2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.3 La sezione conclusiva del primo libro (vv 1052-1117)
2.3.3 Le fonti e gli obbiettivi polemici di Lucrezio: un primo bilancio
Dopo aver riassunto le principali interpretazioni di questo finale è finalmente possibile tentare un bilancio conclusivo dei possibili obbiettivi polemici di Lucrezio, passando in rassegna le principali scuole filosofiche chiamate in causa dagli studiosi sopra citati.
Platone e i primi scolarchi dell’Accademia
Come ha dimostrato Sedley, l’idea che il cosmo sia un’unità armonica indissolvibile grazie al legame immortale (δεσμός) donato ad esso dal Demiurgo sembra essere in primis una dottrina platonica, che ha le proprie radici nel Timeo. Un importante passo plutarcheo (De facie quae in orbe
117 Cfr. contra Müller 1978 p. 203 «Il drammatico crollo alla fine del I libro era soltanto un’immagine ipotetica per
confutare un’erronea cosmologia».
118 Cfr. Salemme 2011 p. 97: «Lo sviluppo delle idee potrebbe essere il seguente: comunque venga formulata, la teoria
centripeta non spiega perché il mondo resti saldo, dal momento che esso – come già detto – si mantiene compatto grazie agli incessanti urti della materia che saldano di continuo il mondo, compensandone inoltre le perdite. Tali urti degli atomi infiniti impediscono ne volucri ritu flammarum moenia mundi diffugiant (…) La distruzione del cosmo espressa in termini e in contesto genuinamente epicurei ha tanto maggiore suggestione immaginifica che se fosse prospettata soltanto come nefasta conseguenza di una tesi avversaria»
119 Cfr. Salemme 2011 p. 98.
120 Cfr. Salemme 2011 p, 98. Pertanto nei vv. 1102-1113 c’è un contenuto di genuina marca epicurea. Basandosi sullo
sviluppo dei vv. 1053-1067, Salemme ricostruisce la struttura argomentativa dei vv. 1083 ss. «Già nell’esposizione della teoria avversa contenuta nei vv. 1053-1067 Lucrezio fa seguire (vv. 1068-1082) quella della vera ratio. Non c’è motivo per non vedere anche qui un analogo svolgimento: all’istruzione della dottrina contraria che si inizia da v. 1083 e termina a v. x della lacuna, doveva corrispondere quella della vera ratio che si iniziava con il v. x della lacuna sino al v. 1113».
lunae apparet 943e-f), ci rivela che essa venne poi approvata e sviluppata nell’Accademia dai
successori di Platone, come Senocrate:
Ὡς γὰρ ἡ γῆ πνεύματι μεμιγμένη καὶ ὑγρῷ μαλακὴ γέγονε καὶ τὸ αἷμα τῇ σαρκὶ παρέχει τὴν αἴσθησιν ἐγκεκραμένον, οὕτως τῷ αἰθέρι λέγουσι τὴν σελήνην ἀνακεκραμένην διὰ βάθους ἅμα μὲν ἔμψυχον εἶναι καὶ γόνιμον, ἅμα δ' ἰσόρροπον ἔχειν τὴν πρὸς τὸ βαρὺ συμμετρίαν τῆς κουφότητος. Καὶ γὰρ αὐτὸν οὕτως τὸν κόσμον ἐκ τῶν ἄνω καὶ τῶν κάτω φύσει φερομένων συνηρμοσμένον ἀπηλλάχθαι παντάπασι τῆς κατὰ τόπον κινήσεως. Ταῦτα δὲ καὶ Ξενοκράτης [fr. 56] ἔοικεν ἐννοῆσαι θείῳ τινὶ λογισμῷ, τὴν ἀρχὴν λαβὼν παρὰ Πλάτωνος [Tim. 31]. Πλάτων γάρ ἐστιν ὁ καὶ τῶν ἀστέρων ἕκαστον ἐκ γῆς καὶ πυρὸς συνηρμόσθαι διὰ τῶν <δυοῖν> μεταξὺ φύσεων ἀναλογίᾳ δεθεισῶν ἀπο-φηνάμενος· οὐδὲν γὰρ εἰς αἴσθησιν ἐξικνεῖσθαι, ᾧ μή τι γῆς ἐμμέμικται καὶ φωτός. Ὁ δὲ Ξενοκράτης (fr. 56) τὰ μὲν ἄστρα καὶ τὸν ἥλιον ἐκ πυρός φησι καὶ τοῦ πρώτου πυκνοῦ συγκεῖσθαι, τὴν δὲ σελήνην ἐκ τοῦ δευτέρου πυκνοῦ καὶ τοῦ ἰδίου ἀέρος, τὴν δὲ γῆν ἐξ ὕδατος καὶ ἀέρος καὶ τοῦ τρίτου τῶν πυκνῶν· ὅλως δὲ μήτε τὸ πυκνὸν αὐτὸ καθ' αὑτὸ μήτε τὸ μανὸν εἶναι ψυχῆς δεκτικόν. Καὶ ταῦτα μὲν περὶ οὐσίας σελήνης.
«Come la terra s’è resa morbida grazie all’unione col soffio e l’umidità e come il sangue induce sensibilità nella carne in cui si diffonde, così è dottrina che la luna permeata in profondità dall’etere sia al contempo animata e fertile ed offra un preciso bilanciamento di peso e levità; e si aggiunge che
nello stesso modo, armonizzando gli elementi che per natura volgono all’alto e al basso, anche l’universo sfugge totalmente al moto di traslazione. A questa dottrina pervenne anche Senocrate
prendendo le mosse da Platone, con un ragionamento quasi sovrumano. E come Platone è colui che dimostrò che anche le stelle risultano armonicamente composte di terra e fuoco stretti assieme in un rapporto fisso tramite due elementi intermedi – poiché nulla, egli dice, che non ammetta una mescolanza di terra e luce può colpire i sensi. Senocrate a sua volta precisa che le stelle e il sole risultano fatti di fuoco e di prima densità, la luna di seconda densità e di un’aria sua peculiare, la terra d’acqua e di terza densità».
Questo passo mostra come il pensiero accademico post-platonico, che prendeva le mosse dalle dottrine sviluppate da Platone nel Timeo (τὴν ἀρχὴν λαβὼν παρὰ Πλάτωνος), avesse elaborato la teoria dell’equilibrio provvidenziale (τὸν κόσμον συνηρμοσμένον) del mondo, nonostante gli opposti moti degli elementi che lo compongono (ἐκ τῶν ἄνω καὶ τῶν κάτω φύσει φερομένων): ed è tale disposizione armonica che impedisce la separazione degli elementi a causa del loro moto secondo natura (ἀπηλλάχθαι παντάπασι τῆς κατὰ τόπον κινήσεως). Notevoli sono le coincidenze con la teoria confutata da Lucrezio nei vv. 1052 ss. Si noti in particolare come i vv. 1102 ss. descrivono quello smembramento del cosmo dovuto alla spinta opposta dei moti naturali, che invece Senocrate considera impossibile. Secondo Lucrezio, infatti, la distruzione del mondo e la sua dissoluzione nel vuoto può essere causata sia dalla spinta centrifuga del fuoco e dell’aria (vv. 1102-1104 volucri ritu
flammarum… diffugiant) sia da una spinta di natura opposta (vv. 1105 ss. neve ruant… superne),
Che Lucrezio attacchi una dottrina almeno idealmente fondata sulla cosmologia platonica del
Timeo, e che asserisce l’eternità del cosmo a partire dalla stabilità della terra e dall’ordine dei suoi
elementi sembra confermato anche da una testimonianza del trattato filoniano De aeternitate mundi: in esso si dimostra che, proprio a partire dalla dottrina del δεσμός - e in particolare dal passo del
Timeo dove il Demiurgo dichiara di avere donato alle divinità minori un legame capace di vincere la
consunzione (δεσμοῦ καὶ κυριωτέρου) - i successori di Platone lessero il racconto della creazione del mondo come un semplice mito; di conseguenza, secondo costoro, Platone considerò il mondo non “generato e immortale” (γενητὸς δὲ καὶ ἄφθαρτός), bensì “ingenerato e immortale”, grazie all’eterno dinamico equilibrio tra le parti del mondo (cfr. Phil. aet. 13)121:
Γενητὸν δὲ καὶ ἄφθαρτόν φασιν ὑπὸ Πλάτωνος ἐν Τιμαίῳ δηλοῦσθαι διὰ τῆς θεοπρεποῦς ἐκκλησίας, ἐν ᾗ λέγεται πρὸς τοὺς νεωτέρους θεοὺς ὑπὸ τοῦ πρεσβυτάτου καὶ ἡγεμόνος· “θεοὶ θεῶν, <ὧν> ἐγὼ δημιουργὸς πατήρ τε ἔργων, ἄλυτα ἐμοῦ γε μὴ θέλοντος. Τὸ μὲν οὖν δὴ δεθὲν πᾶν λυτόν, τό γε μὴν καλῶς ἁρμοσθὲν καὶ ἔχον εὖ λύειν ἐθέλειν κακοῦ. Δι' ἃ καὶ ἐπείπερ γεγένησθε, ἀθάνατοι μὲν οὔκ ἐστε οὐδ' ἄλυτοι τὸ πάμπαν, οὔτι γε μὴν λυθήσεσθέ γε, οὐδὲ τεύξεσθε θανάτου μοίρας, τῆς ἐμῆς βουλήσεως μείζονος ἔτι δεσμοῦ καὶ κυριωτέρου λαχόντες ἐκείνων, οἷς ὅτε ἐγίγνεσθε συνεδεῖσθε.” Tινὲς δὲ οἴονται σοφιζόμενοι κατὰ Πλάτωνα γενητὸν λέγεσθαι τὸν κόσμον οὐ τῷ λαβεῖν γενέσεως ἀρχήν, ἀλλὰ τῷ, εἴπερ ἐγίγνετο, μὴ ἂν ἑτέρως ἢ τὸν εἰρημένον συστῆναι τρόπον, ἢ διὰ τὸ ἐν γενέσει καὶ μεταβολῇ τὰ μέρη θεωρεῖσθαι.
«Dicono che Platone nel Timeo abbia mostrato che il mondo sia generato e incorruttibile attraverso la scena di quella divina assemblea, in cui il dio più anziano e sovrano: “O dei tra gli dei, poiché io sono l’artefice e il padre d’ogni opera, esse sono indissolubili finché io non lo voglia. Invero tutto ciò che è legato è dissolubile, ma desiderare di dissolvere quanto è stato costruito in maniera armonica e dotato di bellezza è segno di malvagità. Per questo e anche perché siete stati generati, non siete immortali né indissolubili del tutto, ma non di meno non sarete dissolti, né avrete sorte di morte, poiché avete ottenuto nella mia volontà un legame più forte e più potente di quelli dai quali siete stati composti nel momento in cui siete stati generati”. Alcuni credono, ragionando sottilmente a proposito del testo platonico, che egli dica che il mondo è generato non per il fatto d’aver avuto un principio, ma per il fatto di essere stato costruito in un modo non diverso da quello in cui si trova ora o per il
fatto che le sue parti sono considerate sempre soggette a generazione e mutamento».
L’insieme di queste argomentazioni dimostra come il Timeo e l’Accademia post-platonica potrebbero essere inclusi nel novero degli obbiettivi polemici di questo passo lucreziano. In effetti, come evidenziato da Sedley122, di origine platonica è anche la dottrina degli Antipodi. Parimenti, grazie al passo di Senocrate sopracitato sappiamo che l’Accademia non mancò di approfondire la questione dell’equilibrio degli elementi nel cosmo, sottolineando come la concordia discors di questi ultimi impedisca la disgregazione del mondo.
121 Si noti tuttavia che Filone non sembra condividere questa lettura del testo platonico, che egli sembra ritenere lambiccata
(cfr. σοφιζόμενοι).
Tuttavia, il richiamo ai passi del Timeo e ai frammenti della prima Accademia non è affatto sufficiente per asserire che Lucrezio, sulle orme di Epicuro, costruisca una polemica anti-platonica. Difatti non ritroviamo né in Platone né nei suoi successori la teoria secondo cui tutto converge verso il centro (v. 1053 in medium summae quod dicunt omnia niti), sebbene fuoco ed aria abbiano moto relativamente centrifugo (vv. 1083-1084 non omnia corpora fingunt/ in medium niti), né tanto meno la teoria del nutrimento astrale per mezzo del calor ascendente (vv. 1090-1093). I passi platonici richiamati sembrano dunque rappresentare piuttosto la radice della dottrina confutata da Lucrezio.
Aristotele e la scuola peripatetica
Dopo l’esame delle fonti platoniche, pare opportuno considerare se Aristotele e la scuola peripatetica possano essere inclusi nel novero degli obbiettivi polemici di questo finale. Come aveva intuito Bignone, il trattato filoniano De aeternitate mundi costituisce un punto di partenza imprescindibile. Un passo, in particolare, richiamato dallo studioso italiano e trascurato dalla critica successiva, sembra d’importanza notevole, poiché riporta teorie che presentano notevoli punti di tangenza con le dottrine confutate nel finale lucreziano. In tale passo Filone riporta una dottrina sostenuta da coloro che definiscono il cosmo ingenerato e incorruttibile (ἀγένητον καὶ ἄφθαρτον), ovverosia da Aristotele e dai suoi successori (Phil. aet. 28-34):
28 Πάνθ' ὅσα τῶν συνθέτων φθείρεται, διάλυσιν εἰς τὰ ἐξ ὧν συνετέθη λαμβάνει· διάλυσις δ' οὐδὲν ἦν ἄρα ἢ πρὸς τὸ κατὰ φύσιν ἑκάστων ἐπάνοδος, ὥστε κατὰ τοὐναντίον ἡ σύνθεσις εἰς τὸ παρὰ φύσιν τὰ συνελθόντα βεβίασται. Καὶ δὴ τάδ' οὕτως ἔοικεν ἀψευδέστατα ἔχειν. 29 Ἄνθρωποι γὰρ ἀπὸ τῶν τεττάρων στοιχείων, ἃ δὴ ὅλα τοῦ παντός ἐστιν οὐρανοῦ, γῆς, <ὕδατος>, ἀέρος τε καὶ πυρός, βραχέα τὰ μέρη δανεισάμενοι συνεκράθημεν· τὰ δ' ἀνακραθέντα τῆς κατὰ φύσιν θέσεως ἐστέρηται, θερμότητος μὲν τῆς ἀνωφοίτου κατω<σθείσης>, τῆς δὲ γεώδους καὶ βάρος ἐχούσης οὐσίας ἐπελαφρισθείσης καὶ τὸν ἄνω τόπον ἀντιλαβούσης, ὃν τὸ γεωδέστατον τῶν ἐν ἡμῖν ἐπέσχηκε κεφαλή. 30 δεσμῶν δὲ φαυλότατον ὃν ἔσφιγξε βία, βαιὸς καὶ ὀλιγοχρόνιος· ῥήγνυται γὰρ θᾶττον ὑπὸ τῶν δεθέντων, ἅτε ἀπαυχενιζόντων διὰ πόθον [ὑπὸ] τῆς κατὰ φύσιν κινήσεως, πρὸς ἣν σπεύδοντα μετανίσταται· κατὰ γὰρ τὸν τραγικὸν: “χωρεῖ δ' ὀπίσω / τὰ μὲν ἐκ γαίας φύντ' εἰς γαῖαν / τὰ δ' ἀπ' αἰθερίου βλαστόντα γονῆς/ εἰς οὐράνιον πόλον ἦλθε πάλιν· θνῄσκει δ' οὐδὲν τῶν γιγνομένων, / διακρινόμενον δ' ἄλλο πρὸς ἄλλο / μορφὴν ἰδίαν ἀπέδειξεν.” 31 τοῖς μὲν δὴ φθειρομένοις ἅπασι νόμος ἀναγέγραπται καὶ θεσμὸς οὗτος, ὁπότε μὲν ὑφέστηκε τὰ συνεληλυθότα ἐν τῇ κράσει, πρὸ τῆς κατὰ φύσιν τάξεως ἀταξίας ἀντιμετειληφέναι καὶ πρὸς τοὺς ἐναντίους τόπους μετανίστασθαι, ὡς τρόπον τινὰ ξενιτεύειν δοκεῖν, ὁπότε δὲ διαλύοιτο, πρὸς τὴν οἰκείαν τῆς φύσεως λῆξιν ἀνακάμπτειν. 32 Ὁ δὲ κόσμος ἀμέτοχος τῆς ἐν τοῖς λεχθεῖσιν ἀταξίας ἐστίν. Ἐπεί, φέρε, θεασώμεθα· φθειρομένου τὰ μέρη νυνὶ μὲν ἀνάγκη τετάχθαι τὴν παρὰ φύσιν ἕκαστα χώραν· τοῦτο δὲ ὑπονοεῖν οὐκ εὐαγές· ἀρίστην γὰρ θέσιν καὶ τάξιν ἐναρμόνιον τὰ τοῦ κόσμου μέρη πάντα εἴληχεν, ὡς ἕκαστον καθάπερ πατρίδι φιλοχωροῦν μὴ ζητεῖν ἀμείνω μεταβολήν. 33 διὰ τοῦτο γῇ μὲν ὁ μεσαίτατος ἀπενεμήθη τόπος, ἐφ' ἣν πάντα τὰ γεώδη, κἂν ἀναρρίψῃς, καταφέρεται – τὸ δ' ἐστὶ | σημεῖον χώρας τῆς κατὰ φύσιν· ἔνθα γὰρ μὴ ὑπὸ βίας ὁτιοῦν ἐνεχθὲν ἵσταται καὶ ἠρεμεῖ, τὸν οἰκεῖον εἴληχε χῶρον123 – · ὕδωρ
123 Cfr. le analogie tra questo passo e il discorso dello stoico Farnace in Plut. De facie 923e ss. Πάνυ μὲν οὖν’ εἶπεν ὁ
δὲ ἐπὶ γῆν ἀνακέχυται [δεύτερον], ἀὴρ δὲ καὶ πῦρ ἀπὸ τοῦ μέσου πρὸς τὸν ἄνω κεχώρηκεν, ἀὴρ μὲν τὸν μεθόριον ὕδατος καὶ πυρὸς κληρωσάμενος τόπον, πῦρ δὲ τὸν ἀνωτάτω· διὸ κἂν ἀναψάμενος δᾷδα πρὸς γῆν καταφέρῃς, ἡ φλὸξ οὐδὲν ἧττον ἀντιβιάσεται καὶ πρὸς τὴν φυσικὴν τοῦ πυρὸς κίνησιν ἐπικουφίσασα αὑτὴν ἀναδραμεῖται. 34 Εἰ δὴ φθορᾶς μὲν αἴτιον ἡ παρὰ φύσιν τάξις τῶν ἄλλων [ἔχει] ζῴων, ἐν δὲ| τῷ κόσμῳ κατὰ φύσιν ἕκαστα τῶν μερῶν διατέτακται τὰς οἰκείας διακληρωσάμενα χώρας, ἐνδίκως ἂν λέγοιτο ὁ κόσμος ἄφθαρτος.
«28 Tutto quanto è di natura composita è destinato alla rovina, si dissolve negli elementi da cui è stato composto; la dissoluzione altro non è se non il ritorno di ciascun elemento al suo luogo naturale, cosicché all’opposto l’aggregazione è l’atto violento che forza gli elementi a radunarsi in un luogo contro natura: e così questa teoria sembra assai veritiera. 29 Gli uomini sono infatti composti dai quattro elementi, ovverosia terra, acqua, aria e fuoco, che sono parti dell’intero universo, e si formano ottenendo in prestito piccole parti mescolate insieme: ciò che è composto risulta però privo della collocazione secondo natura, poiché il calore – centrifugo per natura – viene spinto in basso, mentre l’essenza terrena e dotata di peso viene alleggerita e raggiunge una collocazione alta, visto che, tra le parti del nostro corpo, la testa ha ottenuto la natura più terrena; 30 la violenza ha unito con la forza il peggiore dei legami, effimero e frutto di costrizione: esso viene infatti rotto piuttosto rapidamente dagli elementi legati, poiché si ribellano per il desiderio del moto a loro connaturato e migrano dirigendosi in fretta verso di esso. Secondo il poeta tragico: “ritorna indietro / alla terra ciò che è generato dalla terra / mentre ciò che è germogliato da seme etereo / torna indietro alla volta celeste / nulla di ciò che è generato muore, / ma separandosi l’una dall’altra / ciascuna cosa mostra la propria forma”. 31 A tutto ciò che è corruttibile è stata prescritta questa legge: quando gli elementi che si sono riuniti si costituiscono in un composto, pervengono a una condizione di disordine invece dell’ordine secondo la posizione naturale e migrano in luoghi opposti, cosicché in un certo senso sembrano vivere in esilio; quando invece tali composti si dissolvono ritornano alla loro sfera naturale.
32 Il cosmo, invece, non è partecipe del disordine dei composti sopracitati. Orsù consideriamo con
attenzione. Se il mondo si corrompe è necessario che le sue parti siano distribuite ciascuna in una posizione contro natura. Ma sospettare ciò sarebbe empio: infatti ciascuna parte del mondo ha ottenuto la posizione migliore e una disposizione armonica, poiché ciascuno desidera la propria posizione come una patria e non cerca una migrazione verso il meglio. 33 Per questo il luogo più centrale fu assegnato alla terra, verso la quale tendono tutti i corpi terreni, e anche se li gettassi in alto, sono condotti verso il basso: ciò è indizio di una posizione secondo natura. Qui infatti ciascuna cosa che viene portata in basso resta ferma e riposa non per violenza: ha raggiungo il luogo che le è proprio. L’acqua poi si è sparsa al di sopra della terra [per seconda]; in seguito l’aria e anche il fuoco si sono mossi dal mezzo verso l’alto: l’aria ha ottenuto in sorte il luogo sospeso tra l’acqua e il fuoco, quest’ultimo il luogo più alto: pertanto anche se, avendo acceso una fiaccola, la si gettasse in basso verso la terra, la fiamma tuttavia farà forza nel senso opposto e resasi leggera, correrà verso l’alto secondo il moto naturale del fuoco. 34 Se dunque è causa di rovina la posizione contro natura degli elementi negli altri esseri viventi, invece nel cosmo ognuna delle parti è stata disposta secondo natura, ottenendo in sorte la propria posizione naturale: a buon diritto si potrebbe quindi dire che il cosmo è incorruttibile».
Il passo aristotelico riportato da Filone si fonda sulla teoria dei “luoghi naturali” allo scopo di mostrare come ogni oggetto od essere di questo mondo sia destinato alla dissoluzione, poiché i quattro elementi che lo compongono sono uniti in esso “per violenza”, forzando la loro tendenza ad occupare
τὰ βάρη ῥέποντα καὶ φέρεται καὶ συννεύει πανταχόθεν· ἡ δ' ἄνω χώρα πᾶσα, κἄν τι δέξηται γεῶδες ὑπὸ βίας ἀναρριφέν, εὐθὺς ἐκθλίβει δεῦρο, μᾶλλον δ' ἀφίησιν, ᾗ πέφυκεν οἰκείᾳ ῥοπῇ καταφερόμενον.
la propria posizione naturale; tale innaturale sistemazione non può essere duratura: gli elementi sono pertanto destinati a smembrare tale composto per fare ritorno alla loro sede originaria, terra ed acqua in basso, aria e fuoco in alto. Tale regola non vale però per il mondo nel suo complesso, poiché in esso ciascuno degli elementi è disposto secondo il proprio movimento e la propria collocazione naturale: la terra al centro di tutto, in seguito l’acqua e infine gli elementi centrifughi, ovverosia l’aria e il fuoco. Dunque, poiché nel mondo nessun elemento farà forza per muoversi verso la sua posizione originaria, il mondo è eterno e incorruttibile.
Anche la dottrina qui esposta presenta notevoli analogie con quella esposta e confutata da Lucrezio ai vv. 1052 ss. Innanzi tutto anche qui si sottolinea la disposizione armonica degli elementi, con la terra che si trova al centro del tutto (διὰ τοῦτο γῇ μὲν ὁ μεσαίτατος ἀπενεμήθη τόπος) e verso cui tendono gli oggetti pesanti e terreni: si noti la corrispondenza tra il lucreziano quasi terreno quae
corpore contineantur e il filoniano πάντα τὰ γεώδη. Inoltre la terra viene da entrambi definita come
il luogo presso cui gli oggetti pesanti “riposano” immobili (cfr. v. 1059 ss. requiescere; stare; Phil. 33 ἵσταται καὶ ἠρεμεῖ). All’opposto il fuoco, elemento leggero, tende verso l’alto, (ne volucri ritu
flammarum moenia mundi diffugiant; πρὸς τὴν φυσικὴν τοῦ πυρὸς κίνησιν ἐπικουφίσασα). A questo
proposito, il passo filoniano parla non solo di fuoco e fiamme, ma anche di θερμότης, non diversamente da Lucrezio che, analogamente, parla di calor (v. 1091). Si considerino poi i vv. 1080- 1081 (haud igitur possunt tali ratione teneri / res in concilium medii cuppedine victae). Non solo il
concilium lucreziano sembra ricordare i fragili δεσμοὶ di Filone (cfr. 30.1 ss.), ma l’idea del desiderio
(cfr. cuppedine) degli elementi di fare ritorno al loro luogo naturale trova un perfetto corrispettivo nel passo filoniano (cfr 30.1ἅτε ἀπαυχενιζόντων διὰ πόθον [ὑπὸ] τῆς κατὰ φύσιν κινήσεως, πρὸς ἣν σπεύδοντα μετανίσταται; 33.11 φιλοχωροῦν); e, parimenti, l’analogia tra le due descrizioni del moto centrifugo del fuoco. Infine, entrambi i passi condividono il passaggio argomentativo dalla trattazione dell’ordine e della distribuzione degli elementi alla questione dell’eternità del mondo. Se nel passo peripatetico l’eternità del mondo è dovuta alla differenza tra esso ed i singoli composti, dove gli elementi sono uniti “per violenza” e quindi destinati alla separazione, nel De rerum natura Lucrezio sembra applicare tale schema anche al mondo. Aristotele e i suoi successori possono negare la dissoluzione del mondo a causa delle opposte spinte degli elementi, poiché nella loro cosmologia non esiste alcun luogo esterno, dove le rovine del mondo possano riversarsi. Lucrezio (e probabilmente, prima di lui, Epicuro) introducendo il concetto di infinità della materia e di vuoto, crea una “porta di morte”, attraverso cui tutta la materia può riversarsi.
Tale interpretazione trova alcune conferme nell’argomento peripatetico riportato da Filone nei paragrafi immediamente successivi a quelli sopra citati (cfr. Phil. aet. mundi 35-38):
35 Ἔτι τοίνυν ἐκεῖνο παντί τῳ δῆλον, ὅτι φύσις ἑκάστη διατηρεῖν καὶ διασῴζειν, εἰ δ' οἷόν τε εἴη, καὶ ἀθανατίζειν ἕκαστα ὧν φύσις ἐστὶν ἐσπούδακεν, ἡ μὲν ἐν τοῖς δένδρεσι τὰ δένδρα, ἡ δ' ἐν τοῖς ζῴοις τῶν ζῴων ἕκαστον. 36 Ἐξασθενεῖ δὲ ἡ ἐπὶ μέρους ἀναγκαίως ἄγειν πρὸς ἀιδιότητα· ἢ γὰρ ἔνδεια ἢ φλογμὸς ἢ κρυμὸς ἢ μυρία ἄλλα τῶν εἰωθότων ἐπισυνίστασθαι κατασκήψαντα διέσεισε καὶ διέλυσε τὸν συνέχοντα δεσμὸν καὶ τέλος κατέρρηξε· τοιοῦτον δ' εἰ μηδὲν ἐφήδρευεν ἔξω, κἂν ὅσον ἐφ' ἑαυτῇ πάντα μικρά τε αὖ καὶ μεγάλα ἀγήρω διεφύλαττεν. 37 Ἀναγκαῖον οὖν καὶ τὴν τοῦ κόσμου φύσιν γλίχεσθαι τῆς τοῦ ὅλου διαμονῆς· οὐ γὰρ δὴ τῶν ἐπὶ μέρους ἐστὶ χείρων, ὡς ἀποδιδράσκουσα καὶ λιποτακτοῦσα νόσον ἀνθ' ὑγιείας καὶ φθορὰν ἀντὶ σωτηρίας παντελοῦς ἐπιχειρεῖν τεχνάζειν (…) Ἀλλ' εἰ τοῦτ' ἀληθές ἐστι, φθορὰν ὁ κόσμος οὐ δέξεται. Διὰ τί; ὅτι ἡ συνέχουσα φύσις αὐτὸν ἀήττητός ἐστι κατὰ πολλὴν ἰσχύος ῥώμην, τῶν ἄλλων ὅσα βλάπτειν ἔμελλεν ἁπαξαπάντων ἐπικρατοῦσα. 38 Διὸ καὶ Πλάτων εὖ “ἀπῄει τε γὰρ” φησίν “οὐδὲν οὐδὲ προσῄει αὐτῷ ποθεν· οὐδὲν γὰρ ἦν. Αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν παρέχον καὶ πάντ' ἐν ἑαυτῷ καὶ ὑφ' ἑαυτοῦ πάσχον καὶ δρῶν ἐκ τέχνης γέγονεν· ἡγήσατο γὰρ αὐτὸ ὁ συνθεὶς αὔταρκες ὂν ἄμεινον ἔσεσθαι μᾶλλον ἢ προσδεὲς <ἄλλων>.”
«Un altro punto chiaro a tutti è questo: ogni natura cerca di mantenere e conservare e, se possibile, rendere immortale tutto ciò di cui è natura; la natura degli alberi opererà così negli alberi, quella degli animali negli animali. Tuttavia la natura di ogni singola parte è necessariamente troppo debole per condurla all’immortalità: infatti il bisogno o il fuoco o il gelo o moltissime altre circostanze che solitamente concorrono attaccano e scuotono violentemente e dissolvono il legame che tiene uniti i corpi e infine lo rompe: se una forza tale non incombe da fuori, ogni composto piccolo o grande – di per sé – si manterrebbe senza invecchiare; è dunque inevitabile che anche la natura del cosmo desideri la conservazione del tutto: non è infatti inferiore alle singole parti che la compongono, così da rifuggire e andarsene, cercando di generare la malattia al posto della salute e la distruzione al posto della conservazione (…) Se ciò è vero il mondo non riceverà rovina. Perché? Poiché la natura che lo sostiene è invincibile per il grande vigore della sua forza e prevale su tutto ciò che potrebbe danneggiarla. Pertanto Platone a proposito dice: “Nulla esce da esso né entra da alcuna parte. Poiché non vi era nulla al di fuori di esso124. Esso fu generato dal creatore offrendo esso stesso nutrimento per sé tramite la propria consunzione e agendo e subendo in sé e da sé. Colui che lo compose infatti lo ritenne migliore se autosufficiente, anziché bisognoso di altro».
Come si è visto, la radice platonica di queste teorie peripatetiche è così forte che l’autore avverte il bisogno di richiamare direttamente il testo del Timeo. Nondimeno, le teorie qui riportate sembrano appartenere comunque alla scuola peripatetica, che asseriva l’eternità e l’incorruttibilità del cosmo. Si noti che l’argomento conclusivo volto a dimostrare la mortalità del mondo – costituito da una citazione testuale dal Timeo - si fonda essenzialmente sull’assenza di uno spazio esterno al mondo, dal quale possa affluire materia e verso il quale a sua volta la materia possa fuggire (ἀπῄει τε γὰρ” φησίν “οὐδὲν οὐδὲ προσῄει αὐτῷ ποθεν): tale assenza implica il fatto che il corpo del mondo si nutra unicamente della propria consunzione, senza bisogno di altro (αὐτὸ γὰρ ἑαυτῷ τροφὴν τὴν ἑαυτοῦ φθίσιν). Molte sono le analogie con la teoria che Lucrezio espone, come dimostrano altre interessanti corrispondenze testuali:
Lucr. 1.1053-1056 Phil. aet. 38
124 Cfr. Lucr. 1053 ss. in medium summae quod dicunt omnia niti / atque ideo mundi naturam stare sine ullis / ictibus
in medium summae, quod dicunt, omnia niti atque ideo mundi naturam stare sine ullis
ictibus externis neque quoquam posse resolvi summa atque ima (…).
τοιοῦτον δ' εἰ μηδὲν ἐφήδρευεν ἔξω (…) ἀναγκαῖον οὖν καὶ τὴν τοῦ κόσμου φύσιν γλίχεσθαι τῆς τοῦ ὅλου διαμονῆς· οὐ γὰρ δὴ τῶν ἐπὶ μέρους ἐστὶ χείρων, ὡς ἀποδιδράσκουσα καὶ λιποτακτοῦσα (…) ἀπῄει τε γὰρ” φησίν “οὐδὲν οὐδὲ προσῄει αὐτῷ ποθεν”.
Si noti che però Lucrezio non sembra sviluppare il tema del nutrimento del cosmo, che per platonici e peripatetici proviene dall’incessante trasformazione reciproca dei quattro elementi l’uno nell’altro. Nulla però impedisce che tale tematica potesse trovare spazio nella lacuna posta prima dello scenario apocalittico: del resto, non solo nei versi immediatamente precedenti Lucrezio aveva parlato del nutrimento dei corpi celesti, ma persino nell’ultimo verso (v. 1093) l’exemplum delle piante ha come fulcro la salita del cibo (cibatum) dalla terra sino alla punta dei rami125; è dunque possibile che la dottrina avversata da Lucrezio non fosse molto diversa da quella che ritroviamo in un passaggio di un altro testo, il trattato De mundi natura (11-13) attribuito al neopitagorico Ocello Lucano, contenente molte dottrine peripatetiche di radice platonica :
Εἰ δὲ καὶ δοξάζοι τις αὐτὸ φθείρεσθαι, ἤτοι ὑπό τινος τῶν ἔξω τοῦ παντὸς φθαρήσεται δυναστευόμενον ἢ ὑπό τινος τῶν ἐντός. Οὔτε δ' ὑπό τινος τῶν ἔξωθεν· ἐκτὸς γὰρ τοῦ παντὸς οὐδέν, τὰ γὰρ ἄλλα πάντα ἐν τῷ παντί, καὶ τὸ ὅλον καὶ τὸ πᾶν ὁ κόσμος· οὔτε ὑπὸ τῶν ἐν αὐτῷ· δεήσει γὰρ ταῦτα μείζονά τε καὶ δυναμικώτερα εἶναι τοῦ παντός, τοῦτο δὲ οὐκ ἀληθές· ἄγεται γὰρ τὰ ἄλλα πάντα ὑπὸ τοῦ παντὸς καὶ κατὰ τοῦτο καὶ σῴζεται καὶ συνήρμοσται καὶ βίον ἔχει καὶ ψυχήν. Εἰ δὲ οὔτε ὑπό τινος τῶν ἔξωθεν οὔτε ὑπό τινος τῶν ἔνδοθεν φθαρήσεται τὸ πᾶν, ἄφθαρτος ἄρα καὶ ἀνώλεθρος ὁ κόσμος· τοῦτον γὰρ ἔφαμεν εἶναι τὸ πᾶν. Ἔτι δὲ καὶ ὅλη δι' ὅλης ἡ φύσις θεωρουμένη τὸ συνεχὲς ἀπὸ τῶν πρώτων καὶ τιμιωτάτων ἀφαιρεῖ κατὰ λόγον ἀπομαραινομένη καὶ προσάγουσα ἐπὶ πᾶν τὸ θνητὸν καὶ διέξοδον ἐπιδεχόμενον τῆς ἰδίας συστάσεως. Τὰ μὲν γὰρ πρῶτα [κινούμενα], κατὰ τὰ αὐτὰ καὶ ὡσαύτως κύκλον ἀμείβοντα, διέξοδον οὐκ ἐπιδεχόμενα τῆς οὐσίας. Τὰ δὲ δεύτερα, πῦρ καὶ ὕδωρ καὶ γῆ καὶ ἀήρ· ὅρον γὰρ ἀμείβουσιν ἐφεξῆς καὶ συνεχῶς, οὐ μὴν τόν γε κατὰ τόπον ἀλλὰ τὸν κατὰ μεταβολήν· πῦρ μὲν γὰρ εἰς ἓν συνερχόμενον ἀέρα ἀπογεννᾷ ἀὴρ δὲ ὕδωρ, ὕδωρ δὲ γῆν, ἀπὸ δὲ γῆς πάλιν ἡ αὐτὴ περίοδος τῆς μεταβολῆς μέχρι πυρὸς ὅθεν ἤρξατο μεταβάλλειν. Οἱ δὲ καρποὶ καὶ τὰ πλεῖστα τῶν ῥιζοφυτῶν ἀπὸ σπερμάτων ἀνέλαβον τὴν ἀρχὴν τῆς γενέσεως, καρπω-θέντα δὲ καὶ τελεσφορήσαντα πάλιν ἐπὶ τὸ σπέρμα τὴν ἀνάλυσιν ποιεῖται, ἀπὸ τοῦ αὐτοῦ καὶ ἐπὶ τὸ αὐτὸ τὴν διέξοδον ἐπιτελουμένης τῆς φύσεως.
«Se infatti qualcuno ritenesse che esso [il mondo] è corruttibile, certo esso sarà distrutto dopo essere stato dominato da un corpo proveniente dall’esterno del tutto o da un corpo proveniente dall’interno; ma questo non può accadere da un corpo esterno: infatti nulla si trova al di fuori del tutto, ma tutto si trova all’interno del tutto e il cosmo corrisponde all’universo e alla somma di tutte le cose; e non può
125 Naturalmente nulla vieta di supporre che le piante siano chiamate in causa, più semplicemente, come exemplum di
moto centrifugo, senza altri scopi, così come avviene in 2, 187-190: ne tibi dent in eo flammarum corpora frudem; /
sursus enim versus gignuntur et augmina sumunt / et sursum nitidae fruges arbustaque crescunt, /pondera, quantum in se est, cum deorsum cuncta ferantur. Tuttavia i due passi, pur simili, si distinguono per il fatto che il primo pone l’accento
essere distrutto da qualcosa proveniente dal suo interno: ciò dovrebbe essere maggiore e più potente del tutto, cosa non veritiera; ogni cosa infatti è guidata dal tutto e secondo il moto del tutto e viene conservata e viene ordinata e dotata di vita e d’anima. Se il tutto non sarà distrutto da nulla di esterno o d’interno, il cosmo è incorruttibile e indistruttibile: esso infatti coincide con il tutto. Inoltre, considerando la natura intera nella sua globalità, essa leva la continuità dai corpi primi e più degni di rispetto consumandosi secondo una certa proporzione e volgendosi ad ogni corpo mortale e ricevendo un percorso di mutamento dalla propria struttura. I corpi primi, una volta messi in moto, allo stesso tempo e in modo simile, scambiandosi in ciclo e non ricevendo uscita dalla sostanza; i secondi, fuoco, acqua, terra e aria; scambiano continuamente e senza sosta il proprio confine, non certo quello secondo il luogo, ma quello secondo la trasformazione: infatti il fuoco muovendosi insieme verso un solo elemento genera l’aria, l’aria l’acqua, l’acqua la terra e dalla terra di nuovo il medesimo ciclo di trasformazione sino al fuoco, da cui si era mosso il mutamento. I frutti e la maggior parte delle piante
ottennero il principio di generazione dai semi e, una volta divenute frutti e pervenute al proprio compimento, compiono la propria dissoluzione ritornando seme, poiché la natura compie il proprio