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Nel descrivere gli eventi, gli accadimenti, che caratterizzano le società contemporanea si fa sempre più spesso riferimento a episodi che delineano una situazione di emergenza, sia questa un disastro o una catastrofe naturale, sia frutto di un conflitto armato o di atti opera dell’uomo. Questi eventi, veicolati e amplificati dai media, scatenano una serie di emozioni e azioni nell’opinione pubblica e vedono il dispiegarsi di operazioni o umanitarie condotte da organizzazioni non governative o militari da parte dei governi, in un sovrapporsi di emotività e calcolo delle opportunità. La logica che si impone, insomma, è quella dell’intervento. Questa è caratterizzata, secondo Fassin e Pandolfi (2010, 10) da due elementi centrali: la temporalità dell’emergenza, funzionale a giustificare uno stato di eccezione, e il collasso del registro politico e di quello morale che si manifesta all’interno di operazioni che sono contemporaneamente militari e umanitarie.

Per identificare il momento in cui la dimensione umanitaria e quella militare collassano l’una sull’altra è opportuno ricostruire storicamente il momento in cui il principio dell’intervento viene affermandosi. Il principio dell’inter- vento, il diritto a intervenire, emerge all’interno dello spazio politico internazionale a partire dalla seconda metà del XX secolo. Il modello dominante fino ad allora è, come si è ricordato, quello simbolicamente sancito dal Trattato di pace di Vestfalia del 1648, che vede il sostanziale bilanciamento, l’equilibrio, tra le forze degli Stati come garanzia di pace e stabilità internazionale. Tale equilibrio viene garantito attraverso un apparato diplomatico-militare di cui ciascuno Stato è dotato e la cui forza determina i posizionamenti nei rapporti interstatali. Il principio fondante è quello della non ingerenza, cioè l’obbligo per uno Stato a non intervenire negli affari di un altro Stato. Tale principio è lo stesso sul quale si basa la Carta delle Nazioni Unite del 1945 che fonda il rapporto tra Stati membri sul rico- noscimento della “sovrana eguaglianza” di ciascuno di essi.

Secondo Fassin e Pandolfi (2010), il momento di passaggio in cui emerge il “diritto a intervenire” è l’operazione militare compiuta dall’India in Pakistan nel 1971. Anche Nicholas Wheeler (2000), nel ripercorrere la storia dell’in- tervento umanitario e la logica ad esso sottesa, individuando alcuni eventi-chiave che hanno portato alla sua affer- mazione a livello internazionale nella legittimazione dei conflitti19, identifica fra questi la terza guerra fra India e

Pakistan. Il contesto è quello del conflitto interno allo Stato pakistano tra le istanze indipendentiste dell’est Pakistan e il governo. Da marzo a dicembre del 1971 circa 1 milione di bengalesi vengono uccisi dall’azione repressiva del governo pakistano mentre dai 9 ai 10 milioni di profughi hanno trovato rifugio in India nella regione del Bengala dell’ovest. La sistematica efferatezza di tale massacro e l’avvertita minaccia alla propria integrità territoriale sono stati la giustificazione dell’intervento militare indiano nel territorio dello Stato pakistano. Tale operazione ha quindi portato alla costituzione di un nuovo Stato indipendente: il Bangladesh. Analizzando il dibattito internazionale anche in seno alle Nazioni Unite circa la legittimità dell’intervento indiano e la validità delle loro giustificazioni (Wheeler 2000, 60) è possibile osservare la frizione tra due logiche contrapposte: la prima, che fonda l’intervento umanitario, è quella del diritto a intervenire di fronte a gravi violazioni dei diritti umani; la seconda, propria del modello classico vestfaliano, è quella del rispetto della sovranità di ogni singolo Stato e del diritto di non ingerenza nelle questioni interne. Questa frizione è visibile nel processo che ha portato l’India a rivendicare la propria

19 Di fatto Wheeler argomenta come per gli Stati l'intervento umanitario sia considerato come un'eccezione al principio di sovranità, di non ingerenza, di non uso della forza, nonostante il primo sia ormai sempre più diffuso negli ultimi decenni nel legittimare operazioni militari.

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operazione come mossa primariamente dalla ragione umanitaria. In prima battuta, infatti, la motivazione fornita alle Nazioni Unite da parte dello Stato indiano si basa sul diritto all’autodifesa per la salvaguardia del proprio territorio attaccato dall’esercito pakistano – vi erano stati diversi scontri al confine. L’appello all’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite è però ritenuto non fondante in quanto ha portato ad un uso non proporzionato della forza da parte dello Stato indiano. In seconda battuta, allora, l’India introduce un elemento di giustificazione in cui si sovrappongono piano umanitario e tutela della propria sovranità: la “aggressione dei rifugiati”20. La presenza di

milioni di profughi in fuga dal Pakistan alle regioni limitrofe dell’India obbligava “moralmente” il governo indiano a farsene carico portando però a una situazione emergenziale dal punto di vista economico e sociale. Anche questa giustificazione non viene ritenuta sufficiente in seno alle Nazioni Unite. L’intervento per ragioni umanitarie diviene allora la posizione ufficiale dell’India: l’ambasciatore Sen parla di una «repressione militare» in Pakistan tale da «sconvolgere le coscienze dell’umanità» e che l’operazione militare indiana era mossa dall’obiettivo di «salvare la popolazione del Bengala dell’est da ciò che stavano soffrendo.»21

Su questo stesso piano di frizione si articola la giustificazione per il riconoscimento come Stato indipendente del Bangladesh: il principio di autodeterminazione, che non può essere applicato agli Stati membri delle Nazioni Unite – come il Pakistan –, viene riconosciuto sulla base di ragioni umanitarie. In questo senso il modello vestfaliano classico, che aveva già vissuto una sua ridefinizione proprio alla luce del principio di autodeterminazione emerso dalle spinte nazionaliste del XIX secolo, viene qui ulteriormente contestato dalla logica dell’intervento umanitario. Logica che sempre più, nei decenni successivi, viene posta a fondamento degli interventi militari.

Questo stesso principio dell’intervento è alla base della nascita di alcune ONG che si costituiranno in quegli stessi anni come Medici senza frontiere, che nasce proprio nel 1971. Questo diritto a intervenire diviene gradualmente predominante rispetto al principio di non ingerenza grazie a una sovrapposizione tra militare e umanitario in nome della comune priorità alla salvezza delle vite e alla protezione della popolazione. La morale umanitaria legittima la sospensione della legge, in questo caso del diritto internazionale – cioè della norma del reciproco riconoscimento della sovranità tra Stati – in virtù di una urgenza ad intervenire “auto evidente” poiché si basa sulla vista della sofferenza. Secondo Fassin e Pandolfi (2010), questo passaggio di paradigma innesca un processo di naturalizza- zione della guerra. Il piano umanitario neutralizza, con la logica dell’intervento, la dimensione contesa e problema- tica dei contesti in cui si sviluppano i conflitti. L’attenzione ad aiutare le vittime rimuove la dimensione storica e congiunturale che caratterizza ciascuna situazione: ciò che viene rimosso è cioè il piano geopolitico, che riguarda gli interessi specifici dei singoli Stati in contrapposizione tra loro, restituendo una sorta di ineluttabilità del conflitto. Attori umanitari e militari si convocano vicendevolmente e condividono una temporalità comune che è quella dell’emergenza rivendicando uno spazio di eccezione, fuori dalle giurisdizioni statali e sovranazionali in nome di un imperativo morale superiore: il soccorso e la salvezza della vita umana. Il governo militare e umanitario delinea quindi uno stato d’eccezione le cui caratteristiche principali sono la temporalità dell’emergenza e la spazialità dell’esclusione (Fassin e Pandolfi 2010, 16). L’urgenza dell’azione e la creazione di spazi d’eccezione, fuori dal diritto, producono una rimozione del politico, una riduzione al tecnico, operativo, che può convocare di volta in volta dispositivi propri del campo logistico o medico-epidemiologico.

Questo stato di emergenza a partire dalla presa di coscienza della sofferenza e dalla messa a rischio di vite umane risulta quindi fondato su elementi affettivi che mettono in gioco il piano morale. Al contrario delle guerre, som- mosse e tumulti motivati dal nazionalismo, cioè la rivendicazione di un “popolo” particolare su un territorio, le passioni mobilitate in questo caso, la salvezza e la tutela della vita umana e l’alleviare le sofferenze, hanno un carattere universalista, umanista. Questo afflato, questa caratterizzazione universalistica è la stessa che inquadra le emergenze e la necessità degli interventi come auto evidenti, tendendo a rimuovere il piano della scelta e del poli- tico.

La sintesi, forse, del concetto di intervento umanitario, che ne sottolinea il carattere di necessità immediata, situata e particolare, priva di compromessi quand’anche violenta, è in un passo di Sulla rivoluzione di Hannah Arendt: «non è la compassione che si lancia nell’azione per cambiare le condizioni del mondo al fine di alleviare le

20 Così la definisce l'ambasciatore indiano Sen. 21 citato da Wheeler (2000, 63–64).

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sofferenze umane: ma se lo fa, respinge i logori e noiosi processi della persuasione, del negoziato e del compro- messo, che sono i processi della legge e della politica, e presta la sua voce agli stessi uomini che soffrono e che devono pretendere un’azione veloce diretta, ossia l’azione per mezzo della violenza.» (Arendt [1963] 2006, 92) In questa immediatezza convocata dalla compassione, in cui lo spazio del politico è assente e non può che non darsi poiché privo della necessaria distanza, l’unica priorità diviene la salvezza delle vite umane e la necessità di proteggerle. La voce della compassione è prestata ai sofferenti che però non parlano direttamente ma subiscono l’azione di chi vuole agire “per il loro bene”. L’intervento umanitario si mostra allora come un serrato intreccio tra il militare, cui viene attribuita la responsabilità della protezione, e l’umanitario che deve garantire il soccorso e la cura della popolazione sofferente.