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La vera natura del “finimondo” dei vv 1102-1113: la fuga degli elementi

2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA

2.3 La sezione conclusiva del primo libro (vv 1052-1117)

2.3.6 La vera natura del “finimondo” dei vv 1102-1113: la fuga degli elementi

Molto si è discusso sulla reale natura dei vv. 1102-1113. La dissoluzione del mondo qui descritta è una dissoluzione ipotetica, prospettata come assurda conseguenza delle dottrine non- epicuree esposte nei versi precedenti e dunque volta a dimostrare la loro assurdità, come pensa Furley? Oppure, come pensa Salemme, siamo dinanzi alla descrizione “ortodossa” della fine del mondo, compiuta allo scopo di rivelare il destino del mondo secondo i principi della fisica epicurea? L’insieme delle considerazioni esposte e dei testi considerati sino a questo punto permette di proporre una soluzione. Tale soluzione deve però prendere le mosse da una comprensione reale delle modalità di svolgimento del finimondo dei vv. 1102 ss. Come si è visto, Munro aveva letto questo scenario come la descrizione del crollo del cielo sulla terra, in uno sconvolgimento che provoca un’immensa rovina. All’opposto Bailey aveva parlato di un moto centrifugo degli elementi («would rush upwards»), capace di condurre alla dissoluzione del mondo. Tuttavia Salemme obietta che tale universale moto centrifugo sarebbe incompatibile con la descrizione dei vv. 1106 ss., che indica una mescolanza degli elementi e una confusione delle macerie del cielo e della terra.

Per risolvere questi dubbi è necessaria un’attenta riconsiderazione di questo scenario. In

primis bisogna notare un aspetto che nessun critico ha evidenziato in maniera debita: i primi tre versi

(vv. 1102-1104 ne volucri ritu flammarum moenia mundi/ diffugiant subito magnum per inane soluta/

et ne cetera consimili ratione sequantur) sottolineano la fuga verso l’alto degli elementi leggeri, in primis i fuochi celesti, che, riversandosi nel vuoto, forzano la fuoriuscita del resto della materia del

150 Cfr. Vimercati 2004 pp. 88 ss. 151 Cfr. Fowler 2002 p. 235.

152 Questa spiegazione permetterebbe di spiegare alcune notevoli corrispondenze sopra evidenziate tra Phil. aet. 28-34 e

mondo (cetera… sequantur). I versi successivi (vv. 1105-1108 neve ruant caeli tonitralia templa

superne/ terraque se pedibus raptim subducat et omnis/ inter permixtas rerum caelique ruinas/ corpora solventes abeat per inane profundum) non concorrono a descrivere la medesima scena

apocalittica, ma ne propongono un’altra (neve) simile negli effetti, ma opposta nelle modalità. In questo caso, infatti, si descrive la fuga verso il basso della materia, spinta dal ritrarsi degli elementi pesanti, in primis la terra, la cui scomparsa sub pedibus provoca il crollo del cielo. Che Lucrezio proponga uno schema che contempla due opposte tipologie di dispersione della materia (verso l’alto oppure verso il basso) è confermato dai vv. 1112 ss. dove si dice appunto che da qualunque parte (quacumque de parti) si supponga un’assenza di materia (corpora desse), l’esito sarà sempre il medesimo: la dissoluzione del mondo attraverso questa “porta di morte” (ianua leti).

Ma perché, se Lucrezio immagina una fuga della materia verso il basso oppure verso l’alto, tale fuga si configura come una grande confusione e mesconza degli elementi, prima separati (inter

confusas rerum caelique ruinas)? Una possibile risposta a questa domanda può essere formulata

rammentando che il “grimaldello” con cui Lucrezio dissolve l’universo platonico, caratterizzato da “Mittelpunktkonzentration” è il vuoto, che – posto sopra o sotto l’universo – provoca in ogni caso simili conseguenze: tuttavia non è detto che tutti gli elementi in tale fuga abbiano la medesima velocità. Una fuga dovuta a un vuoto posto in alto deve necessariamente coinvolgere prima l’elemento più leggero ed elevato, il fuoco (ne volucri ritu flammarum moenia mundi diffugiant) seguito dal resto della materia (cetera… sequantur), secondo il proprio peso e la propria consistenza; al contrario, una fuga dovuta a un vuoto posto in basso deve coinvolgere prima l’elemento più pesante e collocato in posizione inferiore rispetto agli altri elementi (la terra): tuttavia è naturale pensare che gli elementi leggeri, seguendo la terra attraverso il varco del vuoto, si sovrappongano e mescolino ad essa a causa della loro maggiore leggerezza (e dunque velocità). In questo caso si assisterà dunque a una confusione degli elementi nel corso della disgregazione del mondo (inter permixtas rerum caelique

ruinas / corpora solventes) prima della loro fuga per inane profundum. Del resto non pare un caso

che il dato della “confusio” degli elementi sia prospettato soltanto per la fuga verso il basso e non per la fuga verso l’alto, nella quale la materia “volatile” del fuoco si dissolve subito153.

L’idea che Lucrezio stia opponendo due tipologie diverse di “fuga” della materia è confermato dal sopracitato passo di Plinio (Naturalis historia 2.10-11) in cui si evidenzia come il nexus che unisce gli elementi leggeri a quelli pesanti, impedisce che i primi volino via (evolent) e che i secondi

153 Qualora questa teoria non apparisse convincente, resta sempre la possibilità che l’elemento della confusione tra cielo

e terra nel quadro della “fuga verso il basso” della materia ai vv. 1105 abbia ragioni non filosofiche, ma poetiche e rappresenti un’amplificatio poetica connessa al motivo topico del ritorno al Caos e alla mescolanza tra gli elementi. Tale motivo topico ricorre infatti nella poesia “apocalittica” greca negli episodi della Gigantomachia e della Tifonomachia (cfr. in primis Hes. Theog. 695 ss.) cui indubbiamente Lucrezio guarda nella costruzione di questo finale.

precipitino (ruant)154, causando in entrambi i casi la dissoluzione del mondo. Altrettanto importante è il passo plutarcheo, sopra riportato nella tabella:

ὥσθ' ὅρα καὶ σκόπει, δαιμόνιε, μὴ μεθιστὰς καὶ ἀπάγων ἕκαστον, ὅπου πέφυκεν εἶναι, διάλυσίν τινα κόσμου φιλοσοφῇς καὶ τὸ νεῖκος ἐπάγῃς τὸ Ἐμπεδοκλέους τοῖς πράγμασι, μᾶλλον δὲ τοὺς παλαιοὺς κινῇς Τιτᾶνας ἐπὶ τὴν φύσιν καὶ Γίγαντας καὶ τὴν μυθικὴν ἐκείνην καὶ φοβερὰν ἀκοσμίαν καὶ πλημμέλειαν ἐπιδεῖν ποθῇς, χωρὶς τὸ βαρὺ πᾶν καὶ χωρὶς τὸ κοῦφον ’ἔνθ' οὔτ' ἠελίοιο δεδίσκεται ἀγλαὸν εἶδος,/ οὐδὲ μὲν οὐδ' αἴης λάσιον γένος, οὐδὲ θάλασσα’, ὥς φησιν Ἐμπεδοκλῆς, οὐ γῆ θερμότητος μετεῖχεν, οὐχ ὕδωρ πνεύματος, οὐκ ἄνω τι τῶν βαρέων, οὐ κάτω τι τῶν κούφων· ἀλλ' ἄκρατοι καὶ ἄστοργοι καὶ μονάδες αἱ τῶν ὅλων ἀρχαί, μὴ προσιέμεναι σύγκρισιν ἑτέρου πρὸς ἕτερον μηδὲ κοινωνίαν 926.F.1, ἀλλὰ φεύγουσαι καὶ ἀποστρεφόμεναι καὶ φερόμεναι φορὰς ἰδίας καὶ αὐθάδεις οὕτως εἶχον ὡς ἔχει πᾶν οὗ θεὸς ἄπεστι κατὰ Πλάτωνα (Tim. 53b) (…).

«Pertanto vedi e considera, o sciocco, che, isolando e separando ciascun elemento verso il suo luogo naturale, tu non teorizzi una dissoluzione del cosmo e introduca di fatto la discordia di Empedocle, o piuttosto tu scateni contro la natura gli antichi Titani e i Giganti e non voglia vedere quel mitico terribile caos e disarmonia, separando tutto ciò che è pesante e tutto ciò che è leggero, dove “né si vede la splendente figura del sole/ né la stirpe della terra folta né il mare” come dice Empedocle, né la terra partecipa del calore, né l’acqua dell’aria, né alcun oggetto pesante si trova in alto, oppure in basso oggetti leggeri; invece non mescolati e privi d’amore e solitari i principi del tutto non ammettono mescolanza o comunione reciproca, ma fuggendo sia volgendosi altrove sia essendo spinti aveva il proprio moto naturale così come il tutto quando il dio – secondo Platone – è lontano da essi (…)».

Nel testo plutarcheo assistiamo a una dissoluzione del mondo (διάλυσίς κόσμου) dovuta alla separazione e alla fuga definitiva (cfr. Lucr. diffugiant Plut. φεύγουσαι καὶ ἀποστρεφόμεναι καὶ φερόμεναι) di ciò che è leggero da ciò che è pesante, così come avviene nella fase della Discordia cosmica nella filosofia empedoclea. Certo, non si tratta della medesima dissoluzione prospettata da Lucrezio, poiché Empedocle non prevede l’esistenza di un vuoto esterno dove gli elementi possano disperdersi; tuttavia in entrambi i casi l’esito è la distruzione dell’ordine cosmico.

Qualora il richiamo alla Discordia empedoclea fosse presente effettivamente nella critica accademica alla declinazione stoica della teoria dei luoghi naturali, l’idea di una ripresa lucreziana di tale schema sembrerebbe ancor più verosimile. Già in passi precedenti del primo libro del De rerum

natura la figura di Empedocle era stata associata a scenari apocalittici, dove gli elementi invertono il

proprio ordine e, in particolare, il fuoco muove verso i cieli. Si consideri ad esempio 1.722-725, dove si istituisce un paragone implicito tra la filosofia empedoclea e il mito di Tifone, che minaccia di dissolvere il cosmo con un violento moto centrifugo del fuoco. Come si è visto, anche Plutarco mette in relazione la Discordia empedoclea con i miti “apocalittici” della Titanomachia e della

Gigantomachia. L’idea di un finale escatologico di segno empedocleo non è priva di attrattive, poiché

154 Si noti en passant che la dottrina pliniana non possa che essere stoica, dato che gli elementi leggeri possono volare

tale trionfo della Discordia si opporrebbe al trionfo dell’Amicizia nel proemio del libro (il cosiddetto “inno a Venere”), la cui ispirazione empedoclea è già stata dimostrata155. Inoltre, in questo modo sarebbe ancora più evidente il carattere “sublime” della dissoluzione del mondo descritta da Lucrezio.