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2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA

2.3 La sezione conclusiva del primo libro (vv 1052-1117)

2.3.1 Considerazioni preliminari

Come si è visto, nel corso del primo libro del De rerum natura, l’idea che il mundus, in quanto aggregato atomico, sia destinato alla dissoluzione è suggerita sin dal passaggio poetico dell’aristia di Epicuro (vv. 62-79). Anzi, tale principio è in fondo implicito sin dall’incipit della trattazione filosofica: nei vv. 55-57 (nel primo appello all lettore) Lucrezio sottolinea la mortalità di ogni aggregato atomico: «ti spiegherò gli elementi primordiali delle cose, / da cui la natura crea tutti i corpi, li accresce, li nutre, e nei quali torna a dissolverli, una volta distrutti»56.Tuttavia il messaggio escatologico risulta sotteso, poiché il poeta non ha ancora affermato in modo esplicito il fatto che il mondo rientri nel novero degli aggregati atomici.

È invece nel finale del libro che la tematica escatologica trova spazio (vv. 1052-1117): qui la confutazione di una visione geocentrica del cosmo, articolata in due fasi (vv. 1052-1082, vv. 1083 ss.), culmina nell’apocalittica descrizione della dissoluzione del mondo (vv. 1102-1113). Un’esatta interpretazione di questo finale è resa impossibile dalla presenza di quelle che Salemme giustamente definisce «micidiali lacune»: difatti i vv. 1068-1075, occupati dalla confutazione della teoria degli Antipodi – corollario della teoria della sfericità della terra – sono del tutto tralasciati in Q e mutili della parte finale in O: riportando il testo, ho scelto di presentare le integrazioni proposte dal Munro, che – come riconosciuto da Ivano Dionigi – sembrano restituire il senso generale in modo soddisfacente e in accordo con il contesto57. Lo stesso guasto che nel recto del foglio ha mutilato la parte finale dei vv. 1068-1075 ha provocato – secondo il calcolo del Lachmann – l’illeggibilità di ben otto versi (vv. 1094-1101) per i quali O lascia uno spazio vuoto di otto versi, mentre Q segna una lacuna. A proposito del contenuto di questa lacuna, l’interpretazione più verosimile è che essa contenesse la chiusura del discorso relativo alla fuga centripeta di aria e fuoco – avviato con l’ampio periodo iniziato al v. 1083 – e sviluppato nello scenario “apocalittico” dei vv. 1102 ss.

Pare opportuno prendere le mosse da un sunto del contenuto di questo complesso passaggio. Dopo aver dimostrato l’infinità dell’universo (vv. 957-1001), dello spazio e degli atomi (vv. 1002- 1051), Lucrezio invita Memmio a non credere a coloro che asseriscono che tutto tenda verso il centro della summa rerum (in medium summae omnia niti) e che, di conseguenza, il mondo sia immobile senza bisogno dell’afflusso atomico proveniente dall’esterno, poiché ciò che si trova in alto e ciò che si trova in basso (summa atque ima) non possono dissolversi in alcun luogo (neque quoquam posse

resolvi). In base a queste premesse – data la tendenza centripeta di ogni cosa – costoro credono (vv.

1058 ss.) che i corpi pesanti posti agli Antipodi (sub terris) tendano verso l’alto (omnia sursum nitier) e si appoggino alla terra in maniera inversa (in terra retro requiescere posta), come riflessi nelle

56 Cfr. 1.55-57 rerum primordia pandam,/ unde omnis natura creet res auctet alatque/ quove eadem rursum natura

perempta resolvat.

pozzanghere. Affermano poi (contendunt) che similmente gli esseri viventi camminano capovolti e che i loro corpi non possano cadere nei luoghi sottostanti del cielo (e terris in loca caeli reccidere

inferiora) esattamente come i nostri corpi non possono volare (in caeli templa volare): di conseguenza

costoro vedono il sole quando noi vediamo la notte e dividono alternamente con noi le stagioni. Inizia poi la vera e propria confutazione di tale teoria (vv. 1068-1082, si ricordi che i vv. 1068- 1075 sono in parte mutili), la cui difesa è per Lucrezio indice di stoltezza (stolidis): infatti in un universo infinito nulla può trovarsi nel mezzo (nam medium nil esse potest… infinita). Se anche per assurdo si accettasse l’esistenza di un luogo centrale, nulla potrebbe arrestarsi in quel punto, a causa dell’esistenza del vuoto, che deve comunque (per medium, per non medium) cedere al peso dei corpi, dovunque i moti li conducano (concedere <debet> aeque ponderibus, motus quacumque feruntur). Non esiste luogo dove i corpi perdano l’impeto del peso (ponderis amissa vi) e restino immobili (stare) poiché la natura del vuoto è quella di cedere il passo (concedere pergat): dunque la realtà non può essere trattenuta in un legame di questo tipo (teneri res in concilium), vinta dal desiderio di stringersi intorno al centro (medii cuppedine victae).

Lucrezio passa poi alla seconda parte della confutazione, legata strettamente alla prima dal

praeterea incipitario al v. 1083: inoltre, costoro58 immaginano (fingunt) che non tutti i corpi tendano verso il centro (non omnia corpora in medium niti), ma solo i corpi composti prevalentemente di terra di acqua, mentre affermano che l’aria leggera (tenui aeris auras) e i caldi fuochi si muovano al contempo (simul) in moto centrifugo (a medio differrier): è tale moto a spiegare perché (ideo) tutto il cielo “tremi di stelle” (totum circum tremere aethera signis) e la fiamma del sole si muova alla ricerca di nutrimento attraverso il cielo (et solis flammam per caeli caerula pasci), dato che ogni forma di calore (calor omnis), fuggendo dal centro (a medio fugiens) si unisce in cielo (se ibi colligat); parimenti gli alberi non potrebbero coprirsi di fronde sino ai rami più alti (arboribus summos

frondescere ramos) se a ciascuno il cibo dalla terra a poco a poco (nisi a terris paulatim cuique cibatum)… Segue la lacuna di otto versi.

Il testo riprende dal v. 1102, con una serie di proposizioni introdotte da ne: affinché (oppure “che”) le mura del mondo non fuggano via (diffugiant) immediatamente (subito) dissolte nel grande vuoto (magnum per inane soluta) simili a fiamme volatili (volucri ritu flammarum) e il resto del mondo segua in maniera analoga (ne cetera consimili ratione sequantur), oppure dall’alto crollino gli spazi tonanti del cielo (neve ruant caeli tonitralia templa superne) e all’improvviso la terra si sottragga ai piedi (terraque se pedibus raptim subducat) e tutta, tra le confuse rovine del mondo e del cielo (inter permixtas rerum caelique ruinas) che dissolvono i corpi, se ne vada nel vuoto profondo

58 Si noti che qui inizia un’ampia proposizione causale, di cui però – a causa della lacuna - manca la proposizione

(abeat per inane profundum); in questo modo in un istante (temporis puncto) non potrebbe sopravvivere nulla (nil extet reliquiarum) tranne il vuoto deserto e gli atomi invisibili (desertum

praeter spatium et primordia caeca). Infatti da qualunque parte tu supporrai un’assenza di corpi

(quacumque prius de parti corpora desse constitues), tale parte diverrà il passaggio della morte per i corpi (haec rebus erit pars ianua leti), attraverso di essa tutta la massa confusa della materia si affretterà fuori (hac se foras dabit omnis materiai).

I quattro versi finali costituiscono una sorta di incoraggiamento rivolto al lettore, svolto in toni quasi mistici: guidato dalla “piccola operetta” del poeta egli vedrà le realtà più elevate e profonde (ultima naturai); infatti ogni cosa trarrà luce dall’altra né l’oscura notte impedirà il cammino.

2.3.2 Le principali interpretazioni del finale del primo libro