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Universi simbolici e riserve sociali di conoscenza: Maestri e Mercant

La conoscenza scientifica nel basso Medioevo: la Rinascita del XII secolo

V.2 Universi simbolici e riserve sociali di conoscenza: Maestri e Mercant

Prima del secolo XIII, nell’Occidente barbarico, tutte le attività rimunerate erano colpite dall’infamia, attributo delle categorie dette mercenarie. Tutto ciò che si pagava, che si comprava era indegno. L’onore o il dovere si definivano attraverso servizi, dall’alto verso il basso e reciprocamente. Il denaro, marginale nell’economia, lo era anche nella morale. La società cristiana dell’alto Medioevo era rafforzata in questa credenza vedendo il settore monetario “infestato” dai giudei. Il costante progresso della commercializzazione e del regime salariale sconvolge i valori.

Con il rinnovamento economico, dal secolo XI al XIII, con il risveglio del commercio di lungo corso, del decollo urbano, il paesaggio sociale cambia236. Compaiono nuovi ceti, legati alle nuove attività: artigiani, mercanti, tecnici. Imponendosi ben presto sul piano materiale, essi vogliono la consacrazione della considerazione sociale. Per ottenerla devono vincere i pregiudizi che riguardano il lavoro, essenza della loro attività, fondamento della loro condizione. Fra i mezzi di questa promozione ricordiamo solo l’utilizzazione della religione, strumento necessario per qualsiasi ascesa materiale e spirituale nel mondo medievale. Così ogni mestiere ha il suo santo patrono, più d’uno talvolta, e le corporazioni, che fanno rappresentare i loro santi protettori nell’esercizio della loro professione, o almeno con gli attrezzi, i simboli del loro mestiere, magnificano le loro occupazioni, allontanando una diffidenza ormai sconveniente nei confronti di un’attività illustrata da così potenti e venerabili rappresentanti.

Due categorie, due mestieri, conducono qui il gioco. Innanzitutto gli insegnanti. La scienza, la cultura, prima del secolo XII, sono privilegio di chierici che l’acquisiscono e la dispensano, parsimoniosamente, senza spendere niente. Scuole monastiche o vescovili formano discepoli per l’opus Dei senza monetizzare la cultura. Con le scuole urbane del XII secolo, trascinate dal progresso delle città, animate dai maestri che devono, come i loro allievi, vivere dei propri mezzi, le condizioni materiali, sociali e spirituali del sapere sono fondamentalmente trasformate. È tutto il senso del dibattito, che, dalla metà del secolo XII, s’instaura intorno a una formula: Scientia donum Dei est, unde vendi non

potest. Poco importa sapere quali possibilità di rimunerazione si offrono ai nuovi maestri,

quali soluzioni prevarranno: salario pubblico, rimunerazione dei clienti, cioè degli studenti, benefici ecclesiastici. L’essenziale è che alla domanda: “Possono i maestri insegnare sotto pagamento?” la risposta sia affermativa237. Parallelamente, la questione si

pone per i mercanti, nel settore del credito in cui l’espansione dell’economia monetaria respinge in secondo piano i giudei, confinati a quelle operazioni di prestito di scarsa portata. C’è ormai il problema dell’usura cristiana. L’interesse in mancanza del quale l’economia monetaria precapitalistica non potrebbe svilupparsi, presuppone, nella terminologia della scolastica, un’operazione fino ad allora maledetta: la vendita del tempo. Esattamente simmetrico al problema della commercializzazione della scienza è dunque quello della commercializzazione del tempo, a cui s’oppose una stessa tradizione, una stessa formula: Tempus donum Dei est, unde vendi non potest. Anche qui la risposta dei manuali dei confessori è favorevole. Si passa, seppur gradualmente, dall’economia-natura

236 Lo schema tripartito che aveva dominato l’alto Medioevo crolla, così come crolla, nello stesso tempo, il

quadro tradizionale delle sette arti liberali e la separazione tra arti meccaniche e arti liberali (Ugo di San Vittore nel Didascalion poneva le arti meccaniche accanto alle arti liberali in una nuova classificazione delle scienze che si ritrova nel secolo XIII presso Roberto Grossatesta e San Tommaso di Aquino). Così, all’inizio del XIII secolo, nell’opinione pubblica la stima comincia a passare dall’eroe virtuoso al tecnico abile in un vero e proprio processo di sostituzione. I cavalieri devono cedere il passo ai balestrieri, ai minatori, ai tagliapietre, agli ingegneri. L’evoluzione della tecnica militare compromette la supremazia professionale del cavaliere feudale.

all’economia-denaro. L’importante è che la condizione richiesta per meritare un salario sia il compimento di un lavoro. Lavoro inteso ancora in modo ambiguo, in cui si riconosce la confusione propriamente medievale tra la pena, la fatica e l’esercizio di una mansione economica nel senso moderno. Il lavoro è fatica. La condizione necessaria e sufficiente perché un mestiere diventi lecito, perché un salario sia percepito a buon diritto è la prestazione di un lavoro. Qui l’intellettuale e il mercante sono ancora ugualmente giustificati nel loro nuovo status socio-professionale. Perché il magister, perché il mercante possano legittimamente, senza tema di dannazione, percepire un salario o un interesse, basta che la loro rimunerazione o il loro beneficio - il basso Medioevo non fa una distinzione tra i due - ricompensi il lavoro; è necessario e sufficiente che abbiano lavorato. Il lavoro è divenuto il valore di riferimento238.

Questa sottrazione del tempo al dominio divino a vantaggio della nuova classe dei mercanti ha ulteriori ripercussioni: un deciso distacco dalla natura; infatti il mercante, come il contadino, è in un primo tempo soggetto nella sua attività professionale al tempo meteorologico, al ciclo delle stagioni, alla imprevedibilità delle intemperie e dei cataclismi naturali. Per molto tempo non c’è stato, in questo campo, che necessità di sottomissione all’ordine della natura e di Dio, e come mezzo d’azione la preghiera e le pratiche superstiziose. Ma quando una rete commerciale si organizza, il tempo diventa oggetto di misura. La durata di un viaggio per mare o per terra da un luogo ad un altro, il problema dei prezzi che, nel corso di una stessa operazione commerciale, tanto più se il circuito si complica, salgono o scendono, facendo aumentare o diminuire i guadagni, la durata del lavoro artigianale e operaio, per questo mercante che è quasi sempre anche un datore di lavoro, tutto ciò s’impone sempre più alla sua attenzione, diviene oggetto di regolamentazione sempre più precisa: tutto quest’allargarsi del campo monetario richiede un tempo meglio misurato. Tutto mostra che la giusta misura del tempo importa sempre più al buon andamento degli affari. Per il mercante, l’ambiente tecnologico sovrappone un tempo nuovo, misurabile, cioè orientato e prevedibile, al tempo insieme eternamente ricominciato e perpetuamente imprevedibile dell’ambiente naturale. Questo tempo che comincia a razionalizzarsi, si laicizza nello stesso tempo. Più ancora per esigenze pratiche che per ragioni teologiche, che d’altronde ne sono alla base, il tempo concreto della Chiesa è, adattato all’antichità, il tempo dei chierici, ritmato dagli uffici religiosi, dalle campane che li annunciano, eventualmente indicato dalle meridiane, imprecise e mutevoli, misurato talvolta da clessidre grossolane. A questo tempo della Chiesa, mercanti e artigiani sostituiscono il tempo più esattamente misurato, utilizzabile per le faccende profane e laiche, il tempo degli orologi. La grande rivoluzione del movimento comunale nell’ordine del tempo è rappresentata proprio da questi orologi rizzati dappertutto di fronte ai campanili delle chiese. Tempo urbano più complesso e raffinato del tempo semplice delle campagne, misurato dalle campane rustiche. Un altro cambiamento non meno importante: il mercante scopre il prezzo del tempo nello stesso momento in cui esplora lo spazio: per lui la durata essenziale è quella di un tragitto239.

Di fronte a quest’evoluzione, la Chiesa si adegua. Impantanata dapprima nel mondo feudale, con la sanzione del suo disprezzo per i mestieri, essa accetta in seguito l’ascesa dei nuovi strati, spesso la favorisce, protegge ben presto i mercanti, fornisce ai nuovi gruppi socio-professionali la giustificazione teorica e spirituale della loro condizione e della loro promozione sociale e psicologica. Se il lavoro in sé non è più la linea di demarcazione tra categorie considerate e categorie disprezzate, è il lavoro manuale che costituisce la nuova frontiera della stima e del disprezzo. Gli intellettuali, universitari in testa, s’affrettano a situarsi dalla parte “buona”. Con san Tommaso è affermata senza

238 Goff, Jacques (2000), op. cit., pp. 68-152. 239 Ivi, pp. 13-15.

mezzi termini la necessità di una specializzazione del lavoratore intellettuale. L’universitario ha il suo mestiere. Che lasci ad altri la cura di lavorare manualmente - cosa che ha pure il suo valore spirituale - ma non perda il proprio tempo in ciò che non è affar suo. Così sul piano teorico è legittimato il fenomeno essenziale della divisione del lavoro, fondamento della specificità dell’universitario. I filosofi, forti certamente della ragione o piuttosto delle loro virtù intellettuali, innalzano il loro stato al di sopra degli altri, ma si rendono conto che la loro dignità consiste forse nel limitarsi a certe verità dimostrabili e che la loro vocazione è probabilmente accontentarsi di spiegare e non di predicare, d’attenersi ad una “neutralità scolastica”240.

Nell’XI secolo, comincia a manifestarsi un certo interesse per i problemi pratici ed inoltre, cosa non meno importante, una tendenza che sostituì al simbolismo moraleggiante un diverso modo di accostarsi al mondo della natura che significò un mutamento delle prospettive filosofiche; è la tendenza associata particolarmente al nominalista dell’XI secolo Roscellino da Compiègne e al suo discepolo Pietro Abelardo (1079-1142). Alla fine dell’XI secolo l’insegnamento di Roscellino avviò la grande disputa sugli “universali” che indusse gli uomini ad interessarsi di più al singolo oggetto materiale in quanto tale, invece di considerarlo, come aveva fatto sant’Agostino, soltanto l’ombra di un’idea eterna. La prima spiegazione in termini di cause naturali, dopo l’insoddisfacente tentativo d’interpretarlo in termini di simbologia morale, è associata alla scuola di Chartres e fu profondamente influenzata dall’insegnamento di Platone. Al principio del XII secolo, a Chartres si era manifestato un rinnovato interesse per le concezioni scientifiche esposte nel Timeo. Si cominciò ad avere un atteggiamento libero e razionale verso l’autorità degli Antichi e si credette nel progresso della conoscenza. Scrisse Bernardo: “Noi siamo come nani in piedi sulle spalle dei giganti e perciò possiamo vedere più cose di loro e vedere più lontano, non perché la nostra vista sia più acuta o la nostra statura più alta, ma perché possiamo sollevarci più in alto grazie alla loro gigantesca statura”241.

La concezione platonica dell’universo continuò ad esercitare un’influenza notevole fino ai tempi di Ruggero Bacone, che da giovane, più o meno intorno al 1245, tenne un corso sulla fisica basato sulle concezioni della scuola di Chartres. Ma Chartres era già in contatto con le scuole di traduttori che lavoravano sui testi arabi e greci a Toledo e nell’Italia meridionale, e fu a Chartres che furono accolte per la prima volta l’astronomia tolemaica e la fisica aristotelica. Così per gli sviluppi che si ebbero in seno al pensiero dell’Occidente cristiano, le concezioni rappresentate dagli studiosi fino alla metà del XII secolo, cominciavano ad apparire un po’ antiquate. Ben presto furono sostituite dalle idee formulate da coloro che approfondirono lo studio degli autori arabi e greci nella ricerca delle cause naturali.

Vediamo ora cosa ha significato per il basso Medioevo occidentale l’assimilazione di quel corpo di conoscenze definito “aristotelismo”242.

L’introduzione delle opere di Aristotele in lingua latina e la loro successiva diffusione e assimilazione trasformò la vita intellettuale dell’Occidente europeo. Ma l’influenza di Aristotele non dipese soltanto dai suoi scritti: per valutare adeguatamente l’enorme influsso dello Stagirita, è necessario tener conto anche dei commenti alle sue opere, scritti dai Greci nella tarda antichità e dagli Arabi nel periodo che va dal secolo IX all’XI.

240 Le Goff, Jacques (2008), Gli intellettuali nel Medioevo, Mondadori, Milano, pp. 93-112. 241 Crombie, A. C. (1970), op. cit., pp. 22-27.

242 I principî fondamentali dell’aristotelismo sono: radicale dicotomia del cosmo, diviso in una regione

celeste e in una regione terrestre, la prima caratterizzata dal suo incorruttibile etere celeste e la seconda dalla materia corruttibile; l’esistenza di quattro elementi terrestri, di quattro cause operanti nel mondo e di quattro qualità primarie; l’esistenza di una causa ultima di tutti i movimenti, il Primo motore; l’immobilità della Terra, collocata nel centro geometrico dell’universo.

Furono le opere autentiche di Aristotele a modellare la concezione medievale del mondo; ma l’idea che gli uomini del Medioevo si fecero delle sue convinzioni filosofiche fu condizionata anche da molti scritti a lui falsamente attribuiti. A questi si debbono aggiungere le traduzioni dall’arabo in latino di trattati non aristotelici, che contenevano idee derivate dalla filosofia naturale di Aristotele, specialmente nel campo della medicina e dell’astrologia. Questo complesso di idee e di interpretazioni aristoteliche fu ereditato dai filosofi naturali del Medioevo latino. Utilizzando queste fonti, gli studiosi medievali aggiunsero i loro commenti alle opere di Aristotele e composero di propria mano trattati specializzati nei quali predominavano idee aristoteliche. È l’insieme di questi testi - quelli di Aristotele e quelli ad esso attribuiti - che costituisce quel patrimonio letterario che noi oggi chiamiamo aristotelismo243. Questo termine che non fu mai adoperato nel Medioevo, caratterizza mirabilmente la principale componente della vita intellettuale nel periodo che va dal secolo XII al XV e ancora più avanti, sino alla fine del XVII.

Le idee aristoteliche fornirono alla filosofia naturale del Medioevo non solo un quadro generale, una sorta di scheletro, ma anche i tessuti e i muscoli idonei a rivestirlo. Eppure vi sono temi per cui Aristotele fornì scarsi elementi di guida, o perché l’argomento gli era sconosciuto, o perché aveva poco da dire in proposito. In altre occasioni egli fu vago, oscuro o ambiguo, e i suoi commentatori dovettero affrontare e risolvere i problemi in modo autonomo. In altri casi ancora, le sue spiegazioni apparvero inadeguate e da sostituire con altre. Talvolta le sue interpretazioni furono radicalmente modificate sulla base dell’esperienza o sulla base della teologia cristiana. In molti casi, tuttavia, o nella maggior parte di essi, le idee di Aristotele furono utilizzate come le migliori e più affidabili guide per la conoscenza della natura e del suo operato. Per gli studiosi medievali egli fu il Filosofo per eccellenza. Si potrebbe credere che, con questo atteggiamento reverenziale, gli studiosi medievali cercassero di mantenersi il più vicino possibile al grande maestro; ma essi sovente se ne allontanarono244.

Il curriculum delle facoltà delle arti medievali non era stato costruito per venire incontro alle esigenze pratiche della società. Esso si era sviluppato dal patrimonio culturale greco- arabo, acquisito attraverso le traduzioni dei secoli XII e XIII, quel patrimonio era costituito da un corpus di opere teoretiche, studiate per il loro valore intrinseco e non per ragioni pratiche o per motivi di lucro. L’antica tradizione, rappresentata da Aristotele e rafforzata da Boezio e da altri autori, poneva soprattutto l’accento sull’amore per il sapere,

243 La fisica aristotelica è una teoria profondamente elaborata seppure non in modo matematico. Non è né un

prolungamento rozzo e verbale del senso comune, né una fantasia puerile, ma una teoria, cioè una dottrina, che, partendo beninteso dai dati del senso comune, li sottomette ad un’elaborazione sistematica estremamente coerente e rigorosa. La fisica aristotelica non si limita ad esprimere, nel suo linguaggio, il dato del senso comune: essa lo traspone, e la distinzione fondamentale tra i movimenti in “naturali” e “violenti” s’inquadra in una concezione generale della realtà fisica, i cui punti fondamentali sembrano essere: 1) la credenza nell’esistenza di “nature” ben determinate; e 2) la credenza nell’esistenza di un cosmo, la credenza cioè nell’esistenza di principî di ordine, in virtù dei quali l’insieme degli esseri reali forma un tutto (naturalmente) ben ordinato. Tutto, ordine cosmico: queste nozioni implicano che, nell’Universo, le cose sono distribuite e disposte in un modo ben determinato; che essere qui o là non sia loro indifferente, ma, al contrario, ciascuna cosa possieda, nell’Universo, un luogo proprio conforme alla propria natura. Un posto per ogni cosa, e ogni cosa al suo posto; la nozione di “luogo naturale” traduce quest’esigenza teorica delle fisica aristotelica. La fisica aristotelica forma, se si vede bene, una teoria mirabile, mirabilmente coerente, e che non ha, a dire il vero (oltre quello di essere falsa), che un solo e unico difetto: quello di essere contraddetta dall’esperienza del proiettile. Ma un teorico degno di questo nome non si arresta di fronte a un obiezione del senso comune. Quando si imbatte in un fatto che non si accorda con la sua teoria, lo nega. E quando non lo può negare, lo spiega. Ed è nella spiegazione di questo fatto - il fatto del proietto, movimento che si continua malgrado l’assenza del motore - che Aristotele ci mostra tutto il suo genio. Tutti gli attacchi alla dinamica aristotelica, verteranno però su questa questione: a quo moveantur projecta? Per approfondimenti, Koyrè, Alexandre (1976), op. cit.

sulla conoscenza per la conoscenza. Disprezzava coloro che studiavano per guadagnarsi da vivere o per dei fini pratici. Nella società medievale insegnanti e studenti condivisero pienamente questo punto di vista e modellarono l’università medievale in conformità ad esso. Ma la praticità è un concetto che dipende dall’osservatore. Può darsi che il sapere teoretico al quale veniva data tanta importanza nell’antichità e nel Medioevo fosse sentito come eminentemente pragmatico e ragionevole. Quel sapere consentiva di comprendere il funzionamento dell’universo e di acquistare, quindi, preziose conoscenze sulle cause e sugli effetti da cui era perpetuamente regolata l’esistenza umana. Molti probabilmente consideravano tale conoscenza più degna di qualunque altra e le attribuivano, quindi, un valore eminentemente pratico. Quale che fosse il loro atteggiamento conclusivo i filosofi medievali ritenevano molto importante conoscere la struttura e il modo di operare dell’universo, che veniva appunto studiato nelle facoltà delle arti. Con l’accettazione delle università da parte della Chiesa e dello Stato, tutta la società finì con l’accettare l’ideale della cultura patrocinato dalla facoltà delle arti, ideale che venne considerato di grande valore personale per l’individuo ma di scarsa utilità diretta per le attività mondane della società. Questo stato di cose si protrasse per secoli. Nessun significativo ampliamento del curriculum delle facoltà delle arti avvenne nel corso del Medioevo. L’ideale culturale dell’antichità e del Medioevo - l’aspirazione della conoscenza per la conoscenza - rimase sostanzialmente intatto. I programmi delle facoltà delle arti se non fornirono benefici pratici alla società, posero saldamente le basi per lo sviluppo della scienza e del punto di vista scientifico. Ciò avvenne solo in virtù dell’insolita struttura e delle inconsuete tradizioni di un’istituzione come l’università, che rappresentò il più grande contributo del Medioevo alla civiltà occidentale.

Nel basso Medioevo l’ideale della scienza fu la dimostrazione sillogistica. Benché i suoi fondamenti fossero stati esposti da Aristotele negli Analitici secondi, c’erano idee molto diverse sul suo reale significato. Quali che fossero le loro opinioni sui mezzi da usare per conseguire la conoscenza dimostrativa, i filosofi della scolastica erano per lo più d’accordo che, nella misura del possibile, il fine della scienza e della filosofia naturale era la dimostrazione delle verità concernenti il mondo. Alcuni filosofi teologico-naturali245 erano turbati dal pensiero che la certezza conseguibile con la scienza dimostrativa aristotelica potesse rivaleggiare con la certezza della fede, e forse sovvertirla. Per contrastare questa spiacevole possibilità, alcuni filosofi teologico-naturali sollevarono dubbi sulla certezza della scienza dimostrativa aristotelica, invocando la dottrina della potenza assoluta di Dio, che, come si è visto, fu un importante fattore della Condanna del 1277. Il principale protagonista di questo “dramma” fu Guglielmo di Ockham (1285- 1349). Logico e filosofo di grande valore, Ockham era anche un eminente teologo. A suo giudizio, il mondo dipendeva interamente dall’imperscrutabile volontà di Dio, il quale, con la sua potenza assoluta, avrebbe potuto fare le cose diverse da quelle che sono. Ne conseguiva che tutte le cose esistenti sono contingenti, cioè avrebbero potuto essere fatte in modo diverso, o potrebbero non esistere affatto. Come agente completamente libero, Dio può fare qualunque cosa che non implichi una contraddizione logica. Tutto ciò che egli può creare per il tramite di cause secondarie o naturali, potrebbe crearlo e conservarlo