• Non ci sono risultati.

Configurazioni socio-storiche: la Pólis

La conoscenza scientifica nel periodo classico: la nascita del cosmo

III.1 Configurazioni socio-storiche: la Pólis

Nella Grecia antica non esiste ancora una scienza costituita. Le poche conoscenze astronomiche che i Greci utilizzeranno, non le hanno elaborate loro, ma le hanno acquisite dalle vicine civiltà del Medio Oriente, in special modo dai Babilonesi. Si pone immediatamente un paradosso: I Greci fonderanno la cosmologia e l’astronomia; gli imprimeranno un orientamento che determinerà la sorte di queste discipline per tutta la storia dell’Occidente; sin da subito, daranno loro una direzione a cui ancora oggi siamo, in parte, legati. Tuttavia non erano stati loro a impegnarsi, da secoli, ad un lavoro meticoloso d’osservazione degli astri, a incidere su tavolette, come hanno fatto i Babilonesi, effemeridi segnalanti diverse fasi della luna, il sorgere ed il tramontare delle stelle. Dunque i Greci hanno utilizzato delle osservazioni, delle tecniche, degli strumenti messi a punto da altri. cionondimeno hanno integrato le conoscenze, che così gli erano state tramandate, in un sistema interamente nuovo; hanno fondato un’astronomia nuova. Come spiegare quest’innovazione? Perché i Greci hanno collocato i saperi presi da altri popoli in una cosmologia nuova ed originale?

L’astronomia babilonese, molto sviluppata, ha, grosso modo, tre caratteri: 1) Resta integrata ad una religione astrale. Il mondo celeste rappresenta ai loro occhi delle potenze divine. Osservandolo, gli uomini, possono penetrare le intenzioni degli dei. 2) Quelli che hanno l’ufficio di osservare gli astri appartengono alla categoria degli scribi. Nella società babilonese, gli scribi hanno la funzione di notare per iscritto, e di conservare sotto forma di archivi, tutta la vita economica in dettaglio. Si può dire che essi tengono la contabilità di quel che succede nel cielo, come tengono la contabilità di quel che succede nella società umana. In tutti e due i casi gli scribi agiscono al servizio di quel personaggio che domina tutta la società babilonese, e la cui carica è tanto religiosa quanto politica: il re. Infatti, per il re, è essenziale sapere quel che succede nel cielo: il suo destino personale e la salvezza del regno ne dipendono. Intermediario fra il mondo celeste ed il mondo terrestre, egli deve conoscere esattamente in quale momento deve compiere i riti religiosi di cui ha l’incarico. Dunque l’astronomia è legata all’elaborazione di un calendario religioso, la cui messa a punto è privilegio d’una classe di scribi che lavorano al servizio del re. 3) Quest’astronomia ha carattere strettamente aritmetico. I Babilonesi, che hanno una conoscenza precisa di alcuni fenomeni celesti, non si rappresentano i movimenti degli astri nel cielo secondo un modello geometrico; l’astronomia presso di loro, non è proiettata in uno schema spaziale120.

Sin dall’inizio, su questi tre punti, l’astronomia greca registra una frattura radicale. Prima di tutto, si allontana da ogni religione astrale. I “fisici” d’Ionia - un Talete, un Anassimandro, un Anassimene - avanzano, nei loro scritti cosmologici, una théoria, cioè una visione, una concezione generale che renda spiegabile il mondo senza nessuna preoccupazione di carattere religioso, senza alcun riferimento a divinità o a pratiche rituali. Anzi i “fisici” sanno di contrapporsi, in parecchi punti, alle credenze religiose tradizionali. Siamo di fronte ad un sapere che, immediatamente, si ispira ad un ideale d’intelligibilità. C’è la volontà, in questi pensatori, di spiegare l’universo in una maniera totalmente positiva e razionale. Se confrontiamo la concezione antica, l’immagine arcaica

119 Per approfondimenti su questo paragrafo, vedi Vernant, Jean-Pierre (1978), op. cit. 120 Ivi, pp. 201-203.

del mondo, con lo schema che si definisce già nitidamente in Anassimandro, ci rendiamo conto che si tratta di un cambiamento nella rappresentazione stessa dello spazio. Una rivoluzione simile - per importanza - a quella che avvenne dal passaggio dalla concezione geocentrica alla concezione eliocentrica. Questa nuova concezione dello spazio produceva così una vera trasformazione nell’idea che l’uomo si faceva di se stesso e dei suoi rapporti con l’universo. Come spiegare dunque questa svolta nel pensiero astronomico, questa mutazione della visione del mondo?

Fra l’età di Esiodo e quella d’Anassimandro si sono prodotte numerose trasformazioni, sul piano sociale e su quello economico, di cui s’è sottolineata spesso l’importanza. Ma più d’altre diventa fondamentale, per una giusta comprensione del mutamento che si deve spiegare, il fenomeno politico, cioè l’avvento della pólis greca. Questa realtà, caratterizzata da uno specifico habitus psichico, con un suo vocabolario, i suoi concetti di base, la sua intelaiatura intellettuale è stato elaborato nella pratica sociale e poi declinato all’applicazione della conoscenza della natura.

La pólis presuppone un processo di desacralizzazione e di razionalizzazione della vita sociale. Non c’è più un re sacerdote che, mediante l’osservanza d’un calendario religioso, faccia, in nome del, e per il gruppo umano, tutto ciò che è da farsi; sono gli uomini a prendere loro stessi in mano il loro destino “comune”, a decidere d’esso dopo discussione (quando si dice uomini, si intende i cittadini). Ma, per i cittadini, gli affari della città non possono essere regolati se non al termine d’un pubblico dibattito, in cui ciascuno può liberamente intervenire per svilupparvi i suoi argomenti. Il lògos, strumento di questi pubblici dibattiti, prende perciò un duplice senso: da una parte, è la parola, il discorso che pronunciano gli oratori nell’assemblea; ma è anche la ragione, questa facoltà d’argomentare che definisce l’uomo in quanto non è semplicemente un animale ma, come “animale politico”, un essere ragionevole121. A quest’importanza che allora acquista la parola, diventata ormai lo strumento per eccellenza della vita politica, corrisponde anche un cambiamento nel significato sociale della scrittura. Nei regni del Medio Oriente, la scrittura era specialità e privilegio degli scribi; permetteva all’amministrazione reale di controllare, tenendone la contabilità, la vita economica e sociale dello stato; mirava a costituire degli archivi, tenuti più o meno segreti nell’interno del palazzo. Al momento della nascita della città, la scrittura assume una funzione esattamente inversa. Invece d’esser privilegio di una casta, segreto d’una classe di scribi che lavora per il palazzo del re, la scrittura diviene “cosa comune” a tutti i cittadini, uno strumento di pubblicità; consente d’immettere nel dominio pubblico tutto quello che, superando la sfera privata, interessa la comunità. Le leggi debbono essere scritte; in tal modo diventano veramente cosa di tutti. Le conseguenze di questa trasformazione della posizione sociale della scrittura saranno fondamentali per la storia intellettuale: se la scrittura permette di rendere pubblico, di porre sotto gli occhi di tutti, quello che nelle civiltà orientali restava sempre più o meno segreto, ne risulta che le regole del gioco politico, cioè il libero dibattito, la discussione pubblica, l’argomentazione contraddittoria diverranno anche le regole del gioco intellettuale. Come gli affari politici, anche le conoscenze, le scoperte, le teorie di ogni filosofo sulla natura saranno messe in comune, diverranno “cose comuni”. Se la cosmologia greca ha potuto liberarsi dalla religione, se il sapere concernente la natura s’è desacralizzato, è perché, nello stesso tempo, la vita sociale s’era essa stessa razionalizzata, perché l’amministrazione della città era divenuta un’attività in gran parte profana.

All’elaborazione d’uno spazio astratto, legato all’organizzazione politica, corrisponde la creazione d’un tempo civico, costruito secondo le stesse esigenze. Ancora come lo spazio, questo tempo civico (contrariamente al tempo religioso, ritmato da feste che tagliano il

ciclo dell’anno in fette temporali qualitativamente diverse, e a volte addirittura nettamente opposte) è caratterizzato dalla sua omogeneità. Politicamente, tutti i periodi del tempo civico, sono intercambiabili.

Tuttavia, i progressi stessi della matematica dovevano permettere, nel IV secolo, alla geometria ed alla politica d’incontrarsi di nuovo. Nei circoli pitagorici che, con Archita, giungono al potere a Taranto, sarebbero nati i primi tentativi di applicare le nozioni matematiche ai problemi sociali posti dalla crisi della città. Alla nozione semplice dell’uguaglianza, che appariva nell’ideale d’isonomìa, si sostituiscono concezioni più dotte: si distinguono, si contrappongono, uguaglianza aritmetica ed uguaglianza geometrica o armonica. In realtà, la nozione fondamentale è ormai quella di proporzione. Essa giustifica una concezione gerarchica della città, permettendo nello stesso tempo di vedere nelle istituzioni della pólis l’immagine “analogica” d’un ordine superiore all’uomo, cosmico o divino. Dunque, questo nuovo incontro del geometrico e del politico non deve trarre in inganno, non si tratta d’un ritorno al passato. Tutto l’equilibrio delle nozioni è modificato. Nel VI secolo, l’essenziale era definire e promuovere un ordine propriamente umano. Si potrebbe dire che il filosofo, quando si rappresentava l’ordine del mondo, manteneva gli occhi fissi sulla città. Invece, nel IV secolo, il filosofo ha gli occhi volti al divino, contempla il cielo, gli astri, i loro movimenti regolari: è a partire da loro ed a loro immagine che concepisce l’ordine della città, proprio quando la storia ne ha già mandato in rovina le strutture tradizionali.

Per Clistene122, il problema era la rifusione delle istituzioni ateniesi; per Platone, il fondamento della città. Quando, dallo sforzo d’organizzazione della città reale, si passa alla teoria o all’utopia della città ideale, i rapporti del matematico e del politico si capovolgono. La città non ha più la funzione di modello; il politico non costituisce più quel campo privilegiato in cui l’uomo coglie se stesso come capace di regolare da sé, attraverso un’attività riflessa, i problemi che lo concernono, al termine di discussioni e di dibattiti coi suoi pari: è la matematica che ha valore di modello, perché, nella testa di quest’essere eccezionale che è il filosofo, essa riflette il pensiero divino.

L’analisi della città platonica malgrado tutti gli elementi presi a prestito dagli stati del suo tempo, la sua città teorica, lungi dal rappresentare la verità della città classica, ne è, sotto molti rispetti, l’opposto. Non sono più tanto gli uomini a dirigerla, quanto gli dèi, e lo sforzo di Platone non mira a trovare le istituzioni che permettano ai cittadini di governarsi da sé, ma a fondare una città che sia, in tutta la misura del possibile, nelle mani degli dèi. Quanto allo spazio ed al tempo civici creati da Clistene, essi diventano, in modo del tutto naturale, il riflesso delle realtà siderali, in modo da far partecipare il microcosmo della città al macrocosmo dell’Universo123. Nella città platonica, la differenziazione delle classi dà luogo ad una vera segregazione fondata su una differenza di natura fra i membri delle diverse categorie funzionali che non devono, su nessun piano, trovarsi mischiate. Tuttavia lo scopo finale di Platone resta quello stesso che si prefiggeva Clistene: costruire uno stato che sia veramente uno ed omogeneo. Ma, per il filosofo, quest’ideale indica una condizione imperiosa: coloro che formano lo stato non possono essere simili politicamente se non a condizione d’esserlo anche nell’insieme della loro vita sociale. Perché dirigenti e custodi possano adempiere il loro incarico e vegliare al bene generale, bisogna che tutto fra loro sia effettivamente uguale e comune. Questo non è possibile se non a condizione ch’essi rinuncino ad ogni attività d’ordine professionale o economico per consacrarsi interamente ed esclusivamente alla loro funzione politica. In altre parole, la realizzazione

122 Clistene (Atene, 565 a.C. - Atene, 492 a.C.), fu uno dei padri della democrazia della Grecia classica. 123 Lèveque e Vidal-Naquet, Clisthène l’Athènien, p. 146, in Vernant, Jean-Pierre (1978), op. cit., p. 258.

del modello clistenico d’una politeìa124 omogenea presuppone un’epurazione della sfera politica, mediante l’espulsione di tutti quelli che, a qualsiasi titolo, sono impegnati nella vita professionale. In una città in cui la specializzazione delle funzioni e dei mestieri ha diviso il gruppo in parti antagonistiche, l’unità e l’omogeneità dello stato non possono essere ristabilite se non facendo dell’attività politica una specialità a parte, un mestiere opposto a tutti i mestieri, nel senso che appartiene alla sfera pubblica e non, come gli altri, alla sfera dell’interesse privato. Dunque Platone è indotto ad evocare le condizioni locali più favorevoli alla realizzazione del suo progetto e a precisare i modi d’organizzazione dello spazio che la sua legislazione proietterà sul terreno. Egli non nasconde che il suo piano ha un valore ideale: nella pratica, senza dubbio, sarà impossibile riunire tutte le condizioni richieste. Dunque ci troviamo di fronte - e Platone lo dice espressamente - ad un modello. Questo modello è insieme geometrico e politico. Rappresenta l’organizzazione della città nella forma d’uno schema spaziale. Circolare e centrato come quello di Clistene, lo spazio politico di Platone se ne distingue però su parecchi punti essenziali. Non è più l’agorà che occupa la posizione centrale, ma l’acropoli, consacrata alle divinità tutelari della città, Zeus ed Athena. Questo spostamento del centro è significativo: l’acropoli si oppone all’agorà come la sfera del “sacro” alla sfera del lecito o del “profano”, come il divino all’umano. La città platonica si costruisce intorno ad un punto fisso che, per il suo carattere sacro, àncora, per così dire, il gruppo umano alle divinità; s’organizza secondo uno schema circolare che riflette l’ordine celeste. Dunque è normale che Platone, percorrendo in senso inverso il cammino seguito da Clistene, si affidi ad un sistema in cui il valore religioso appare senza equivoco: ogni tribù è assegnata, come suo lotto, ad uno dei dodici dèi del pantheon. Padroni dello spazio, gli dèi sono anche signori del tempo: ognuno dei dodici mesi è attribuito ad un dio. Se le divisioni del tempo corrispondono a quelle dello spazio, c’è che spazio e tempo si modellano entrambi sull’ordine divino del cosmo. Il piano politico, che Clistene aveva superato, viene dunque reintegrato da Platone nella struttura d’insieme dell’universo. Ad Atene, quella che oggi chiameremmo la funzione tecnica, è da associarsi ad una categoria sociale precisa: gli artigiani. Platone sottolinea come nel mito di Prometeo si evidenzi l’opposizione fra l’arte politica e l’arte militare da una parte, e le tecniche utilitarie dall’altra. Uno Zeus sovrano, protetto da “guardiani”, opposto a delle divinità che han seggio più in basso e presiedono alle arti ed al lavoro: si riconosce qui, espresso nel linguaggio della religione, lo schema delle tre classi sociali e delle loro funzioni, che domina tutta una corrente del pensiero politico greco. Ora, per Platone, le virtù che qualificano i membri delle prime due classi per le funzioni di dirigenti e guardiani, fondano un sistema sociale comunitario; la psicologia della gente che esercita un mestiere esige invece un’economia di proprietà privata. Platone sostiene categoricamente l’incompatibilità della funzione tecnica e della funzione politica: la pratica di un mestiere squalifica per l’esercizio del potere.

Ad Atene la divisione del lavoro era già avanzata e gli artigiani avevano avuto, nella prosperità della città e nella sua vita politica, una parte che, d’altronde, Platone deplorava. L’importanza da lui accordata alla tecnica ha toccato la sua concezione dell’uomo solo negativamente. Nessuno degli aspetti psicologici della funzione gli pare presentare un valido contenuto umano: né la tensione del lavoro come sforzo umano di un tipo particolare, né l’artificio tecnico come invenzione intelligente, né il pensiero tecnico nel suo ruolo formatore della ragione. Al contrario, si trova in lui la cura di separare e di opporre intelligenza tecnica e l’intelligenza, l’uomo tecnico ed il suo ideale di uomo, così

124 Quando si parla di politeìa nel senso di "costituzione" non si allude semplicemente al complesso di leggi,

formale e materiale, che regola la vita pubblica, ma anche e nello stesso tempo alle persone che vivono e partecipano alla città.

come egli separa e oppone nella città la funzione tecnica e le altre due. Nell’opera di Platone, non si accorda mai una virtù positiva a quelli cui la funzione sociale è costituita dal lavoro. Si può dire che, per Platone, il lavoro resta estraneo ad ogni valore umano e che, sotto certi aspetti, gli appare addirittura come l’antitesi di quello che è essenziale nell’uomo. Questa maniera di delimitare e giudicare il tecnico nell’uomo è solidale, in Platone, di tutto un sistema, in cui il filosofico, il morale e il politico sono strettamente intrecciati; l’idea dell’arte umana è perfettamente sviluppata, e ben delimitato il posto del tecnico come funzione sociale; ma in un pensiero filosofico che traduce il rifiuto di certe trasformazioni sociali ed umane, l’arte si trova deprezzata rispetto alla natura, mentre gli aspetti psicologici della funzione tecnica sono disconosciuti o scartati.

Spesso s’è notato lo scarto, nell’antica Grecia, fra il livello tecnico e l’apprezzamento del lavoro: malgrado il posto già preso dalle tecniche nella vita degli uomini, e ad onta delle importanti trasformazioni mentali ch’esse paiono aver apportate, l’attività tecnica e il lavoro hanno solo molto difficilmente accesso al valore morale. Bisogna aggiungere ch’essi non sono neppure ancora individuati come funzione psicologica, non hanno quella forma densa di condotta umana organizzata che noi oggi vediamo in essi125.