La diade centrale è senza dubbio certo la sezione del De rerum natura dove il tema della fine del mondo riscontra una minore rilevanza. La principale ragione di tale situazione risiede nella tematica dei libri III e IV287, incentrati rispettivamente sulla natura dell’anima e sulla percezione sensoriale, ovverosia sul “microcosmo” umano. Non mancano tuttavia alcuni passi dove è possibile riscontrare richiami alla tematica escatologica.
3.1 Il proemio del terzo libro: allusioni “apocalittiche”
Il terzo libro del De rerum natura si apre con una visione cosmica che sembra celebrare il definitivo supemento degli stretti confini di questo mondo a favore di una prospettiva cosmica:
Nam simul ac ratio tua coepit vociferari
15 naturam rerum divina mente coortam
diffugiunt animi terrores, moenia mundi discedunt. totum video per inane geri res. apparet divum numen sedesque quietae,
(…)
25 at contra nusquam apparent Acherusia templa,
nec tellus obstat quin omnia dispiciantur,
sub pedibus quae cumque infra per inane geruntur.
La rivelazione di Epicuro ha ormai “scoperchiato” i moenia mundi, dischiudendo la visione degli dèi negli intermondi, dell’universo infinito e delle sue eterne componenti: gli atomi e il vuoto. Come si è visto nell’introduzione alla precedente sezione, l’espressione moenia mundi discedunt sembra celare un riferimento alla dottrina epicurea della mortalità del mondo: nella Gigantomachia rovesciata di 1.62-79 la vittoria del “ribelle” Epicuro si fondava proprio sullo scardinamento del cielo, che apriva le porte all’immenso spazio oltre il mondo. Solo riconoscendo la mortalità del mondo è possibile “conquistare” intellettualmente l’infinito e raggiungere la pace interiore. Questa non è però l’unica possibile allusione escatologica presente nel proemio del terzo libro.
Nei vv. 25-27 Lucrezio descrive l’apertura dell’immensità e del vuoto sotto i piedi di colui che scopre la verità. Questa mistica visione sembra una riformulazione di un motivo topico negli scenari “apocalittici” dell’epica (Teomachia, Gigantomachia, Tifonomachia), ovverosia lo scoperchiamento dell’Ade e il disvelamento del mondo sotterraneo (cfr. Il. 20.61-65). Non pare un caso che questa tipologia di scenario venga annoverata, nel trattato Sul sublime (9.6), tra i maggiori esempi di sublime:
287 I due riferimenti alle figure mitologiche dei Giganti nel quarto libro verranno esaminate nel corso dell’analisi del sesto
«Ti figuri, amico mio, la terra squarciata dalle sue fondamenta, il Tartaro messo a nudo, tutto l’universo rovesciato e sconvolto, e ogni cosa mescolata (…)?».
Si ricordi, inoltre, che Lucrezio aveva già riformulato questo motivo sublime nel finale del primo libro (vv. 1106 ss. terraque se pedibus raptim subducat). Se però nel primo libro il poeta ricorre al disvelamento del vuoto sotto i nostri piedi per rappresentare la dissoluzione del mondo, qui esso viene negato (nusquam apparent Acherusia templa) per pervenire a un nuovo sublime epicureo, che trascende il tradizionale ὕψος “apocalittico”. Sublime fonte di horror e di divina voluptas non sono più le scene di Teomachia e Gigantomachia, bensì la visione cosmica sub specie aeternitatis della natura dell’universo. Questo aspetto verrà approfondito nei capitoli finali della nostra ricerca, dedicati alla natura del sublime lucreziano.
3.2 Uso parodistico del sublime escatologico nell’epica patriottica: 3.830-837
Ai vv. 847-853288, Lucrezio mostra come sia possibile che, nel corso dell’eternità, i medesimi atomi abbiano dato vita ad individui identici. Tuttavia, ciò non ha implicazione alcuna per la vita di ciascuno di tali individui, poiché la morte costituisce un limite invalicabile per la percezione e per la memoria della loro esistenza.
Lo stesso ragionamento è valido per ogni aggregato atomico, dalle città al mondo: non uno, ma infiniti mondi equivalenti al nostro potrebbero essere esistiti nell’eterno tempo dell’universo infinito; parimenti, innumerevoli città di Roma con il loro imperium potrebbero essere esistite in altri mondi nel passato e potrebbe nascere in fututo. La summa di queste conclusioni tende a minare alla base ogni ideologia fondata sulla fede nell’unicità, nella provvidenzialità e nell’eternità del dominio romano289.
Il sarcasmo lucreziano nei confronti dell’ideologia della città eterna e sovrana del mondo è del resto evidente in un altro passo del terzo libro (vv. 830-837):
830 Nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum,
quandoquidem natura animi mortalis habetur. et uelut anteacto nil tempore sensimus aegri, ad confligendum uenientibus undique Poenis, omnia cum belli trepido concussa tumultu
835 horrida contremuere sub altis aetheris oris,
288 Cfr. 3.354-359 Nam cum respicias immensi temporis omne / praeteritum spatium, tum motus materiai / multimodis
quam sint, facile hoc accredere possis, / semina saepe in eodem, ut nunc sunt, ordine posta /haec eadem, quibus e nunc nos sumus, ante fuisse. /Nec memori tamen id quimus reprehendere mente. Il commento di A. Schiesaro, 1996 La palingenesi nel De rerum natura 3.847-869 in Epicureismo Greco e Romano, C. Giannantoni – M. Gigante eds. Napoli
1996 pp. 795-804; Schiesro dimostra in maniera persuasiva che qui Lucrezio non sta plemizzando con la dottrina stoica dell’eterno ritorno e dell’apocatastasi.
289 Per una lettura del De rerum natura come risposta all’ideologia di Roma aeterna, che ha le sue radici nell’incontro tra
in dubioque fuere utrorum ad regna cadendum omnibus humanis esset terraque marique.
«Nulla dunque è la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale.
E come nel tempo passato non sentimmo alcun dolore, quando i Cartaginesi vennero da ogni parte all’assalto, e tutto il mondo, scosso dal trepido tumulto,
tremò rabbrividendo sotto le volte dell’alto etere, e fu in dubbio sotto il regno di quale dei due popoli dovessero cadere tutti gli uomini in terra e in mare».
Qui il poeta, tramite l’uso parodistico di un linguaggio epicheggiante di stampo enniano290 (trepido tumulto; sub aetheris oris), costruisce una rappresentazione “gigantomachica” delle Guerre puniche. Lo scontro tra Romani e Cartaginesi coinvolge il mondo intero, sino ad abbracciare lo spazio marino e lo spazio celeste (sub altis aetheris oris; terraque marique) e, come nello scontro tra Tifeo e Zeus nella Teomachia esiodea, la terra trema e il cosmo sembra sul punto di crollare (omnia…
horrida contremuere): in palio vi è il dominio su tutti i popoli e sul mondo intero (ad regna cadendum / omnibus humanis).
Al di là dei riferimenti epici, è evidente in questo passo la polemica nei confronti di quell’ideologia che, sin dal secondo secolo a.C., celebra Roma come eterna padrona del mondo. Difatti, la descrizione del più importante evento della storia romana (e mondiale) è significativamente inserita in un contesto volto ad evidenziare l’inconsistenza del passato (inteso come quanto avvenuto prima della nostra nascita) e la sua incapacità di condizionare il presente e il futuro. L’iperbolica rappresentazione dell’epico conflitto tra Roma e Cartagine, fondata su una sorta di crescendo apocalittico, si rivela infine un evento irrilevante. Questa ironica “deflazione del sublime escatologico” (procedimento che verrà esaminato nell’analisi del sesto libro lucreziano) è coronata dall’adynaton finale291, il cui carattere apocalittico è paradossalmente volto a riaffermare l’ininfluenza sul presente delle catastrofi del passato (vv. 840-842) .
Scilicet haud nobis quicquam, qui non erimus tum, accidere omnino poterit sensumque movere, non si terra mari miscebitur et mare caelo.
«Di certo assolutamente nulla potrà accadere accadere a noi
290 Cfr. il commento ad loc. di Kenney 1971.
291 Cfr. Mazzoli 1992 pp. 137 ss. «Per l’adynaton si produce nelle tragedie di Seneca un drastico rovesciamento di segno.
Lungi dal ridursi a mera risorsa formale, il suo uso si fa portatore di senso e ubbidisce a una profonda ragione ideologica». Parimenti, in questo passo del De rerum natura, l’adynaton non rappresenta una semplice figura retorica, bensì un potente veicolo dell’ideologia epicurea. Esso infatti “rivela” la verità della mortalità del mondo, ma, al contempo, mette in rilievo l’ininfluenza di tale verità rispetto alla moralità (e dunque alla felicità) di ogni individuo.
Che allora più non saremo, né stimolare i nostri sensi, neppure se la terrà si mischierà al mare, e il mare al cielo».
3.3 La sezione conclusiva del terzo libro: escatologia individuale ed escatologia cosmica
Sebbene non rappresenti un esempio di escatologia cosmica, bensì di escatologia tout court, la nostra trattazione non può esimersi da un richiamo al finale del terzo libro, vero e proprio trionfo della “morte immortale ed eterna” (mors aeterna, vv. 1085-1094):
1085 Posteraque in dubiost fortunam quam vehat aetas,
quidve ferat nobis casus quive exitus instet. Nec prorsum vitam ducendo demimus hilum tempore de mortis nec delibare valemus, quo minus esse diu possimus forte perempti.
1090 Proinde licet quot vis vivendo condere saecla;
mors aeterna tamen nilo minus illa manebit, nec minus ille diu iam non erit, ex hodierno lumine qui finem uitai fecit, et ille,
mensibus atque annis qui multis occidit ante.
«Dubbio è cosa ci porti il tempo futuro, cosa ci rechi il caso, quale esito incalzi.
E certo, protraendo la vita non sottraiamo un istante al tempo della morte, non riusciamo neanche a scalfirlo, per far sì che possiamo meno a lungo essere morti.
Ti è lecito dunque seppellire vivendo quante generazioni vuoi, tuttavia ti aspetterà non meno quell’eterna morte,
né meno a lungo non sarà esistente colui che termina oggi il corso di vita, di colui che da molti
mesi e da molti anni è già prima scomparso».
Il dominio della mors immortalis è qui riferito in primis alla fine che attende ciascun individuo: tuttavia, esso può essere letto anche come trionfo dei moti disgregatori (i motus exitiales di 2.569) capaci di eliminare tutti gli aggregati atomici. La stessa legge che condanna a morte l’uomo, condanna a morte anche il mondo. Se da una parte sembra che l’obbiettivo del poeta, dopo essersi allargato a visioni escatologiche cosmiche nei primi due finali, ora si stringa alla sola realtà umana, dall’altra parte al lettore è ormai chiaro che la legge della dissoluzione riguarda tutti gli aggregati atomici. Egli ha insomma compreso la profonda verità insita in una delle prime allusioni alla fine del mondo del De rerum natura, quella implicita nei vv. 56-57 del primo libro (unde omnis natura creet
res auctet alatque / quove eadem rursum natura perempta resolvat). La verità della morte inesorabile
riguarda l’uomo così come riguarda il mondo: pertanto, il finale del terzo libro finisce per epitomare e sunteggiare gli due altri finali e prefigura il grande finale dell’intero poema, l’episodio della peste
di Atene nel sesto libro, dove la ruina della dimensione civica diviene perfetta sintesi della ruina individuale e della ruina cosmica.
L’analisi congiunta dei primi tre finali del poema lucreziano permette di comprendere come tra uomo, il mondo e ogni aggregato atomico nell’universo vi sia una relazione di continuità: la differenza tra essi è solamente quantitativa, e non qualitativa. Se alla base della teologia astrale di ascendenza platonica vi era la sacra correlazione tra l’eternità spirituale dell’individuo e l’eternità del mondo, Lucrezio “rovescia” tale correlazione, evidenziando come uomo e mondo siano parimenti soggetti ai motus exitiales. In questo modo, la dimostrazione della mortalità dell’uno permette di consolidare la dimostrazione della mortalità dell’altro. Difatti, non è un caso che il cuore dell’escatologia cosmica lucreziana, ovverosia i vv. 91-415 del quinto libro, si fondi – come si vedrà – su argomentazioni elaborate nel terzo libro a proposito della mortalità individuale292.
292 Come si vedrà, Lucrezio esibisce tale correlazione tramite la trasposizione di due ampie sezioni dal terzo al quinto
libro. Anche in questo caso, le trasposizioni lucreziane non sembrano affatto un segno di incuria o di mancata revisione, bensì sono emblema di profonda consapevolezza della correlazione tra microcosmo e macrocosmo, per i quali valgono i medesimi argomenti.