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La grammatica dell’azione umanitaria nel momento in cui incontra la specifica dimensione del confine, delinea un dispositivo distinto di amministrazione della mobilità con i propri discorsi e pratiche, dando luogo ad un inedito apparato di filtraggio e selezione. Una particolare organizzazione delle relazioni in cui le identità delle entità emer- gono dai rapporti con altre entità. Come hanno evidenziato diversi studi, sempre più il governo del confine convoca come forme di governance la ragione e il discorso umanitario (Walters 2006, 2011; Bialasiewicz 2011; Williams 2015). Il confine umanitario è inteso come particolare configurazione dell’apparato confinario in cui la ragione umanitaria (Fassin 2012) modella in modo ambivalente le retoriche, le procedure e le pratiche degli attori coinvolti, le categorie con le quali operano, i meccanismi con cui si legittimano, gli spazi in cui agiscono.

Questa logica emerge nella gestione dei confini quando questi ultimi divengono strumenti simbolici e regolativi privilegiati all’interno delle strategie di controllo delle migrazioni. «Il confine umanitario emerge nel momento in cui l’attraversamento del confine è diventato […] una questione di vita o morte» (Walters 2011), per migliaia di migranti. È quindi il processo di securitizzazione dei confini e il carattere sempre più mortifero di questi ultimi a convocare il discorso umanitario del “salvare vite umane” (Bigo 2002). Lo stesso ricopre anche una funzione com- pensativa, in relazione alla violenza materiale e simbolica incorporata all’interno del regime di controllo delle mi- grazioni. Il confine umanitario consiste quindi in una specifica modalità di governo confinario in cui la ragione umanitaria da un lato legittima una risposta securitaria per “preservare la vita”, dall’altro può innescare un mecca- nismo di riconoscimento dei soggetti catturati dal dispositivo confinario – benché incanalandoli in categorie pro- blematiche come quella di “vittima” (Mutua 2001).

L’elemento che fa da sfondo a questi processi di controllo dei confini e gestione delle migrazioni è, come si è detto, quello della crisi: una situazione fuori dall’ordinario, separata dal politico, cui occorre rispondere “operativamente”, con urgenza. La dimensione della crisi apre quindi uno spazio d’eccezione, una antipolitica, “to police bad things” (Walters 2008). Allo stesso tempo, questo tipo di discorso mette in ombra le pratiche di routine del controllo del confine (Jeandesboz e Pallister-Wilkins 2016): la stratificazione delle procedure che caratterizzano i dispositivi confinari nel tempo e l’esperienza degli attori che li abitano è invece ben visibile allo sguardo etnografico nel caso di Pozzallo, come viene illustrato nel capitolo successivo.

Specificatamente, quando ci si sofferma ad analizzare l’intersezione tra umanitario e securitario all’interno del frame della crisi, diviene fondamentale ciò che Miriam Ticktin (2005) chiama antipolitica della cura, in cui la volontà di preservare la vita biologica agisce come meccanismo che oscura le ragioni strutturali che costituiscono in prima istanza le vulnerabilità di cui i soggetti sono riconosciuti portatori.

Questo tipo di articolazione diviene centrale se si osserva la particolare configurazione e i caratteri delle zone di confine: essa ne informa le razionalità, le pratiche, le narrazioni. In questo senso abbiamo due tipi di discorsi differenti che però si intrecciano e si legittimano reciprocamente: da un lato c’è la visione sugli human rights,

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l’universalismo dei diritti, di cui è titolare l’essere umano in quanto tale, sui cui si fonda la logica dell’intervento umanitario del salvare vite a rischio e dall’altro la human security cioè la sicurezza del territorio e di chi lo abita, dei cittadini nei confronti di possibili minacce esterne, cioè di soggetti che possono costituire un rischio. L’intreccio si fa manifesto nell’ambito della securitizzazione della gestione dei movimenti migratori, nel momento in cui la ra- gione umanitaria influenza pratiche e discorsi degli attori del campo della gestione del confine, in particolare forze di polizia e militari. Si sostanzia il venir meno di un “approccio universale/universalistico”, pastorale, al governo della popolazione in favore di una gestione di specifiche frazioni di essa, in particolare coloro che vengono ritenuti “problematici” per la sicurezza dello Stato, “indesiderati” (Agier 2011). In questo caso, nel confine si manifesta proprio questo passaggio: il discorso universalistico sui diritti umani viene però declinato su una particolare popo- lazione seguendo una logica che mette al centro il controllo del territorio e la sicurezza dello Stato. Il tema è ancora una volta quello dei limiti dell’ospitalità. Il confine umanitario applica un controllo differenziale su chi può essere incluso o escluso sulla base di attribuzioni morali: infelice, ospite fintanto che si identifica con la vittima, pericoloso se adotta condotte differenti.

Conclusioni

La ricostruzione del piano umanitario, della razionalità che lo fonda, dei discorsi che produce, delle pratiche da cui è attraversato, consente di esaminare con maggiore chiarezza lo sviluppo del regime confinario europeo contem- poraneo. Esclusione, contenimento, crisi, emergenza concorrono a delineare spazialità e temporalità specifiche, dell’eccezione, che caratterizzano questo governo della mobilità. La sicurezza della popolazione di un dato territo- rio è garantita da diversi meccanismi che passano per la gestione del confine attraverso tecnologie per l’identifica- zione, la registrazione e la classificazione dei soggetti che vogliono attraversarlo a partire da categorie istituite anche attraverso la ragione umanitaria. Il meccanismo di selezione, di distinzione, tra ciò che è desiderabile e ciò che non lo è si articola all’interno di un particolare rapporto tra sapere e potere che, nel caso del confine umanitario, chiama non solo la dicotomia interno/esterno, amico/nemico, la dimensione del politico, ma quella morale di biso- gnoso/salvatore, felice/infelice.

Nel particolare ambito di questo lavoro, lo studio dell’approccio hotspot nelle coste meridionali dell’Italia ha messo in rilievo una specifica configurazione nell’amministrazione della frontiera in cui le nuove tecnologie di controllo della mobilità si innestano in spazi e routine di gestione confinaria consolidate negli ultimi quindici anni e in cui uno sviluppo particolare della dimensione umanitaria, attraverso il sapere medico, ricopre un ruolo importante nel funzionamento di questo dispositivo. In questo contesto infatti sembra essere il sapere medico a informare l’ope- razione di conoscenza/discrimine che qualifica il governo della popolazione migrante al confine attraverso la clas- sificazione e selezione dei soggetti secondo categorie distinte come sano/malato, vittima/carnefice.

Il prossimo capitolo affronta la ricerca sul campo contestualizzando l’approccio hotspot sul piano legislativo e come questo sia stato declinato e implementato nel contesto di Pozzallo, in Sicilia, ricostruendo la storia di questa zona di confine. Nel capitolo successivo si entrerà invece nel merito del modo in cui il sapere medico caratterizza il funzionamento di questo dispositivo di confine dando luogo a un particolare intreccio di dimensione umanitaria e securitaria.

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Approccio Hotspot: politiche confinarie europee d’emergenza e lo