2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.3 La sezione conclusiva del primo libro (vv 1052-1117)
2.3.10 Il sublime escatologico lucreziano nel finale del primo libro: vv 1052-1117
Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis, scrive
dell’ispirazione (ingenium) sia sul versante dell’elaborazione formale (ars)164. Tuttavia il successo di Lucrezio presso le generazioni successive consiste innanzi tutto nella sua identificazione quale poeta “sublime”, qualità che si esplica in particolare proprio nei passaggi escatologici: l’esempio più significativo di tale riconoscimento è rappresentato dai due passi ovidiani già citati (Amores 1.15.23- 24; Tristia 2.424-425) che identificano Lucrezio come poeta della fine del mondo.
Quali forme assume però il sublime proprio dei passaggi escatologici? Riconsiderando i passi sopra analizzati, si nota che l’ὕψος lucreziano non è affatto monocorde, ma corrisponde in qualche modo ad un «impasto (o meglio amalgama) stilistico» che esprime in maniera coesa ed organica una pluralità di atteggiamenti e condizioni emotive165. Si può dunque riscontrare una varietas di forme e livelli stilistici nel contesto di una struttura semplice e cristallina.
I vv. 1052-1113 corrispondono a un blocco argomentativo unitario, articolato in due parti a loro volta bipartite in presentazione della tesi avversaria e confutazione di essa. Così Lucrezio prima presenta la tesi “geocentrica” (con l’implicazione dell’esistenza degli Antipodi) ai vv. 1052-1067 e poi la sua confutazione ai vv. 1068-1082 (per un totale di 30 versi) Parimenti al v. 1083 il poeta avvia la discussione della teoria del moto centrifugo degli elementi, che probabilmente doveva estendersi per circa 15 versi (sino al v. 1099?). I versi successivi, con la descrizione del finimondo finale (vv. 1100-1113) corrispondono invece alla confutazione di tale configurazione (per un totale di altri 30 versi). Seguono i quattro versi conclusivi, con appello al lettore.
All’interno di una struttura così semplice Lucrezio impiega una pluralità di toni. La prima parte (vv. 1052-1082) è caratterizzata da un tono “argomentativo”, scandito dalle solite formule incipitarie che segnano la presentazione della tesi avversaria (illud in his rebus longe fuge credere v. 1052; et simili ratione v. 1061) e la sua inesorabile confutazione (sed v. 1068; nam… neque vv. 1070- 1071; nec-nec vv. 1077-1079) sino all’epifonema conclusivo (haud igitur v. 1081). Il medesimo tracciato si può intuire anche per la seconda parte (praeterea v. 1083; atque ideo v. 1089; nec prorsum v. 1092). Tuttavia Lucrezio sceglie tipologie di iunctura appartenenti a diversi livelli espressivi: nel racconto degli Antipodi la formula animalia suppa pare non scevra d’ironia, soprattutto per la scelta dell’aggettivo, che si ritrova anche nelle Satire di Lucilio (v. 1297 M.); notevole è il contrasto tra essa e la formula enniana caeli templa (cfr. Enn. trag. 372 R.). Si consideri anche il caso dei vv. 1089- 1093, dove il poeta “eleva” il tono, utilizzando la iunctura enniana caeli caerula (cfr. Enn. Ann. 48 S.), il grecismo aethera (cfr. Enn. 545 S.; Pacuv. Trag. v. 88 R.), il prezioso e raro frondescere. Ebbene, l’atmosfera preziosa e rarefatta creata da queste scelte lessicali, che rappresentano – ricordo – la visione cosmica degli avversari di Lucrezio, viene spazzata dal reboante tono sublime e
164 Cfr. Mazzoli 2006 pp. 44-45 «è l’ingenium a illuminare i versi del poeta, senza tuttavia metterne a repentaglio l’ars:
quanto appunto non poteva far a meno di ammettere, come ben si sa, Cicerone».
apocalittico dei vv. 1102-1113, dove il poeta racconta la dissoluzione del mondo appoggiandosi (come mostrato nei capitoli precedenti) soprattutto a modelli di Teomachia e Gigantomachia risalenti ai poemi omerici ed esiodei. Il tono s’innalza e ai sereni caeli caerula si sostituiscono i fragorosi e minacciosi caeli tonitralia templa: lo spazio celeste e lo spazio terreno si confondono nel cataclisma finale, che sembra ricondurre il mitico Caos primigenio (inter permixtas rerum caelique ruinas). Lo spazio circoscritto del mundus si riduce ai suoi elementi essenziali (cfr. primordia caeca v. 1110) dispersi per lo spazio infinito (v. 1103 magnum per inane soluta; v. 1108 per inane profundum; v. 1110 desertum praeter spatium).
Eppure la metamorfosi del sublime lucreziano non si arresta qui: nei quattro versi conclusivi il tono muta nuovamente e all’horror dello scenario escatologico segue la voluptas intellettuale del disvelamento dell’universo infinito. L’oscurità dell’ignoto cede il passo al volo del lettore lucreziano, mentre ogni angolo dell’immensità cosmica s’illumina e lo sguardo sprofonda sino agli ultima
naturai: l’apocalisse diviene qui vera e propria “rivelazione” (ἀποκάλυψις) dei segreti della natura,
scoperta dell’infinitamente piccolo e dell’immensamente grande. Si perviene al positivo “sublime” mistico caratteristico dei proemi, che celebrano in tono religioso i salvifici reperta di Epicuro. Come già notato da Bignone, si tratta del medesimo tono misterico-iniziatico dinanzi alla scoperta (e all’emozione) del sapere proprio di alcuni passaggi attribuiti al De philosophia di Aristotele166: Ἱερὸν μὲν γὰρ ἁγιώτατον ὁ κόσμος ἐστὶ καὶ θεοπρεπέστατον· εἰς δὲ τοῦτον ὁ ἄνθρωπος εἰσάγεται διὰ τῆς γενέσεως οὐ χειροκμήτων οὐδ' ἀκινήτων ἀγαλμάτων θεστής, ἀλλ'οἷα νοῦς θεῖος αἰσθητὰ μιμήματα νοητῶν, φησὶν ὁ Πλάτων, ἔμφυτον ἀρχὴν ζωῆς ἔχοντα καὶ κινήσεως ἔφηνεν, ἥλιον καὶ σελήνην καὶ ἄστρα καὶ ποταμοὺς νέον ὕδωρ ἐξιέντας ἀεὶ καὶ γῆν φυτοῖς τε καὶ ζῴοις τροφὰς ἀναπέμπουσαν. Ὧν τὸν βίον μύησιν ὄντα καὶ τελετὴν τελειοτάτην εὐθυμίας δεῖ μεστὸν εἶναι καὶ γήθους
Fr. 14 (R2 44, R3 14, W 14) = Plut. Mor. (De tranquill.) 477c
«Il mondo è un tempio santissimo e assai adatto a Dio. L’uomo vi fa ingresso con la sua generazione, spettatore di statue non costruite dalle sue mani, né immobili, ma – dice Platone – quali fece un intelletto divino (…) il sole, la luna, gli astri, i fiumi che fanno fluire acqua sempre nuova, la terra che arreca alimenti sia alle piante che agli animali. E la vita, che di queste cose è mistero e iniziazione perfetta, dev’essere piena di buon animo e di letizia».
166 Cfr. fr. 8 (R2 2, R3 13, W 8) = Philop. In Nicom. Isag. 1, 1: «Ebbene, fu chiamata sapienza come se fosse una sorta di
chiarezza, sul presupposto che rende chiara ogni cosa. E questo chiarore è stato così chiamato in quanto, a causa della luminosità e della luce, è alcunché di luminoso, per il fatto di portare alla luce le cose che sono nascoste. Poiché dunque, come dice Aristotele, le cose intellegibili e divine, anche se secondo la loro essenza sono le più manifeste, ci sembrano buie ed oscure a causa della caligine del corpo che ci sta addosso, hanno logicamente denominato sapienza la conoscenza che ce le porta alla luce». Cfr. anche fr. 15 (R2 45, R3 15, W 15) = Synes. Dio, X, 48°: «Come ritiene Aristotele, gli iniziati non devono imparare alcunché, ma provare sentimenti e porsi in uno stato d’animo essendone evidentementte adatti».
Siamo insomma dinanzi ad una tipologia di sublime simile a quella descritta dall’anonimo autore del trattato Sul sublime ai capitoli 9.8-9 (subito dopo il passaggio teomachico sopra citato), dove la potenza della divinità e la maestà della natura si rivelano.
Tuttavia a mio parere, olte ai passi citati, è possibile chiamare in causa un’altra possibile fonte letteraria dello scenario finale d’illuminazione dei vv. 1113-1117 del primo libro: si tratta della similitudine finale dell’ottavo libro dell’Iliade. Qui Omero paragona i “mille fuochi troiani che ardevano nella pianura” ad un cielo illuminato dalle stelle, che rischiara la notte (vv. 555-561):
555 ὡς δ᾽ ὅτ᾽ ἐν οὐρανῷ ἄστρα φαεινὴν ἀμφὶ σελήνην φαίνετ᾽ ἀριπρεπέα, ὅτε τ᾽ ἔπλετο νήνεμος αἰθήρ: ἔκ τ᾽ ἔφανεν πᾶσαι σκοπιαὶ καὶ πρώονες ἄκροι καὶ νάπαι: οὐρανόθεν δ᾽ ἄρ᾽ ὑπερράγη ἄσπετος αἰθήρ, πάντα δὲ εἴδεται ἄστρα, γέγηθε δέ τε φρένα ποιμήν: 560 τόσσα μεσηγὺ νεῶν ἠδὲ Ξάνθοιο ῥοάων Τρώων καιόντων πυρὰ φαίνετο Ἰλιόθι πρό. «Come le stelle in cielo, intorno alla luna lucente, brillano ardendo, se l’aria è priva di venti;
si scoprono tutte le cime e gli alti promontori e le valli; nel cielo si rotto l’etere immenso, si vedono tutte le stelle; gioisce in cuore il pastore; tanti così, fra le navi e lo Xanto scorrente
lucevano i fuochi accesi dai Teucri davanti a Ilio».
Per comprendere meglio la relazione tra i due passi appare utile chiamare in causa l’incipit del terzo libro del De rerum natura. Qui il poeta, per descrivere la visione luminosa e celeste dischiusa da Epicuro, asserisce che «fuggono i terrori dell’animo, si aprono le mura del mondo», così da vedere la realtà attraverso lo spazio vuoto: le splendenti sedi degli dèi negli intermundia. Parimenti, nel finale del primo libro, la scoperta delle realtà ultime (atomi e vuoto) sembra resa possibile dallo scenario apocalittico precedente, che implica l’infrazione dei moenia mundi: il cielo si apre e si può scorgere ogni cosa, poiché le luci si moltiplicano, illuminando persino gli ultima naturai. Tale “catena” di luci ha una valenza positiva, indicando il “trionfo” dell’animo umano sui misteri del cosmo e anticipa l’incipit del secondo libro, dove si evidenzia la natura suave della contemplazione del mondo dall’alto dei templa del sapere.
Si riconsideri ora il finale omerico. Qui “l’etere immenso si rompe” (ὑπερράγη ἄσπετος αἰθήρ): il dischiudersi della volta celeste è vista come una “rottura”, che permette di vedere ogni cosa (πάντα δὲ εἴδεται ἄστρα), in cielo e in terra (cfr. Lucr. pervideas), scacciando la tenebra della notte (cfr. 8, 554 εἴατο παννύχιοι, πυρὰ δέ σφισι καίετο πολλά; Lucr. neque nox eripiet…).
Se tale impressione fosse esatta167, si potrebbe concludere che Lucrezio sostituisce al concreto notturno omerico, un quadro d’illuminazione spirituale. Ai Troiani μέγα φρονέοντες del v. 553 corrisponde così la magnitudo animi di Epicuro, che allontana le tenebre dello spirito. La gioia del destinatario del poema lucreziano, beneficiario di tale “illuminazione”, è comparabile alla gioia del pastore che “gode nel cuore” nel contemplare il cosmo (v. 559, γέγηθε δέ τε φρένα ποιμήν).
Quanto mostrato sino ad ora conferma l’idea che il sublime escatologico lucreziano è fondato su una pluralità di toni e livelli stilistici: denominatore comune di questa varietas è però la gravitas del vate epicureo, «l’ἐνθουσιασμός che lo tiene, l’ardore della sua missione didattica e la coscienza della sua dignità di poeta», come afferma Conte.