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Seguendo la riflessione di Neocleous e Kastrinou (2016), possiamo ricostruire l’origine dei significati del termine hotspot per meglio comprendere quale tipo di visione della gestione della “crisi migratoria” sottenda l’UE imple- mentando un tale approccio.

Nella ricostruzione degli autori, uno dei significati originali del termine “hotspot” si riferisce all’ambito militare e può essere fatto risalire alla seconda guerra mondiale, in cui assume il significato di “warzone”, zona in cui il conflitto è attivo e il nemico presente. Tale significato si pone in opposizione alle “non-combat zones”, zone che non sono interessate da battaglie in corso: con hotspot quindi si definisce una porzione di territorio dove lo scontro

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bellico è particolarmente intenso, dove ci si trova faccia a faccia col nemico, in cui i rischi per la propria incolumità e sicurezza sono molto alti. Questo significato viene poi esteso e in parte riarticolato nella definizione propria delle

relazioni internazionali in cui il termine identifica delle zone di conflitto, di frizione, dal punto di vista geopolitico:

zone interessate da attività “militari e politiche” in contrasto tra loro – ad esempio terrorismo o conflitti tra fazioni interne a uno Stato – e in cui lo scenario che si presenta viene descritto come di crisi. Crisi per la cui risoluzione, secondo la dottrina del responsibility to protect, è necessario un intervento. Per le relazioni internazionali, quindi, l’hotspot indica una zona interessata da uno scontro geopolitico sul quale si ha la possibilità di intervenire per modificarne gli esiti, attraverso operazioni di pacekeeping. Dal momento che ci si trova in zone caratterizzate da scontri a bassa intensità, asimmetrici, le strategie militari adottate sono quelle non convenzionali, della controguerri-

glia. Queste attività finalizzate al “mantenimento della pace” corrispondono anche a una delle funzioni cardine

della polizia e in questo senso si parla di “azioni di polizia” anche in un ambito militare. In effetti, un altro dei significati che il termine hotspot ha assunto, in particolare negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘80, fa riferimento alla criminologia e alla scienza della polizia. Qui, gli hotspot identificano quelle zone dove è stata rilevata la presenza – attraverso rilevazioni statistiche, demografiche e analisi di tipo quantitativo – di determinate attività criminali o in cui si prevede – con l’impiego di modelli probabilistici – un incremento di tali attività. Si parla di “community policing”, in cui l’intervento di polizia assume una funzione disciplinare circoscritta spazialmente attraverso attività di pattugliamento, quindi controllo, e sorveglianza. Il piano spaziale di questa forma di policing è quello urbano, o meglio di una porzione di città, di un quartiere o di una frazione di esso. L’oggetto di questa attività di controllo, sorveglianza, ma anche di interventi che si risolvono nella detenzione o nell’espulsione, sono gli individui “perico- losi” secondo una definizione che si muove a partire da particolari forme di stratificazione e segmentazione sociale seguendo linee del colore, di classe, di provenienza, di genere, etc. In questo ambito assume grande rilievo la raccolta dei dati – attività criminose, reati denunciati, etc. – per la definizione di queste “zone ad alta concentrazione di criminalità” e soprattutto la funzione predittiva che viene sviluppata a partire da queste stesse informazioni: attraverso la progettazione e l’utilizzo di modelli statistici, calcoli probabilistici, viene determinato il tasso di crimi- nalità atteso in una determinata zona. Da questi elementi vengono poi stabilite le attività di policing da impiegare in questa porzione di territorio: pattugliamenti, retate, fermi a campione, perquisizioni, etc.. In questo modo si hanno aree definite a priori come luoghi di pericolo e di violenza, in cui la popolazione residente è tendenzialmente più soggetta a delinquere – seguendo le prescrizioni del calcolo probabilistico – e per questo da sottoporre a una maggiore sorveglianza. Le stesse tecniche di controllo del territorio messe in campo, come si accennava, richiamano quelle della controguerriglia che caratterizzano i contesti di guerra asimmetrica: si manifesta quindi un processo di militarizzazione della polizia con l’obiettivo dichiarato di combattere il “nemico interno”22. Ciò su cui insiste il

“community policing” è evidentemente la “sicurezza percepita”, presentandosi come soluzione “locale” e “di pros- simità”, sanzionando quindi tutti quegli atti che si manifestano primariamente nella dimensione spaziale e che riguardano, in ultima analisi, l’ordine pubblico. La funzione di polizia, quindi, è rivolta ad aumentare la “qualità della vita” – il benessere direbbe von Justi – della popolazione all’interno di un territorio circoscritto, un hotspot, che è stato rilevato presentare un’alta pericolosità – per i tassi relativi a specifiche attività criminose come quella preda- toria o legate agli stupefacenti. Non solo l’intervento di polizia all’interno dell’hotspot “criminale” attraverso il pattugliamento, la sorveglianza, il controllo e la possibile detenzione/deportazione degli individui pericolosi esprime una funzione disciplinare ma, potremmo dire, diviene anche un modo per mostrare la potenza dello Stato – cioè la capacità di controllare e governare un dato territorio – per mezzo dell’azione di polizia.

Oltre ai significati del termine individuati da Neocleous e Kastrinou, ne possiamo enucleare altri in stretta relazione tra loro e in continuità con alcuni elementi già evidenziati dagli autori.

Il primo significato afferisce alla statistica, come è emerso in maniera tangente parlando di hotspot nell’ambito della criminologia, e riguarda una modalità di analisi fondata sulla dimensione spaziale. L’hotspot si definisce come un tipo di analisi statistica in cui vengono individuati gruppi, dal proprio set di dati, a partire da una determinata area geografica che presentano una particolare proprietà in maniera difforme rispetto alla totalità dei casi rilevati.

22 In maniera simmetrica ma inversa a quanto accaduto in ambito militare, con l’impiego di tecniche di polizia per il controllo di territori attraversati da conflitti a bassa intensità. In questo senso possiamo dire di assistere a un avvicinamento tra tecniche impiegate dalla sfera del militare e da quella di polizia.

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Specificatamente, quando un insieme di dati geograficamente circoscritti presenta una media locale, in relazione a una o più variabili determinate, differente da quella totale in modo statisticamente rilevante. Questo tipo di analisi viene utilizzata per definire modelli predittivi di tipo probabilistico sull’incidenza di un determinato fenomeno in una specifica area geografica. La funzione del sapere prodotto è la pianificazione di un intervento regolativo – ad esempio, l’incremento di servizi a bassa soglia in un’area caratterizzata da una presenza consistente di casi di morte per overdose – una volta delineati e circoscritti statisticamente gli hotspot così definiti.

Il secondo significato riguarda più specificatamente l’epidemiologia e per estensione la salute e l’igiene pubblica. La parola “hotspot” viene impiegata da parte di istituzioni governative e non governative che si occupano di tutela della salute pubblica e prevenzione dalle malattie, in particolare di quelle infettive. In questo campo il termine è usato diffusamente ma, come hanno rilevato alcuni autori (Lessler et al. 2017), ad esso vengono attribuiti significati diversi e la sua definizione assume tratti sfocati e ambigui. Hotspot può significare un’area dall’elevata efficienza di trasmissione e infettività, caratterizzata dall’emergere o dal riemergere di particolari malattie o dall’elevata presenza e incidenza di un fenomeno patologico. In tutti questi significati l’elemento cardine è il rischio, che diviene un parametro quantificabile e calcolabile a livello probabilistico. A questa varietà di significati corrispondono ambiti spaziali, rispetto a ciò che si considera un hotspot, di scala differente: nel caso di zone ritenute potenziali luoghi per l’emergenza di patologie epidemiche, l’area considerata è generalmente subcontinentale o regionale; quando si parla di zone a elevata infettività o con un alto livello di incidenza di patologie ci si riferisce a zone più circoscritte, della dimensione di un quartiere23.

È possibile fare risalire l’origine dell’utilizzo del termine in ambito epidemiologico anche al suo impiego in medi- cina, dove fa riferimento alla presenza di infiammazioni e irritazioni o al rischio dell’insorgere di malattie in speci- fiche zone del corpo. Con questo significato, l’hotspot risulta essere presente con una spazialità ancora più circo- scritta, incarnata.

In sintesi possiamo vedere come i significati associati al termine hotspot abbiano seguito una particolare evolu- zione: da termine proprio dell’ambito militare per indicare zone altamente pericolose e di conflitto aperto, è passato nelle relazioni internazionali a rappresentare quei territori che dal punto di vista geopolitico presentano frizioni e insorgenze in cui è possibile intervenire per portare o mantenere la pace, in un’operazione di polizia-militare a livello interstatale. Infine, il termine è andato a significare nell’ambito della criminologia quelle particolari zone all’interno delle quali sono stati rilevati alti tassi di attività criminose e che necessitano quindi di un intervento disciplinare di polizia che si dispiega, in questo caso, in una dimensione intrastatale attraverso il “community poli- cing”, cioè attività di controllo, sorveglianza, pattugliamento, detenzione, etc.

In parallelo e in chiara continuità, possiamo rilevare come l’insieme di significati afferenti alla dimensione medica, della salute e dell’igiene pubblica, siano anch’essi costitutivi del complesso di razionalità che informano l’approccio hotspot, in un intreccio che vede combinati piano securitario e piano umanitario: l’elemento della cura riarticola i meccanismi di governo della popolazione in movimento che si sviluppano a partire dai corpi, dalle loro caratteri- stiche, dall’essere contemporaneamente un rischio – “portatori di epidemie”, “untori”, pericolo per la popolazione nazionale – e a rischio – in pericolo per la propria vita e quindi bisognosi di essere salvati e curati –, in entrambi i casi da tenere sotto controllo (Aradau 2004).

Come è stato possibile osservare, allora, la stessa definizione del termine, nelle sue molte valenze, concorre a in- quadrare il tema della questione migratoria, e più in generale della mobilità, all’interno di un frame legato all’emer- genza, al rischio – al pericolo presunto e atteso e che per questo esige un intervento immediato e operativo24 – che

può articolarsi di volta in volta, parallelamente, sul piano della sicurezza esterna ed interna, quindi militare e poli- ziesco, e sul piano medico, dell’igiene pubblica, della salvezza della vita umana cioè del suo controllo e della sua regolazione a livello della popolazione. Le razionalità che implica si fondano su una serie di dicotomie che

23 O di un luogo più delimitato, come nel caso degli studi sull’incidenza del suicidio – trattato dai testi di epidemiologia – in cui il termine hotspot identifica ponti, alture, etc. (Cfr. Sinyor, Tse, e Pirkis 2017).

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suggeriscono nuove modalità di distinzione e di etichettamento all’interno del border regime: non più e non solo quelle amico/nemico, interno/esterno, ma quelle vittima/carnefice, bisognoso/salvatore.

A fronte del contesto generale all’interno del quale l’approccio hotspot si inserisce dal punto di vista dei discorsi e delle razionalità, proprie dell’apparato tecnico-burocratico delle istituzioni europee e del campo degli esperti di sicurezza, è opportuno dare conto di come è definito formalmente tale dispositivo, all’interno del quadro norma- tivo e legislativo europeo.