2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.3 La sezione conclusiva del primo libro (vv 1052-1117)
2.3.8 Un finimondo “ipotetico”
Ritornando ai quesiti posti al principio di questo capitolo, resta aperta la questione posta da Salemme, se si debba considerare questo finale come la fedele e ortodossa rappresentazione dell’escatologia cosmica epicurea, «l’esposizione della vera ratio, di cui Lucrezio disvela infine il risvolto negativo, la dissoluzione del cosmo, negativo relativamente all’uomo»158. Salemme ritiene infatti che il libro non possa «semplicemente chiudersi con la confutazione di una tesi contraria, di cui Lucrezio mostrerebbe le conseguenze estreme». Egli ritiene possibile, ma non soddisfacente la proposta di Furley, secondo il quale «tale ultima proposizione deve esprimere la conseguenza e insieme la confutazione della teoria del carattere centrifugo di aria e fuoco». A conferma di tale tesi, lo studioso evidenzia come il contenuto dei vv. 1102-1113 sia «non solo incompatibile con la dottrina stoica, ma anche con quella aristotelica che nega, come evidenziato nella nostra premessa, l’esistenza di alcunché ove possano disperdersi aria e fuoco».
Bisogna tuttavia ricordare che tipico della tecnica argomentativa del poeta è l’espediente di confutare una teoria avversaria palesandone gli esiti assurdi all’interno di un universo basato sui principi della fisica epicurea. Tale espediente – indagato esaustivamente da Nadia Vidale159 – ha in questo passo una valenza fondamentale: esso dimostra come gli stessi assertori della stabilità e del mondo accettino dottrine fisiche che in verità condurrebbero il cosmo ad una rovina immediata.
Questo espediente viene utilizzato da Lucrezio a più riprese, soprattutto nel corso del primo libro160. Si vedano ad esempio i vv. 1014-1022:
Nec mare nec tellus neque caeli lucida templa
1015 nec mortale genus nec divum corpora sancta
exiguum possent horai sistere tempus; nam dispulsa suo de coetu materiai copia ferretur magnum per inane soluta, sive adeo potius numquam concreta creasset
1020 ullam rem, quoniam cogi disiecta nequisset.
nam certe neque consilio primordia rerum ordine se suo quaeque sagaci mente locarunt
«Né il mare né la terra né gli splendenti spazi del cielo né la stirpe mortale né i santi corpi divini
potrebbero sussistere il breve tempo d’un’ora; difatti, spinta via dal proprio aggregato, la folla
della materia si muoverebbe dissolta attraverso il grande vuoto
158 Cfr. Salemme 2011 pp. 96 ss. 159 Cfr. Vidale 2000 pp. 15 ss.
160 Non possiamo tuttavia di passi escatologici in senso stretto, poiché in questi casi la descrizione della dissoluzione del
mondo risulta assai meno estesa e scevra della potenza evocativa della rappresentazione conclusiva. Questi passaggi non trascendono la condizione di “dimostrazioni per assurdo”: al contempo, pare evidente che esse costituiscano una possibile “radice” dello scenario apocalittico del vv. 1102 ss.
o piuttosto, mai radunatasi, non avrebbe creato
alcuna cosa, poiché ciò che era sparso non si sarebbe unito. Difatti invero neppure secondo un piano gli atomi
si collocarono nel proprio ordine in modo deliberato».
Anche in questo caso Lucrezio evidenzia come la configurazione ipotizzata dai suoi avversari condurrebbe il cosmo a un’immediata rovina161 (v. 1016 cfr. 1103; 1110 subito; temporis puncto). Inoltre anche in questo caso il poeta delinea in verità due possibili scenari catastrofici (vv. 1014-1016; vv. 1019-1020 sive; cfr. 1102-1105; 1106 ss. neve) cui segue il “ritorno all’ordine” con l’esplicazione della vera ratio, introdotta da nam (v. 1021 nam… cfr. vv. 1111-1113 nam …)162.
Pertanto è vero il fatto che i vv. 1102 ss. descrivono il contesto di un universo epicureo: non lascia dubbi in proposito il v 1110 (desertum praeter spatium et primordia caeca). Tuttavia il finimondo immaginato da Lucrezio non è quello epicureo, poiché avviene a causa delle due spinte – centrifuga (vv. 1102-1104) e/o centripeta (vv. 1105 ss.) presupposte dai suoi avversari. Anche il dato che la rovina sarebbe immediata (subito; temporis puncto) aiuta a comprendere come questi versi siano parte di una confutazione. Né appare convincente l’idea di Salemme, secondo la quale una fine del mondo “ipotetica e paradossale” così ampia e posta in conclusione non avrebbe senso. Basti ricordare il finale del quinto libro degli Astronomica di Manilio (vv. 741-745), dove – sulle orme di Lucrezio – si prospetta una fine del mondo impossibile (coincidente con l’ecpirosi stoica), come evidenziato dal periodo ipotetico dell’irrealtà163:
Maximus est populus summo qui culmine fertur; cui si pro numero vires natura dedisset,
ipse suas aether flammas sufferre nequiret,
totus et accenso mundus flagraret Olympo.
«Il popolo di stelle più numeroso è quello che si muove all’apice del cielo; e se ad esso la natura avesse dato forza proporzionale alla quantità,
lo stesso etere non sarebbe in grado di sostenere le proprie fiamme e interamente – arso anche l’Olimpo – il mondo arderebbe».
161 Si tratta della medesima tecnica confutativa che gli accademici utilzzano contro gli stoici nel passo di Plutarco sopra
richiamato ὥσθ' ὅρα καὶ σκόπει, δαιμόνιε, μὴ μεθιστὰς καὶ ἀπάγων ἕκαστον, ὅπου πέφυκεν εἶναι, διάλυσίν τινα κόσμου φιλοσοφῇς;
162 Cfr. Schiesaro 1987 pp. 17 a proposito dell’interazione tra «presupposti filosofici ed epistemologici della tradizione
epicurea» e «le esigenze di una dimostrazione serrata ed efficace».
163 Il filosofo stoico, infatti, prospetta l’avvento di una grande conflagrazione cosmica dovuta al sovvertimento dell’ordine
universale. Cfr. Green 2014 p. 55: «Reassuringly, however, cosmic destruction is only revealed to us within a unreal conditional clause. Nature has not distributed power equally to all stars, and so all is well in the universe». Del resto il richiamo a un finimondo ipotetico, come conseguenza delle erronee teorie avversarie, era usuale nell’antichità. Esemplare il caso in Tolomeo, Almagesto 1, 7.
D’altronde, il fatto che la fine del mondo dei vv. 1102 non sia quella realmente prospettata dalla fisica epicurea non priva il finale lucreziano del suo potenziale sublime e del suo valore polemico: l’escatologia cosmica qui delineata, ponendosi come confutazione delle teorie avversarie, diviene al contempo prefigurazione della vera fine del mondo, che sarà descritta al termine del secondo libro e argomentata al principio del quinto.
Ritengo infine opportuno sottolineare come anche i quattro versi finali, seppur posti dopo un finimondo ipotetico e irreale, non perderebbero forza e significato. L’haec del v. 1114, che indica le nozioni necessarie al destinatario per conoscere l’universo, non va riferito allo scenario apocalittico precedente, bensì alle realtà richiamate poco prima (vv. 1110), ovverosia gli atomi e il vuoto (desertum spatium, primordia caeca) e l’universo infinito in cui queste si muovono. Al contempo, è indubbio che il pronome dimostrativo possa al contempo essere riferito alla summa di tutti gli insegnamenti dati dal poeta nel corso dell’intero libro.
L’insieme di queste argomentazioni prova chiaramente come sia da rifiutare la proposta di Salemme, che vede nei vv. 1083 ss. la descrizione di teorie epicuree e nel “finimondo finale” una fedele descrizione della dissoluzione del cosmo secondo Epicuro. Come si è visto, Lucrezio riconduce ai principi della fisica epicurea (atomi e vuoto) dei principi fisici presentati come presupposti dai suoi avversari. Vero è che il poeta indugia deliberatamente sulle immagini di dissoluzione cosmica. Tale indugio però può essere spiegato con una doppia motivazione, al contempo filosofica ed estetica. Questa fine del mondo “ipotetica”, infatti, serve a prefigurare la reale fine del mondo epicurea, che troverà spazio nel finale del libro successivo; sotto il profilo estetico essa può essere ricondotta al gusto lucreziano per il sublime “gigantomachico”. La conclusione negativa si oppone così al luminoso finale, secondo uno schema tipicamente lucreziano.