Come ha individuato la letteratura sul tema, in particolare negli anni recenti, l’emersione di nuovi confini – siano essi punti o snodi di controllo della mobilità delle persone – influenza il territorio circostante, portando alla costi- tuzione di zone specifiche per la propria dimensione economica, sociale e culturale (Cuttitta 2014b). Dal punto di vista economico, la presenza di esperti, l’utilizzo di molteplici tecnologie e strumenti per il controllo, la registrazione di quanto accade e l’identificazione di chi attraversa o tenta di attraversare le frontiere ha dato vita a una vera e propria industria del confine (Schindel 2016).
Le coste meridionali della Sicilia hanno, negli ultimi decenni, sollecitato l’attenzione della politica, dei media, dell’opinione pubblica e dell’accademia come luoghi attraversati da movimenti migratori seguendo l’asse Sud-Nord.
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I cambiamenti nelle politiche confinarie che hanno contraddistinto negli ultimi decenni l’Unione Europea e le modalità con cui queste politiche sono state interpretate dai governi si sono susseguiti in Italia, hanno prodotto trasformazioni di rilievo anche a livello locale negli assetti economici, politici, sociali delle località che sono divenute “zone di confine” (Rumley e Minghi [1991] 2014).
Il mutamento di alcune località che affacciano sul Mediterraneo in zone di confine, il processo di bordering col quale si identifica la pervasività di pratiche, procedure, dispositivi di confine all’interno di determinati territori e di chi li abita, ha suscitato l’attenzione non solo dei ricercatori ma anche di media e politica. Il caso maggiormente sotto i riflettori è quello dell’isola di Lampedusa: in particolare, per la sua centralità nell’ambito dei recenti movimenti migratori che hanno interessato l’area, diversi lavori di ricerca hanno indagato il costituirsi dell’isola come zona di confine, il processo di oscuramento e di esposizione differenziale delle esperienze dei migranti e la mediatizzazione dell’attraversamento delle frontiere (Andrijasevic 2010; Baracco 2015; Orsini 2015; Dines, Montagna, e Ruggiero 2015; Mazzara 2015).
Lampedusa è stata inoltre presa come focus per indagare l’emergere di economie di confine tracciando la storia dello sviluppo economico dell’isola all’intersezione tra locale e globale (Friese 2012). La presenza di un forte settore legato alle attività marittime e in particolare alla pesca – numerosa è la flotta di pescherecci – ha fatto da traino all’economia locale costituendo la principale fonte di sostentamento per gli abitanti dell’isola. Con la deregolamen- tazione del mercato ittico negli anni ‘80, una delle conseguenze del processo di globalizzazione in atto, il settore ha attraversato una profonda crisi che ha colpito anche l’economia locale. Questo ha portato una sostanziale ricon- versione dell’intero settore al turismo. Come risulta evidente dal lavoro etnografico di Giacomo Orsini (2015) – che ha indagato l’impatto del confine sulla quotidianità degli abitanti dell’isola analizzando anche i mutamenti che l’hanno attraversata negli ultimi decenni – a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 molte persone impiegate nel settore ittico hanno dismesso la propria attività per dedicarsi al turismo. Questo settore ha visto una rapida espansione nel corso di tutti gli anni ‘90 divenendo il traino principale dell’economia dell’isola. L’emersione quindi dei movimenti mi- gratori degli ultimi anni e in particolare l’espansione dei dispositivi e delle tecnologie di controllo dei confini sull’isola unitamente alla mediatizzazione del fenomeno (Cuttitta 2014a) ha prodotto delle frizioni nell’economia locale e nella narrazione che di essa viene fatta da parte degli abitanti. Il fenomeno migratorio e l’eco mediatica hanno innescato da un lato pratiche di solidarietà in loco, dall’altro un discorso che alla presenza dei migranti attribuisce la crisi del turismo e quindi dell’economia dell’isola.
A fronte di una minore esposizione mediatica rispetto a Lampedusa, il caso di Pozzallo presenta della analogie ed è in qualche modo emblematico dell’impatto dell’apparato confinario sul tessuto economico e sociale di una zona di frontiera: da località dove si manifestano i primi sbarchi intorno agli anni ‘90 con numeri piuttosto modesti, al divenire uno dei luoghi centrali nella politica dei “punti di crisi” elaborata a livello europeo e implementata dal governo italiano, dove è presente una struttura che può ospitare centinaia di persone – che spesso sono state più del doppio del numero previsto – e presso la quale, come si è avuto modo di evidenziare, sono all’opera una molteplicità di attori differenti.
Dal punto di vista economico, la cittadina ha attraversato un’evoluzione analoga a quelle di altre località limitrofe, con alcune differenze sostanziali: un settore importante fino alla prima metà del ‘900 è stato quello legato alle attività marittime e portuali. È però la presenza di figure professionali specializzate nel lavoro in mare, i cosiddetti “imbarcati”, a costituire successivamente il traino economico più consistente.
«C’è questa tradizione di uomini che vanno per mare. Anche navi da crociera… non parliamo di pesche- recci, parlo proprio di “imbarcarsi fuori”.» (C. S., diario di campo)
L’espansione del porto e delle sue infrastrutture in momenti successivi, a partire degli anni ’60, è stata un tentativo da parte delle amministrazioni locali di ridare slancio alle attività marittime, inizialmente circoscritte alle sole attività di pesca, con imbarcazioni di piccolo e medio cabotaggio. Nel corso degli anni ‘80, ulteriori lavori portano all’aper- tura di un vero e proprio approdo commerciale. Questi interventi, però non danno gli effetti sperati di un rilancio del settore marittimo. L’apertura di una rotta di trasporto passeggeri veloce in direzione di Malta ha tentato di dare nuovi sbocchi alle attività legate al turismo. L’ampliamento del porto ha presentato diversi problemi di tipo strut- turale in quanto, non trattandosi di un’insenatura naturale, gli attracchi sono spesso soggetti a insabbiamento e si
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assiste al fenomeno dell’erosione della costa. Questa stessa problematica ha condizionato in diversi casi l’esito degli sbarchi programmati da parte della guardia costiera o di navi SAR nel periodo di attività dell’hotspot. La presenza di più recenti strutture per diportisti in località limitrofe ha limitato l’ulteriore sviluppo del settore turistico. Com- plessivamente, la cittadina ha seguito la tendenza di altri paesi sulla costa meridionale della Sicilia con investimenti in attività turistiche che però non hanno visto lo stesso grado di sviluppo e le attività marittime, seppure con un volume inferiore rispetto ad altre località, hanno continuato a rivestire un ruolo nell’economia locale.
L’impatto dei primi sbarchi negli anni ’90 non sembra coinvolgere l’economia del paese: sia il numero degli arrivi, piuttosto contenuto, sia la loro frequenza non sistematica e il fatto che si trattasse di arrivi di poche decine di persone, perlopiù autonomi o che impegnavano la capitaneria di porto e la Guardia di Finanza nelle fasi conclusive dell’approdo, attivavano il circuito locale per la gestione delle emergenze. In questi casi infatti, come è stato rico- struito, oltre alle forze dell’ordine e al personale sanitario dell’ASP, intervenivano i volontari della Protezione Civile. Nei primi anni 2000, quando c’è un incremento nella frequenza degli arrivi, diversi abitanti della zona decidono di diventare volontari di Protezione Civile, come racconta una di loro:
«In realtà io sono volontaria dal 2007 e già c’era questa realtà degli sbarchi. […] Protezione Civile, gruppo comunale. Già c’erano prima che arrivassi io degli sbarchi: anzi mi sono interessata perché vedevo questi sbarchi. Mi sono interessata a fare la volontaria, ho fatto il corso è tutto. […] Noi come volontari abbiamo sempre dato l’accoglienza nel senso primario, in collaborazione col sistema sanitario che era sempre presente: per cui le bevande calde, la coperta, tutta quell’assistenza. I bambini da assistere con le donne e i più vulnerabili, tutte queste situazioni qui.» (C. S.)
Fino ad allora, le operazioni di sbarco duravano alcune ore, poi le persone venivano trasferite in altre località in poco tempo.
Nel momento in cui si inizia ad utilizzare, nella seconda metà degli anni 2000, il complesso della Dogana l’impegno dei volontari diviene sempre più intenso. Questo porta di fatto alla volontà di professionalizzazione di molti di loro. Nascono le prime cooperative sociali che si occupano di accoglienza.
«[A un certo punto] non potevamo più essere volontari, nel senso che è un abuso di volontariato essendo dei mesi molto pieni. Tanta gente faceva troppe ore, tralasciando anche le proprie attività, e insomma non era fattibile. Però, volendo garantire un servizio a noi ci hanno assunto all’interno di una cooperativa di operatori socioassistenziali.» (C. S.)
Le necessità di gestione di una struttura come quella della Dogana comporta l’impiego di diverse professionalità: diverse cooperative sociali del territorio si ri-orientano a fornire servizi – dalla distribuzione dei pasti, alla logistica, all’assistenza sociale – al centro.
Lungi dall’essere uno spazio davvero separato dai modi di vita e dalla organizzazione economica e sociale del territorio in cui è situato, il dispositivo confinario mostra di avere un notevole impatto sul contesto locale e sulle persone che vi abitano. Questo costituisce anzi una presenza che si intreccia con l’esistenza quotidiana degli abitanti della zona: costantemente descritto come un luogo temporaneo, provvisorio, rappresenta invece una costante de- cennale che ha condizionato lo sviluppo locale.