2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.5 Il finale del secondo libro
2.5.8 I vv 1164-1174: analisi stilistica di una conclusione diatribica
Iamque caput quassans grandis suspirat arator
1165 crebrius, in cassum magnos cecidisse labores,
et cum tempora temporibus praesentia confert praeteritis, laudat fortunas saepe parentis. Tristis item vetulae vitis sator atque <vietae> temporis incusat momen saeclumque fatigat,
1170 et crepat, antiquum genus ut pietate repletum
perfacile angustis tolerarit finibus aevom, cum minor esset agri multo modus ante viritim; nec tenet omnia paulatim tabescere et ire ad capulum spatio aetatis defessa vetusto.
I vv. 1164-1174, gli ultimi del secondo libro, costituiscono un’unità a sé stante, con dei tratti stilistici e contenutistici differenti rispetto a quanto precede. L’autonomia di questo passaggio è determinata visivamente dall’avverbio iniziale iamque, che segnava pure il principio della sezione precedente (cfr. v. 1150). Questi versi sono occupati da due personae, un vecchio agricoltore e un triste vignaiolo: la descrizione del pensiero e delle azioni del primo copre quattro versi (vv. 1164-1167), laddove il secondo ne coinvolge cinque (vv. 1168-1172). Il distico finale (vv. 1173-1174) esprime il punto di vista di Lucrezio, che rivela ciò che il vitis sator non comprende (nec tenet), ovverosia l’inesorabilità della consunzione provocata dal tempo. Tale discorso, seppur formalmente rivolto a uno solo dei due personaggi, è in realtà valido anche per entrambi e, più in generale, per l’intera generazione (saeculum) che essi rappresentano.
La critica ha riservato troppo poca attenzione a queste figure, che – come si vedrà – risultano significative per comprendere la relazione tra Lucrezio e i suoi contemporanei nonché l’auto-rappresentazione ideale del civis romano che traspare dal De rerum natura. Il primo dato da sottolineare è che si tratta di due vecchi235, la cui ethopoiia rientra per molti aspetti nello “stereotipo” del senex tratteggiato da Orazio nell’Ars poetica (vv. 156-157; 169-174)236:
235 Letteralmente, al v. 1168 è la vigna e non il viticoltore a essere vetula e vieta. Tuttavia il prosieguo del testo e
l’esplicazione del pensiero di questo personaggio rivelano con chiarezza che ci troviamo dinanzi a un bell’esempio di ipallage.
236 Traduzione di Enzo Mandruzzato: «(…) ecco cosa vogliamo, il pubblico ed io; segnare i caratteri di ciascuna età
della vita, così come la nostra natura secondo il mutare degli anni deve essere. (…) Poi il vecchio, assediato da mille malanni: desidera ancora, e poi si astiene da ciò che ha ottenuto, perché non è felice, perché ne ha timore; oppure si conduce in ogni cosa con quella paura gelata, e rimanda, fa lunghi progetti, non conclude, è avido di futuro, scontroso, lamentoso, ammiratore del tempo antico, quando era ragazzo lui, dannatore e censore di chi ha meno anni di lui».
aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores mobilibusque decor naturis dandus et annis
(…) multa senem circumveniunt incommoda, vel quod
170 quaerit et inventis miser abstinet ac timet uti,
vel quod res omnis timide gelideque ministrat, dilator, spe longus, iners, avidusque futuri, difficilis, querulus, laudator temporis acti se puero, castigator censorque minorum.
I vecchi di Lucrezio sono in effetti difficiles e queruli, “scontrosi e lamentosi” (cfr. vv. 1164-1165 suspirat/ crebrius; vv. 1168-1170 tristis… incusat… fatigat/ et crepat), ma si rivelano soprattutto dei veri e propri laudatores temporis acti se pueris, critici nei confronti della propria epoca: tale aspetto è ben sunteggiato dai vv. 1166-1167, che culminano proprio nella laudatio della fortuna della generazione precedente (laudat fortunas saepe parentis). Ciò che Lucrezio sembra biasimare maggiormente, tuttavia, è la loro incomprensione della legge universale del tempo, ossia l’incapacità di venire a patti con la morte, individuale e collettiva. Tale debolezza si esplica non solo nelle loro parole nostalgiche, ma anche nella loro rappresentazione quasi caricaturale, fondata su gesti smoderati che palesano un insanabile e lacerante disagio interiore (cfr. e.g. caput quassans;
saeclumque fatigat; crepat).
In verità la caratteristica più impressionante di questi personaggi è il loro selvaggio vitalismo, la loro gestualità piena di rabbia e impotenza, elementi che potrebbero essere comici, ma risultano tragici perché attribuiti a figure drammaticamente votate a una sconfitta totale e scevra di redenzione. Anche questi tratti rientrano in fondo nella caratterizzazione tradizionale del
senex delineata da Orazio (cfr. v. 172 spe longus… avidus futuri), ma sono qui trasfigurati
dall’empito sublime di Lucrezio, che li isola e deforma “espressionisticamente”, elevandoli sino all’apice del pathos. La figura del vecchio che non sa accettare la morte ricorre in un altro passo lucreziano, all’interno della sezione diatribica par excellence nel De rerum natura (3.952-954):
Grandior hic vero si iam seniorque queratur atque obitum lamentetur miser amplius aequo, non merito inclamet magis et voce increpet acri?
«Se uno ormai carico d’anni e vecchio decrepito geme e misero lamenta oltre il giusto il destino di morte,
Le analogie terminologiche tra i due passi sono molte237. Certo la natura diatribica del secondo passo è più accentuata, perché Lucrezio subito dopo chiama in causa la prosopopea della stessa Natura rerum che rimprovera aspramente il vecchio querulo. Nel primo caso non mi pare corretto parlare di vera e propria diatriba, ma piuttosto dell’accumulo di una serie di motivi diatribici. Certo la figura del vecchio lamentoso ricorre nella tradizione classica e, più specificamente, anche nella tradizione comica, satirica e diatribica: nel richiamarla, Lucrezio si avvale di molti stilemi e iuncturae presi in prestito da generi medio-bassi, come appunto la commedia e la satira: tali elementi sono però rielaborati dal poeta, che li priva di ogni leggerezza “comica”, trasfigurandoli in emblemi di una tragica dismisura.
I due personaggi non sono però soltanto dei vecchi, ma sono al contempo due contadini. Anche il modello del βίος del contadino che vota la sua vita alla fatica agricola potrebbe essere ricondotto alla tradizione satirica e diatribica, come confermano alcuni versi delle Satire e delle
Odi oraziane238. Inoltre l’immagine del vecchio contadino che si affatica nel campo ricorre pure
nella commedia, come dimostra il celebre quadro iniziale nel Punitore di se stesso di Terenzio239. Tuttavia le figure degli agricoltori vittime dell’inclemenza della terra appartenevano al contempo anche alla trattatistica filosofica ellenistica relativa alla questione dell’eternità del mondo e della sua provvidenzialità. Ne troviamo traccia nel De providentia di Filone Alessandrino (2.99) dove Filone invita a non minare la fede nella direzione provvidenziale del cosmo a causa dei minimi
damna riportati da agricoltori e navigatori240. Un altro esempio si trova nel De natura deorum (3.86) di Cicerone, dove l’accademico Cotta riporta l’opinione stoica secondo cui gli dèi «non si curano dei campicelli e delle pianticelle di vite»: enim minora di neglegunt neque agellos
237 Cfr. e.g. 3.953 grandior seniorque 2.1164 grandis; 3.953 iam, 2.1164 iamque; 3.954 queratur 2.1169 saeclumque
fatigat; 3.954 lamentetur miser amplius aequo, 2.1164-5 suspirat/ crebrius; 3.955 inclamet… increpet, 2.1170 et crepat.
238 Cfr. Serm. 1.28 ille gravem duro terram qui vertit aratro; Carm. 1.9-13 illum, si proprio condidit horreo/ quicquid
de Libycis verritur areis/ Gaudentem patrios findere sarculo/ agros Attalicis condicionibus/ numquam demoveas (…).
239 Cfr. in particolare i vv. 62-74, dove Cremete descrive Menedemo che si affaccenda solo nel campo, mosso da senso
di colpa: annos sexaginta natus es/ aut plus eo, ut conicio; (…) numquam tam mane egredior neque tam vesperi/
domum revortor quin te in fundo conspicer/ fodere aut arare aut aliquid ferre denique/ nullum remitti' tempu' neque te respicis/ haec non voluptati tibi esse sati' certo scio. at/ enim dices "quantum hic operi' fiat paenitet."/ quod in opere faciundo operae consumis tuae,/ si sumas in illis exercendis, plus agas. Naturalmente il modello del vecchio
bisbetico che lavora il campo ricorre anche nella commedia attica: si pensi al vecchio Cnemone, protagonista del
Misantropo di Menandro, il quale «vive con la figlia e una vecchia serva, zappando, raccogliendo legname, faticando
sempre e detestando tutti quanti, a cominciare da sua moglie e dai vicini» (vv. 30-34). L’archetipo classico del vecchio contadino infelice risale a mio parere sino al Laerte dell’Odissea, 24. 226-234 ss. «Nel vigneto ben coltivato trovò però il padre, solingo, che zappava a una pianta: indossava una sudicia veste, con toppe, obbrobriosa; (…) Lo scorse così il paziente chiaro Odisseo, consunto dalla vecchiaia, con una gran pena nell’animo».
240 Ventorum imbriumque productiones non in damnum navigantium per mare, ut tu putasti, neque agricolarum sed
in utilitatem totius nostri generis deus fecit. (…) sic deus perinde ac civitatem unam procurans totum hunc mundum, aestatem in hiemem transmutare hiememque in ver reducere consuevit pro utilitate universorum, etsi nautae quidam vel agricolae ex istorum inconstantia aliquid damni ferant.
singulorum nec viticulas persecuntur, nec, si uredo aut grando cuipiam nocuit, id Iovi animadvertendum fuit241.
Nello spazio di soli dieci versi Lucrezio incrocia dunque elementi afferenti a diverse tradizioni; egli inoltre “romanizza” queste figure stereotipate, sottolineando come esse ragionino secondo la mentalità tipica dell’uomo romano. Si pensi ad esempio al riferimento alla pietas dell’antiquum genus al v. 1170 o i riferimenti al v. 1172 alla pratica tutta romana della distribuzione “viritaria” di precise porzioni di terreno (modus agri).
Allo scopo di evidenziare la natura “diatribica” di questo finale, possiamo analizzare più da vicino le espressioni e i termini più significativi impiegati da Lucrezio.
Caput quassare (v. 1164)
Il grandis arator entra in scena scuotendo il capo con vigore242, gesto che diviene sin dal principio cifra del suo turbamento e della sua gestualità smoderata. Tale azione è la prima delle tante di questo quadro che Lucrezio sembra trarre dal mondo della commedia e della satira. L’atto di scuotere il capo come gesto di tristezza o d’ira risale però all’epica omerica. Quando Ettore veste le armi di Achille, il rimprovero che Zeus gli muove è preceduto dal seguente verso (Il. 17.200): κινήσας ῥα κάρη προτὶ ὃν μυθήσατο θυμόν243. Tale verso viene ripreso da Virgilio nel settimo libro dell’Eneide, stavolta riferito a Giunone, la quale rivolge la sua maledizione alla stirpe troiana perché adirata ed acri fixa dolore (Aen. 7.292): tum quassans caput haec effundit pectore
dicta.Anche Seneca si avvale in ambito tragico di questo atto, ponendolo di nuovo dinanzi a un discorso diretto; nelle Troades (449-451) infatti esso è riferito al fantasma di Ettore, che appare ad Andromaca244.
L’espressiva iunctura “quassare caput” sembra però derivare a Lucrezio non tanto da modelli epici o tragici, bensì dal mondo della commedia plautina, dove costituisce un segnale di tormento interiore dovuto a un triste cruccio oppure all’ira245. Ad esempio in Bacc. 305 (capitibus
quassantibus) tale gesto è attribuito a personaggi detti tristes (cfr. v. 303)246; parimenti nel
Trinummus (v. 1169) esso è attribuito al senex Charmides, che si definisce afflitto e spaventato:
241 Si noti che anche Lucrezio usa un diminutivo a proposito della vite (vetulae vitis). Nulla esclude che il passo
ciceroniano, scritto circa dieci anni dopo quello lucreziano, contenga un rimando al De rerum natura.
242 Così mi pare opportuno tradurre il frequentativo quasso, che apre una serie di verbi molto espressivi. 243 «E scuotendo la testa parlò, volto al suo cuore». Traduzione di Rosa Calzecchi Onesti.
244 Cfr. Troad. 449-451: Sed fessus ac deiectus et fletu gravis/ similisque maesto, squalida obtectus coma. Iuvat tamen
vidisse; tum quassans caput (…).
245 Si tratta forse di un gesto paratragico, come sembra indicare il riferimento ad Achille nel passo dell’Asinaria che
verrà citato a breve (vv. 403-406). Si noti che il gesto di scuotere il capo per esprimere diniego e delusione pare essere già presente nella commedia di Aristofane, come dimostra ad esempio questo passo della Lisistrata (v. 125-127): τί μοι μεταστρέφεσθε; ποῖ βαδίζετε;/ αὗται τί μοιμυᾶτε κἀνανεύετε;/ τί χρὼς τέτραπται; τί δάκρυον κατείβεται;.
LYS. (…) quid quassas caput? CH. Cruciatur cor mi, et metuo
Ma l’elemento più interessante che risulta dall’analisi dei loci plautini è che questo gesto è spesso usato da alcuni personaggi per descrivere l’ingresso in scena di altri personaggi, portatori di notizie negative o, più semplicemente, tormentati nell’animo247. L’atto di quassare caput tende così a precedere il discorso diretto del nuovo arrivato, che deve spiegare le ragioni del proprio turbamento. Ad esempio, nei vv. 599-600 del Mercator Charinus descrive così l’aspetto mesto (associato ancora una volta all’aggettivo tristis) di Eutychus che sopraggiunge: Vultus neutiquam
huius placet;/ tristis incedit (pectus ardet, haereo), quassat caput.
Come si diceva, questo gesto può anche denotare un’ira profonda, come nei vv. 403-406 dell’Asinaria (vv. 403-406) dove ben due personaggi descrivono l’ingresso furioso del servo Leonida, paragonato addirittura ad Achille:
LIB. Atque hercle ipsum adeo contuor, quassanti capite incedit.
quisque obviam huic occesserit irato, vapulabit.
MERC. Siquidem hercle Aeacidinis minis animisque expletus incedit,
si med iratus tetigerit, iratus vapulabit.
L’associazione del quassare caput al sentimento della rabbia è inoltre confermato da un passo del De ira di Seneca (1.19.1-2)248, dove esso è incluso nel repertorio dei gesti smodati tipici dell’iracondo. La dismisura del gesto lo rende insomma “spendibile” sia nei generi alti della tragedia e dell’epica, per introdurre scene particolarmente concitate e patetiche, sia in quello della commedia, con intenti espressivi e parodistici. Nei vv. 2.1164 ss. di Lucrezio il primo modello sembra essere proprio la commedia, poiché il grandis arator presenta molte analogie con i senes della commedia; tuttavia il tono esasperato del quadro, carico di pathos, evidenzia che la ripresa lucreziana non dimentica – anzi amplifica – l’elemento παρατραγῳδῶν già insito in Plauto e qui utile a mettere in rilievo il dolore provocato dall’ignoranza della ratio naturae (cfr. v. 1173 nec
tenet). Il grandis arator assomiglia molto ai personaggi dei loci sopra citati, poiché l’atto di
scuotere la testa contrassegna il suo ingresso in scena, comunicando immediatamente il suo profondo turbamento. Inoltre questo gesto precede le parole del personaggio stesso (v. 1165, qui espresse in discorso indiretto) il quale spiega le ragioni della propria inquietudine. Infine la scelta di questa espressione forte al principio della sezione finale del libro serve a Lucrezio per creare
247 Assai probabile che anche questo sia un elemento paratragico, poiché nei passi epici e tragici sopracitati l’atto di
scuotere la testa è teso a rappresentare l’ira e la delusione di un personaggio e precede sempre un concitato discorso diretto pronunciato dal medesimo personaggio.
248 Cum clamore et tumultu et totius corporis iactatione quos destinavit insequitur adiectis conviciis maledictisque. (…)
uno stacco netto con quanto precede, introducendo il lettore in uno spazio nuovo, “diatribico”, dove è consentito un linguaggio espressivo e smodato, che riprende iuncturae e topoi della commedia e della satira allo scopo di “ridestare” e spronare il lettore.
Ciò che colpisce maggiormente, come si era accennato sopra, è la capacità di Lucrezio di rielaborare e stravolgere il suo modello, privandolo di tutti i suoi connotati comici e buffi: il senex diviene così una figura estremamente drammatica, ipostasi di un mondo in sfacelo. Ciò conferma l’analisi svolta da G.B. Conte nei suoi celebri articoli dedicati ai temi dello ὕψος e della diatriba nel De rerum natura. L’ardore profetico di Lucrezio – il suo ἐνϑουσιασμός -– condiziona e trasforma a tal punto lo stile del poema che anche i passi privi di locuzioni e immagini appartenenti ai generi “alti” risultano comunque “sublimi” per la loro potenza espressiva, per il pathos e per l’empito psicagogico che li pervadono e li sostanziano249.
In cassum cadere (v. 1165)
L’intera sezione occupata dal grandis arator è improntata a un’espressività e smodatezza quasi programmatiche. Al gesto eccessivo dello scuotere il capo segue il vero e proprio lamento del personaggio: suspirat/ crebrius in cassum magnos cecidisse labores. Si noti l’uso del comparativo assoluto crebrius («troppo spesso») che veicola anch’esso l’idea di una reiterazione che ha varcato la giusta misura; inoltre tale avverbio è riferibile ἀπὸ κοινοῦ sia al verbo suspirare sia al verbo seguente (cecidisse), ambiguità che ne amplia la portata drammatica250.
Lucrezio attribuisce poi alla voce del personaggio la locuzione in cassum cadere (“andare a vuoto”). Si tratta di un’espressione bassa, quasi di sapore popolaresco, che si ritrova ancora una volta attestata in Plauto, nel Poenulus (v. 360: omnia in cassum cadunt). Non è un caso che nell’Eneide Virgilio, riferendosi come Lucrezio a fatiche (labores) che cadono vane, sceglierà d’impiegare la più elevata iunctura “incassum fundere” (Aen. 7.421): Turne, tot incassum fusos
patiere labores,/ et tua Dardaniis transcribi sceptra colonis?251.
La scelta di questa non elevata espressione è chiaramente dovuta a ragioni di ethopoiia, ovvero per caratterizzare meglio il personaggio e la sua umile provenienza. Al contempo, con la sua sonorità intensa ed aspra (in cassum cecidisse), che richiama per assonanza il quassat del verso
249 Ciò corrisponde al «teorema maggiore dello ὕψος» nel De rerum natura secondo Conte, ovverosia «la ricerca
costante da parte di Lucrezio di una dignità la più alta possibile di cui risuoni il suo linguaggio poetico: contrassegno di quella grandezza assoluta propria alla dottrina filosofica ch’egli ha scelto a soggetto». Cfr. Conte 1966a, p. 342.
250 Si noti l’uso della forma verbale derivata increbresco da parte di Plauto in un contesto analogo, dove si racconta
una progressiva degenerazione (Merc. vv. 838-841): nam ubi mores deteriores increbrescunt in dies,/ ubi qui amici,
qui infideles sint nequeas pernoscere/ ubique id eripiatur, animo tuo quod placeat maxume,/ ibi quidem si regnum detur, non cupita est civitas.
251 Cfr. pure Sen. Med. Querelas verbaque in cassum sero? Si noti che Serv. ad Aen. 2.85 coglie una possibile relazione
precedente, questa iunctura conferma il passaggio stilistico a un livello lessicale più basso, utile non solo a caratterizzare, ma anche ad aggredire il lettore, a smuoverlo mediante l’asprezza e la violenza verbale. Del resto non bisogna dimenticare che per Lucrezio il rimprovero mosso dalla Natura all’uomo non è un cordiale invito, ma un “latrato” diatribico (2.16-17): nonne videre/ nihil
aliud sibi naturam latrare (…). Parimenti nel terzo libro la personificazione della Natura aggredirà
con pari durezza il senior querulus: merito inclamet magis et voce increpet acri. L’acris vox è dunque utile sia per rappresentare il mondo di errori e angosce in cui è immersa la maggioranza degli uomini sia per riscuotere queste stesse persone dal loro naufragium interiore252.
Laudare fortunas parentis (v. 1167)
Il lamento del grandis arator culmina nella σύγκρισις tra il presente e il passato (tempora
temporibus praesentia confert/ praeteritis) il cui ovvio epilogo è l’elogio delle fortune del padre
(laudat fortunas parentis). Con queste parole viene messo in rilievo il tema centrale di questi versi, ossia lo scorrere del tempo: si veda a questo proposito la reiterazione del sostantivo tempus (con poliptoto) all’interno di un doppio parallelismo253 che deborda nel verso successivo, comportando un forte iperbato. L’enjambement tra il vv. 1166 e 1167 sembra rispecchiare al contempo l’inarrestabile fuga temporum e l’ardore del vecchio agricoltore, i cui discorsi approdano inevitabilmente al richiamo nostalgico al tempo passato. Come si è visto, questi aspetti rientrano pienamente nello stereotipo del senex laudator temporis acti se puero tratteggiato nell’Epistola ai
Pisoni di Orazio. Ancora una volta, nella commedia latina si trovano numerosi precedenti dell’atto
della laudatio fortunarum e della laudatio maiorum; si veda ad esempio il v. 523 del Rudens (O
scirpe, scirpe, laudo fortunas tuas), il v. 295 del Trinummus (nam hi mores maiorum laudant, eosdem lutitant quos conlaudant) oppure, in Terenzio, i vv. 96-97 dell’Andria: quom id mihi placebat tum uno ore omnes omnia/ bona dicere et laudare fortunas meas. L’elogio delle fortune
paterne implica una netta svalutazione dei tempora praesentia, visti come epoca di miseria. Lucrezio non ci spiega quali siano le ragioni addotte da questo vecchio agricoltore per spiegare la decadenza della propria generazione, ma è assai probabile che tra esse sia da includere la
252 Circa il latrare della natura al v. 17 cfr. Conte 1966a p. 344: «Nello stridore del verso espressivamente si indica la
protesta della natura, mentre sotto si sente vivo il fervore del poeta che vuole comunicare la sua consapevolezza del reale pericolo incombente. L’immagine è come una prefigurazione, in tono minore, della grandiosa prosopopea della Natura, che chiude il III libro. Ma, mentre là ci si distende dinanzi un quadro monumentale e solenne, in cui la personificazione e l’allocuzione della Natura perde ogni aspetto di figura retorica nell’originale concezione del poeta, qui il naturam latrare è metafora presente alla fantasia di Lucrezio come precedente poetico di Omero, di Ennio, dello stesso Epicuro». Modello diretto di Lucrezio è infatti Ennio Ann. 584 V2 animus cum pectore latrat, che riprende a