trascuratezze degli osservatori antichi e la loro negligenza degli aspetti quantitativi. C’è inoltre da notare, che quando si affranca dalla magia, il pensiero tecnico non giunge subito ad allinearsi con la scienza, ma resta a lungo nella sfera del brancolamento, della tendenza ad un fine non raggiunto. Alcuni meccanismi dell’epoca erano teoricamente molto belli, ma avendo il difetto di non tenere conto della resistenza e dell’attrito, non potevano funzionare, non erano concezioni pratiche. In questi comportamenti, in queste attitudini mentali, c’è molto ancora della originaria mentalità magica, per cui una macchina è una macchinazione, un espediente, un tranello che viene teso alla natura.

In questo senso - cioè su questa resistenza al cambiamento dovuta ad un determinato habitus psichico - esiste una teoria di Kojève159 molto suggestiva sul mancato sviluppo della tecnologia nel mondo greco. L’autore parte dal presupposto che nessun popolo non cristiano ha voluto o potuto superare i limiti della scienza ellenica. I Greci, dal canto loro, che essi stessi non hanno voluto o potuto superare i limiti della loro stessa scienza erano tutti pagani. Il primo paradosso posto da Kojève è che, essendo difficilmente sostenibile che i Greci furono pagani in quanto non si dedicarono alla fisica matematica, bisognerà supporre che essi non sono stati in grado di elaborare una tale fisica perché hanno voluto restare pagani (in quanto appare insostenibile supporre che la teologia pagana non abbia avuto influssi sul pensiero greco). La teologia pagana “classica”, all’opposto della teologia cristiana, dovrebbe essere una teoria della trascendenza, o, meglio, della duplice trascendenza di Dio. In altri termini, a differenza del cristiano, al pagano non bastava

158 In Aristotele, è crematistica ciò che non mira a soddisfare un bisogno, ma ricerca il denaro per il denaro.

La fabbricazione d’una scarpa ha il suo fine naturale, cioè l’uso di questa scarpa; ma può proporsene un altro, che non è naturale: cioè la vendita della scarpa (Politica 1257 a). Così ogni téchnē, può essere sviata dalla sua funzione naturale verso la crematistica. Lo scambio rimane tale nella misura in cui resta rinchiuso nei limiti dei bisogni naturali. Ma contrariamente alla natura di una vera téchnē, la crematistica è illimitata, come se l’arte d’acquistar ricchezze, l’usura per esempio, avesse il potere di generare indefinitamente denaro con denaro. Il fatto è che in realtà essa non genera proprio niente: perché il denaro non è altro che una cosa illusoria, “che ha valore solo per convenzione, e non per natura, poiché un cambiamento di convenzione presso coloro che se ne servono può renderlo incapace di soddisfare i nostri bisogni (1257 b)”.

morire - in determinate condizioni - per poi trovarsi al cospetto della divinità. Anche dopo la completa liberazione del corpo, l’ascensione del pagano verso Dio è interrotta a metà