2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.5 Il finale del secondo libro
2.5.2 La vera apertura del finale escatologico: i vv 1023-1047
La sezione conclusiva del secondo libro del De rerum natura è preceduta da un appello al lettore. Lucrezio stesso enuclea la ragione di questo passo, ovverosia la consapevolezza del carattere incredibile e sconcertante, mirabile (cfr. vv. 1028; 1029; 1035; 1037), della tesi che verrà presentata. Si tratta delle teorie dell’esistenza di innumerevoli mondi nello spazio infinito (vv. 1048-1089) e della mortalità del nostro mondo (vv. 1105-1174): esse sono “saldate” da un passaggio anti- provvidenzialistico (vv. 1090-1104), che afferma l’esistenza degli dèi, negando però il loro intervento nel mondo173. Sebbene queste teorie non rappresentino affatto delle novità assolute nel pensiero filosofico greco (sin dal VI secolo Anassimandro predicò l’infinità e la mortalità dei mondi, cfr. e.g. D.K. 12 A 10), il proemio dei vv. 1023-1047 appare tuttavia ben motivato: difatti agli occhi del pubblico romano di Lucrezio (e, in particolare, di quel ceto dirigente rappresentato dalla figura di Memmio), tali affermazioni non potevano non apparire sconvolgenti e rivoluzionarie, come evidenzia l’insistenza del poeta sul campo semantico della novitas (vv. 1024-1025; 1033; 1040).
173 I contenuti di questo passaggio “provvidenzialistico” debbono essere considerati congiuntamente ai vv. 166-182, dove
Lucrezio attacca dei filosofi ignari materiai che affermano la provvidenzialità del cosmo e la sua creazione hominum
causa da parte degli dèi. Per un esame delle dottrine di questi passaggi cfr. Fowler 2002 pp. 235 ss. e, in questa tesi,
l’esame delle dottrine provvidenzialistiche (tra cui appunto la creazione del mondo hominum causa) nel quinto libro (vv. 122-234).
Naturalmente tale enfasi non denuncia soltanto la “novità” della verità epicurea, bensì evidenzia soprattutto la natura “sovversiva” di un pensiero del tutto antitetico rispetto alla nascente ideologia imperiale, che sin dal II secolo a.C. (si pensi all’esperienza del cosiddetto “circolo degli Scipioni”) si era appoggiata allo stoicismo paneziano. Pertanto, ad una Weltanschauung che pone Roma e il suo dominio al centro di un solo mondo eterno, pervaso e guidato dalla provvidenza divina, si contrappone – senza possibilità di conciliazione – una visione che smentisce l’unicità del mondo e del genere umano – e dunque di Roma174 – (cfr. e.g. i vv. 1075-1076 esse alios aliis terrarum in
partibus orbis/ et varias hominum gentis et saecla ferarum), che demistifica la provvidenzialità del
mondo (vv. 1090 ss.) e che infine asserisce la sua natura mortale (cfr. e.g. vv. 1144-1145).
Lucrezio sa bene che la reazione del pubblico romano dinanzi a un pensiero tanto eversivo potrebbe essere di sdegnoso rifiuto (cfr. v. 1024 vehementer nova res vv. 1040-1041 novitate
exterritus ipsa / expuere ex animo rationem). Di qui parte dunque la sua “sfida” al lettore (vv. 1042-
1043 et si tibi vera videntur, dede manus, aut, si falsum est, accingere contra), enunciata secondo il lessico militare della tradizione romana. Del resto, il fatto che Lucrezio si rivolga innanzitutto al suo pubblico latino è testimoniato anche dalla conclusione del libro, dominata dalle figure del grandis
arator e del vitis sator, che assurgono ad emblemi della tradizionale, limitata, visione romana del
mondo, incapace di comprendere l’inevitabilità della decadenza.
Il pubblico romano cui Lucrezio si rivolge, si badi, non è però lo stesso pubblico popolare ed eterogeneo delle predizioni “apocalittiche” e dei vaticini che sarebbero circolati a Roma sino alla prima età imperiale, quando Augusto li fece bruciare, nella veste di pontefice massimo (cfr. Suet.
Aug. 31). Il poeta epicureo si rivolge a un pubblico colto, certo corrispondente – in quanto a doctrina
– al ritratto di Memmio compiuto da Cicerone nel Brutus (cfr. Cic. Brut. 247)175. Dinanzi a tale pubblico, Lucrezio attinge alla tradizione letteraria e filosofica greca, in particolare per quanto concerne la querelle relativa all’eternità del cosmo. Difatti, la strategia mediante la quale il poeta “dissinesca” il terror proveniente dalla natura mirabilis dell’annuncio epicureo poggia su un argomento di ascendenza platonica e aristotelica: la meraviglia viene logorata dall’abitudine.
Exemplum di tale massima è l’indifferenza umana dinanzi allo spettacolo sublime della volta celeste,
dovuta a “stanchezza e sazietà nel vedere” (v. 1038 fessus satiate videndi): al contrario, a uno sguardo vergine, non ancora avvezzo e disilluso, tale spettacolo apparirebbe straordinario e sovrannaturale
174 Cfr. Schiesaro 2007 pp. 42-43 «Even at its most general, however, Lucretius’ position deserves to be read against the
fact that during the second and first centuries bc the Romans assimilate and re-elaborate Hellenistic notions about the eternity of their city, and in spite of occasional expressions of concern the belief in eternity (aion) gainswider and stronger currencywell before Augustan times.Cicero’s De re publica offers an articulate alternative to Lucretius’ view of evolution, history and politics as it asserts the uniqueness of our world (albeit small, and providing only transient glory) and its centrality in a balanced and geometric cosmos (6.17), regulated by providence».
175 C. Memmius L. f. perfectus litteris sed Graecis, fastidiosus sane Latinarum, argutus orator verbisque dulcis, sed
(vv. 1033-1037). Naturalmente, l’immagine dell’uomo che contempla per la prima volta la bellezza della volta celeste si ritrova in primis nel “mito della cavena” nel libro settimo della Repubblica di Platone (514 b ss.). Tuttavia, nel secondo libro del De natura deorum di Cicerone (2.37, 95-96 = fr. 13 Ross, W 13) si legge una rielaborazione aristotelica di tale mito:
Cum repente terram et maria caelumque vidissent, nubium magnitudinem ventorumque vim cognovissent aspexissentque solem eiusque cum magnitudinem pulchritudinemque tum etiam efficientiam cognovissent quod is diem efficeret toto caelo luce diffusa, cum autem terras nox opacasset tum caelum totum cernerent astris distinctum et ornatum lunaeque luminum varietatem tum crescentis tum senescentis eorumque omnium ortus et occasus atque in omni aeternitate ratos immutabilesque cursus: quae cum viderent, profecto et esse deos et haec tanta opera deorum esse arbitrantur.
«Quando essi avessero visto all’improvviso la terra, il mare e il cielo, avessero conosciuto la grandezza delle nubi, la forza dei venti e avessero visto il sole e conosciuto sia la sua grandezza e bellezza che la sua potenza (poiché esso produce il giorno quando la sua luce si diffonde per tutto il cielo), e poi, quando la notte avesse oscurato la terra, essi vedessero tutto il cielo punteggiato e adorno di stelle e le variazioni della luce lunare, ora crescente ora calante, e il sorgere e il tramontare di tutti quei corpi celesti e il loro corso definito e immutabile per tutta l’eternità – alla vista di tutto ciò certamente riterrebbero che gli dèi esistono e che tali grandi creazioni siano opera degli dèi».
Nel mito aristotelico la contemplazione della bellezza del cosmo e della sua “utilità” (efficientiam) conduce al riconoscimento dell’esistenza della divinità e della sua azione provvidenziale (et esse deos et haec tanta opera deorum esse). Nondimeno è implicito che tale “scoperta” è possibile soltanto ad un’umanità che non abbia sperimentato la progressiva disillusione provocata dall’abitudine (cfr. v. 1029 paulatim); Lucrezio riprende questo passaggio logico, piegandolo alla dimostrazione di una verità antitetica: come la volta celeste, così la ratio epicurea appare mirabilis a coloro che la considerano per la prima volta: tuttavia l’abitudine priverà la vera
ratio di ogni aspetto incredibile e paradossale.
Il fatto che Lucrezio fondi la propria argomentazione sullo stravolgimento di un exemplum appartenente alla tradizione platonico-aristotelica dimostra chiaramente come egli concepisca le dottrine che si appresta ad esporre in diretta contrapposizione rispetto a tale tradizione176. L’affermazione della natura mortale, né unica né provvidenziale, del mundus è sempre espressa a partire dalla negazione della dottrina contraria.
176 Nondimeno, gli Stoici, in quanto assertori della bellezza e della provvidenzialità del cosmo, possono essere inclusi in
questa polemica epicurea. Del resto Cicerone stesso riporta il mito aristotelico all’interno di un discorso pronunciato dallo stoico Balbo.
2.5.3 I vv. 1105-1174, dalla nascita alla vecchiaia del mondo: le principali interpretazioni a