2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.3 La sezione conclusiva del primo libro (vv 1052-1117)
2.3.4 Le fonti stoiche
Gli stoici e l’eternità del mondo
Come si è visto, sin da Bignone e Furley parte della critica lucreziana ha escluso gli stoici dal novero degli obbiettivi polemici del finale del primo libro del De rerum natura. La prima ragione addotta si fonda sul fatto che gli stoici sostengono la teoria della ecpirosi, e che quindi parrebbe più
verosimile che qui Lucrezio si rivolga contro scuole filosofiche che affermano invece l’incorruttibilità e l’eternità del cosmo (peripatetici in primis). Tuttavia gli stoici non possono essere inclusi così facilmente tra coloro che “dichiarano la morte del cosmo”: persino Filone Alessandrino, pur tendendo (sempre nel trattato De aeternitate mundi) a contrapporre frontalmente le due scuole, è obbligato a riconoscere come gli stoici possano essere considerati assertori dell’eternità e al contempo assertori della mortalità del cosmo (Phil. aet. 8):
Οἱ δὲ Στωικοὶ κόσμον μὲν ἕνα, γενέσεως δ' αὐτοῦ θεὸν αἴτιον, φθορᾶς δὲ μηκέτι θεόν, ἀλλὰ τὴν ὑπάρχουσαν ἐν τοῖς οὖσι πυρὸς ἀκαμάτου δύναμιν χρόνων μακραῖς περιόδοις ἀναλύουσαν τὰ πάντα εἰς ἑαυτήν, ἐξ ἧς πάλιν ἀναγέννησιν κόσμου συνίστασθαι προμηθείᾳ τοῦ τεχνίτου. Δύναται δὲ κατὰ τούτους ὁ μέν τις κόσμος ἀίδιος, ὁ δέ τις φθαρτὸς λέγεσθαι, φθαρτὸς μὲν ὁ κατὰ τὴν διακόσμησιν, ἀίδιος δὲ ὁ κατὰ τὴν ἐκπύρωσιν παλιγγενεσίαις καὶ περιόδοις ἀθανατιζόμενος οὐδέποτε ληγούσαις. «Gli Stoici affermano che il mondo è uno e che dio è la causa della della sua nascita, ma non della sua distruzione: essa è provocata dalla potenza del fuoco inesausto che, nei grandi cicli temporali, dissolve in sé ogni cosa e da cui poi di nuovo il cosmo si rigenera per provvidenza dell’artefice. Secondo costoro è possibile dunque che il cosmo sia definito eterno e mortale al contempo: mortale in relazione al suo ordinamento, eterno in relazione all’immortalità ottenuta dagli incessanti cicli di rigenerazione mediante l’ecpirosi».
Il mondo è dunque al contempo mortale (φθαρτὸς) ed eterno (ἀίδιος), se considerato in relazione al perenne ciclo di rinascita cui è soggetto. Tale duplicità è evidente ad esempio nell’opera di Crisippo, che - pur sostenendo la teoria dell’ecpirosi127 – afferma, sotto un altro profilo, la capacità della sua essenza di seguitare ad esistere nel corso dell’eternità, oltre i cicli di conflagrazione e diacosmesi, come riporta puntualmente Plutarco in De Stoicorum repugnantiis 1054B-D:
Ὅτι τοῦ κόσμου κενὸν ἐκτὸς ἄπειρόν ἐστι, τὸ δ'ἄπειρον οὔτ' ἀρχὴν οὔτε μέσον οὔτε τελευτὴν ἔχει, πολλάκις ὑπ' αὐτοῦ λέγεται. Καὶ τούτῳ μάλιστα τὴν λεγομένην ὑπ' Ἐπικούρου (fr. 299) τῆς ἀτόμου κάτω φορὰν ἐξ αὑτῆς ἀναιροῦσιν, οὐκ οὔσης ἐν ἀπείρῳ διαφορᾶς, καθ'ἣν τὸ μὲν ἄνω τὸ δὲ κάτω νοεῖται γινόμενον. Ἀλλ' ἔν γε τῷ τετάρτῳ περὶ Δυνατῶν μέσον τινὰ τόπον καὶ μέσην χώραν ὑποθέμενος ἐνταῦθά φησιν ἱδρῦσθαι τὸν κόσμον· ἔστι δ' ἡ λέξις αὕτη· ‘διὸ καὶ ἐπὶ τοῦ κόσμου εἰ ῥητέον φθαρτὸν εἶναι αὐτόν, λόγου οἴομαι δεῖσθαι. Οὐ μὴν ἀλλὰ καὶ μᾶλλον ἐμοὶ φαίνεται οὕτως ἔχειν. Οἵα τε δ' εἰς τὴν ὥσπερ ἀφθαρσίαν πολύ τι αὐτῷ συνεργεῖν καὶ ἡ τῆς χώρας κατάληψις, οἷον διὰ τὸ ἐν μέσῳ εἶναι· ἐπεί, εἰ ἀλλαχῆ νοηθείη ὤν, καὶ παντελῶς ἂν αὐτῷ συνάπτοι ἡ φθορά’. καὶ μετὰ μικρὸν αὖθις· ‘οὕτω γάρ πως καὶ ἡ οὐσία συντέτευχεν ἀιδίως τὸν μέσον κατειληφυῖα τόπον, εὐθὺς τοιάδε τις οὖσα ὥστε <καὶ> καθ' ἕτερον τρόπον, ἀλλὰ καὶ διὰ τὴν συντυχίαν μὴ ἐπιδέχεσθαι αὐτὴν φθοράν, καὶ κατὰ τοῦτ' εἶναι ἀίδιον.’
«Più volte egli [Crisippo] afferma che il vuoto al di fuori del mondo è infinito e che l’infinito non ha né principio né centro né fine. E con questo confutano soprattutto la teoria sostenuta da Epicuro (fr. 299) del movimento atomico diretto verso il basso, poiché nell’infinito non vi è differenza che distingua ciò che si trova in alto da ciò che si trova in basso. Tuttavia nel quarto libro del trattato Περὶ Δυνατῶν (Sui Possibili), supponendo l’esistenza di un qualche luogo centrale e di una regione intermedia, afferma che in quel punto ha sede il cosmo; la sua affermazione è la seguente: “Pertanto
anche riguardo al cosmo, se si deve dire che esso è corruttibile, ritengo che vi sia necessità di una ragione. Nondimeno tanto più a me pare che la situazione sia invece questa, ossia che l’occupazione
della regione che si trova proprio nel mezzo contribuisca all’affermazione dell’incorruttibilità del mondo; poiché, se esso fosse concepito altrove, sarebbe assolutamente colpito dalla rovina”. E poco
più avanti, di nuovo: “Così infatti in qualche modo la sostanza si trova ad aver occupato per l’eternità la regione centrale, ed è pertanto tale, sotto un altro aspetto, e anche per tale congiuntura, che non è destinata alla rovina, ma proprio per questo è eterna”».
Il passo plutarcheo appena citato è fondamentale, perché, se considerato congiuntamente con il frammento di Zenone più volte citato nei capitoli precedenti (S.V.F. I, 99 = Stobaeus Ecl. I 19, 4 p. 166,4 W.)128, dimostra come già i primi maestri della Stoà, pur sostenendo la teoria dell’ecpirosi, non abbiano rinunciato a difendere l’idea della stabilità dell’ordine cosmico, dovuto al fatto che ciò che esiste si trova nella posizione centrale dell’universo (διὰ τὸ ἐν μέσῳ εἶναι): in sostanza, l’eterna permanenza del cosmo (cfr. εἰς τὴν ὥσπερ ἀφθαρσίαν)129 – al di là dei suoi cicli di ecpirosi e di rinascita – è resa possibile dalla sua centralità. Degno di nota pare inoltre il fatto che Plutarco metta in rilievo come tali teorie stoiche siano state elaborate da Crisippo in polemica con l’idea epicurea del movimento atomico diretto verso il basso.
Questi passi dimostrano come l’assenza di riferimenti alla teoria dell’ecpirosi non sia ragione sufficiente per escludere i maestri dell’antica Stoà dal novero degli obbiettivi polemici di Lucrezio, poiché anch’essi difesero la dottrina dell’ordine e della permanenza del cosmo, a partire proprio dalla sua tendenza a occupare la posizione centrale, mentre gli elementi si dispongono dal centro alla periferia in relazione al proprio grado di leggerezza.
Infine pare opportuno infine ricordare che la convergenza tra scuola stoica e scuola peripatetica a proposito di queste dottrine si approfondì nel corso del tempo: difatti, come ricorda sempre Filone (aet. 76-78), alcuni maestri stoici dei secoli II e I a.C. (in primis Panezio, ma anche i meno noti Boeto e Diogene) aderirono alla dottrina peripatetica dell’eternità del mondo, rinunciando alla teoria della ecpirosi. Non è un caso che Filone definisca i maestri della Stoà di mezzo “vinti” dalle argomentazioni del peripatetico Critolao (νικηθέντες δὲ ὑπὸ τῆς ἀληθείας καὶ τῶν ἀντιδοξούντων ἔνιοι μετεβάλοντο) e perciò pronti ad accogliere la dottrina dell’eternità del mondo. La conseguenza è che anche questi maestri stoici accolgono la dottrina dell’ordine del cosmo e dell’impossibilità di una dispersione dei suoi elementi (cfr. Phil. aet. 79-80):
Ποίῳ δὴ τούτων ἄξιον τὸν κόσμον φθείρεσθαι φάναι; τῷ κατὰ διαίρεσιν; ἀλλ' οὔτε ἐκ διεστηκότων ἐστίν, ὡς τὰ μέρη σκεδασθῆναι, οὔτε ἐκ συναπτομένων, ὡς διαλυθῆναι, οὔτε τὸν αὐτὸν τρόπον τοῖς ἡμετέροις ἥνωται σώμασι· τὰ μὲν γὰρ ἐπικήρως τε ἐξ ἑαυτῶν ἔχει καὶ δυναστεύεται πρὸς μυρίων ὑφ' ὧν βλάπτεται, τοῦ δ' ἀήττητος ἡ ῥώμη πολλῇ τινι περιουσίᾳ πάντων κατακρατοῦσα.
128 Per una presentazione di tale passo, cfr. anche Rist 1978 pp. 173 ss.
129 Cfr. pure SVF 2, 551: τὸν κόσμον ἐν μέσῳ φησὶν ἱδρῦσθαι καὶ τὴν οὐσίαν αὐτοῦ τὸν μέσον τόπον ἀιδίως κατειληφυῖαν
«Quale di queste cause è degna di distruggere il mondo? Quella per divisione? Ma il mondo non è composto da parti separate, così che le sue parti possano disperdersi, né da parti unite, così che esse possano dissolversi, né alla maniera dei nostri corpi; esso sono infatti di per sé mortali e sottoposti al potere di mille agenti che possono danneggiarli; invece la forza del mondo è invicibile per una certa natura di gran lunga superiore, che ha il dominio su tutto».
Lo stoicismo è inoltre l’unica scuola filosofica a cui può essere rinfacciata la contraddizione messa in evidenza da Lucrezio: stabilità del mondo dovuta al moto centripeto di tutti gli elementi (vv. 1054-1056), ma, al contempo, riconoscimento della tendenza centrifuga di aria e fuoco (vv. 1083 ss.). Nel passo zenoniano sopra citato, infatti, si afferma che tutti gli elementi tendono verso il centro (πάντα τὰ μέρη τοῦ κόσμου ἐπὶ τὸ μέσον τοῦ κόσμου τὴν φορὰν ἔχειν), ma che quelli privi di peso (ἀβαρῆ), ossia aria e fuoco, pur tendendo al centro, si dispongono nella fascia più alta ed esterna della sfera cosmica (τείνεσθαι δὲ καὶ ταῦτά πως ἐπὶ τὸ τῆς ὅλης σφαίρας τοῦ κόσμου μέσον, τὴν δὲ σύστασιν πρὸς τὴν περιφέρειαν αὐτοῦ ποιεῖσθαι).
Il nutrimento dei corpi astrali
A partire dal sopracitato studio di Furley, buona parte dei recenti interpreti del finale lucreziano ha escluso gli stoici dal novero degli obbiettivi polemici, approvando l’idea che la dottrina del nutrimento astrale esposta ai vv. 1088-1091 sia inconciliabile con la dottrina stoica. Lucrezio sembra infatti parlare di un nutrimento dovuto al moto ascendente del calore, mentre, secondo gli stoici, i corpi celesti sono nutriti dall’umidità esalata dalle acque terrestri. Così sunteggia Sedley130: «It seems to have gone unremarked that one feature of the theory, item (d), is definitely not Stoic. There is abundant evidence that the Stoics held that the heavens are nourished by moisture evaporating from terrestrial waters, and not by fire».
Queste considerazioni spingono Sedley ad escludere una fonte stoica e a ricercare la dottrina confutata da Lucrezio nel Timeo (63b 2-4), dove Platone parla del luogo del cosmo “toccato soprattutto dalla natura del fuoco e dove ogni fuoco tende”. Tuttavia, come notato da Salemme, il passo platonico non sembra descrivere altro che «un tendere del simile verso il simile», senza riferimenti espliciti al nutrimento dei corpi celesti. Anche Lévy131, pur più vicino alle posizioni di Schmidt, accetta l’esclusione degli Stoici e cita come prova di ciò un passo del De natura deorum di Cicerone (2.40 cum sol igneus sit Oceanique alatur umoribus) che mette in rilievo la natura umida del cibo astrale.
130 Cfr. Sedley 1998 p. 79. 131 Cfr. Lévy 1999 pp. 91 ss.
Sulla scorta di Sedley, anche Salemme esclude che l’obbiettivo polemico siano gli stoici «secondo cui i corpi celesti sono nutriti dall’umidità esalante dalle acque terrestri». Lo studioso italiano propone invece che la dottrina spiegata da Lucrezio sia epicurea (cfr. ep. Pyth. 93, Lucr. 1, 231). Nell’ottica dell’approccio scientifico epicureo delle “spiegazioni multiple”, infatti, i filosofi del Giardino sembrano contemplare la possibilità che il sole e i corpi celesti si nutrano del fuoco proveniente dal basso.
Questa posizione potrebbe essere condivisa qualora l’insieme delle teorie esposte ai vv. 1089 ss. riproducesse fedelmente i principi della fisica epicurea, come pensa Salemme. Tuttavia mi pare che i dati testuali rivelino un’altra realtà, poiché la teoria del nutrimento astrale è presentata come naturale conseguenza della teoria che Lucrezio desidera si appresta a confutare (cfr. vv. 1089 atque
ideo): pertanto sembra poco probabile che i vv. 1089 ss. costituscano lo “svolgimento” epicureo di
una teoria avversaria. Si deve dunque accettare per forza la proposta di Sedley? Una riconsiderazione dei versi in esame potrebbe indurre ad una conclusione diversa:
Praeterea quoniam non omnia corpora fingunt in medium niti, sed terrarum atque liquoris
1085 umorem ponti magnasque e montibus undas,
et quasi terreno quae corpore contineantur, at contra tenuis exponunt aeris auras
et calidos simul a medio differrier ignis,
atque ideo totum circum tremere aethera signis
1090 et solis flammam per caeli caerula pasci,
quod calor a medio fugiens se ibi conligat omnis
Il passo appena citato può essere suddiviso in due parti: la prima enuclea la dottrina del “doppio movimento”, opponendo al moto centripeto di acqua e terra (vv. 1084-1086 terrarum atque
liquoris) il moto centrifugo di aria e fuoco (vv. 1087-1088 tenuis aeris auras; calidos ignis). La
seconda parte evidenzia che i sostenitori di tale dottrina presentano questi moti come ragione della formazione e del nutrimento degli astri e del sole, poiché il calor, fuggendo dalla zona centrale, si raccoglie tutto in quel punto elevato. Siamo sicuri che questa affermazione implichi il fatto che i corpi celesti siano nutriti direttamente dai fuochi terreni?
Si consideri nuovamente uno dei passi ciceroniani nel secondo libro del De natura deorum (118), dove lo stoico Balbo definisce le modalità di nutrimento dei corpi celesti secondo la Stoà132:
Sunt autem stellae natura f l a m m e a e; quocirca terrae maris aquarum[que reliquarum] vaporibus aluntur is, qui a sole ex agris tepefactis et ex aquis excitantur; quibus altae renovataeque stellae
132 Cfr. Pease 1958 ad loc. La traduzione italiana di riferimento dei passi del De natura deorum citati è quella di Cesare
atque omnis aether effundunt eadem et rursum trahunt indidem, nihil ut fere intereat aut admodum paululum, quod astrorum ignis et aetheris flamma consumat.
«Le stelle sono di natura ignea; per questo si nutrono dei vapori provenienti dalla terra, dal mare e dalle altre acque, che, scaldati dal sole, vengono sollevati dai campi e dalle acque; le stelle e l’intero cielo, nutriti e rinnovati, diffondono i medesimi vapori e di nuovo li traggono dal medesimo luogo, cosicché quasi nulla perisca oppure solo una piccolissima parte, consumata dai fuochi degli astri e dalla fiamma dell’etere».
Come sottolineato da Cicerone, ciò che nutre i corpi celesti sono i vapores sollevati dal calore del sole: evidentemente tali vapori non possono essere di natura liquida, altrimenti non potrebbero sollevarsi al di sopra del livello delle terre e delle acque; questi sono pertanto di natura mista, e il loro moto ascensionale dimostra che essi sono mossi dal calore sino alla loro sede naturale, dove divengono il nutrimento dei corpi celesti133. Pertanto nulla vieta d’interpretare il calor indicato da Lucrezio al v. 1091 come sinonimo del vapor del passo ciceroniano134, ovverosia l’umido calore che promana dalle acque del mondo e va a nutrire i corpi celesti. A dimostrazione di questa tesi si può chiamare in causa un altro importante passo del secondo libro del De natura deorum (23-28), che, data la sua importanza, verrà riportato per intero:
Sic enim res se habet, ut omnia, quae alantur et quae crescant, contineant in se vim caloris, sine qua neque ali possent nec crescere. Nam omne quod est calidum et igneum cietur et agitur motu suo; quod autem alitur et crescit motu quodam utitur certo et aequabili; qui quam diu remanet in nobis, tam diu sensus et vita remanet, refrigerato autem et extincto calore occidimus ipsi et extinguimur. Quod quidem Cleanthes his etiam argumentis docet, quanta vis insit caloris in omni corpore: negat enim esse ullum cibum tam gravem, quin is nocte et die concoquatur; cuius etiam in reliquiis inest calor iis, quas natura respuerit. Iam vero venae et arteriae micare non desinunt quasi quodam igneo motu, animadversumque saepe est, cum cor animantis alicuius evolsum ita mobiliter palpitaret, ut imitaretur igneam celeritatem. Omne igitur, quod vivit, sive animal, sive terra editum, id vivit propter inclusum in eo calorem, ex quo intellegi debet eam caloris naturam vim habere in se vitalem per omnem mundum pertinentem. (…) Omnes igitur partes mundi (tangam autem maximas) calore fultae sustinentur. Quod primum in terrena natura perspici potest. (…) longa est oratio multaeque rationes, quibus doceri possit omnia, quae terra concipiat, semina quaeque ipsa ex se generata stirpibus infixa contineat ea temperatione caloris et oriri et augescere. (…) ipse vero aer, qui natura est maxime frigidus, minime est expers caloris; ille vero et multo quidem calore admixtus est: ipse enim oritur ex respiratione aquarum;earum enim quasi vapor quidam aer habendus est, is autem existit motu eius caloris, qui aquis continetur, quam similitudinem cernere possumus in his aquis, quae effervescunt subiectis ignibus. Iam vero reliqua quarta pars mundi: ea et ipsa tota natura fervida est et ceteris naturis omnibus salutarem inpertit et vitalem calorem. Ex quo concluditur, cum omnes mundi partes sustineantur calore, mundum etiam ipsum simili parique natura in tanta diuturnitate servari, eoque
133 Cfr. Cleante in S.V.F 1, 501 (= Aetius II 20, 4) <Κλεάνθης> ἄναμμα νοερὸν τὸ ἐκ θαλάττης τὸν ἥλιον; e la definizione
della ἀναθυμίασις data da Aetius II 23, 5: Περὶ δὲ τῶν τροπῶν φασι κατὰ τὸ διάστημα τῆς ὑποκειμένης τροφῆς· ὠκεανὸς δ' ἐστὶ ** ἧς τὴν ἀναθυμίασιν ἐπινέμεται. Συγκαταφέρεσθαι δὲ τὸν ἥλιον κινούμενον ἕλικα ἐν τῇ σφαίρᾳ, ἀπὸ τοῦ ἰσημερινοῦ ἐπί τε ἄρκτου καὶ νότου, ἅπερ ἐστὶ πέρατα τῆς ἕλικος· ἄλλοι δὲ ἐπ' εὐθείας αὐτὸν κινεῖσθαι τὴν ἕλικα οὐ περὶ σφαῖραν ποιοῦντα, περὶ δὲ κύλινδρον. Per un richiamo ai principali passi concernenti questo fenomeno cfr. Pease 1958 pp. 635-636.
134 Cfr. Lucr. 3.232-234: Nec tamen haec simplex nobis natura putanda est. / tenvis enim quaedam moribundos deserit
magis, quod intellegi debet calidum illud atque igneum ita in omni fusum esse natura, ut in eo insit procreandi vis et causa gignendi, a quo et animantia omnia et ea, quorum stirpes terra continentur, et nasci sit necesse et augescere.
«Così infatti stanno le cose: tutto ciò che è nutrito e che cresce contiene in sé la forza del calore, senza la quale non può né essere nutrito né crescere. Infatti tutto ciò che è caldo ed igneo viene mosso e spinto secondo il proprio moto; inoltre ciò che è nutrito e cresce ha un moto definito e costante: esso rimane in noi per tutto il tempo che restano in noi la vita e la sensibilità: quando poi il calore si raffredda e si dissolve, noi stessi veniamo meno e ci spegnamo. Invero Cleante insegna questa verità e quanto grande sia in ogni corpo la forza del calore appoggiandosi ai seguenti argomenti: nega infatti che esista alcun cibo così indigesto, che non possa essere assimilato dal calore nel corso del giorno e della notte; e il suo calore permane anche nelle parti restanti, che la natura ha provveduto a rigettare. E invero le vene e le arterie non cessano di palpitare con moto quasi igneo e sovente è stato notato che il cuore di un qualche essere vivente – strappato dal petto – palpitava con tale frequenza da imitare la rapidità del fuoco. Ogni essere vivente, o animale o spuntato dal suolo, vive per il calore racchiuso in esso: da ciò si deve comprendere che la natura del calore ha in sé una forza vitale che mantiene attraverso il mondo intero (…) Pertanto tutte le parti del mondo (affronterò infatti le più importanti) sono sostentate perché animate dal calore. Ciò si può notare innanzitutto nella natura della terra. Sarebbe lungo il discorso volto a spiegare come tutto ciò che viene concepito dalla terra, persino i semi e le piante che essa contiene, da lei generati e fissati al suolo dalle radici, sorgono e si accrescono grazie all’azione del principio ordinatore del fuoco. (…) l’aria stessa invero, che per natura è l’elemento più freddo, non è per niente sprovvisto di calore; anzi, esso è invero commisto a molto calore: esso stesso infatti, sorge, dalla evaporazione delle acque; l’aria può essere infatti considerata per così dire il vapore delle acque ed esso è sorto per il movimento di quel calore che è contenuto nelle acque: possiamo constatare un fenomeno analogo nell’acqua, quando è spinta a bollire dal fatto che il fuoco viene posto sotto di essa. Manca la quarta parte del mondo: essa è per natura del tutto infuocata e distribuisce alle altre parti del mondo il calore vivificante e ravvivante. A partire da quanto detto, si può concludere che, poiché le parti del mondo sono tutte sostentate dal calore, anche il mondo stesso è conservato nel corso di un periodo di tempo così esteso: tanto più poiché si deve capire che quell’elemento caldo e igneo pervade a tal punto la natura che in esso vi è la forza generativa e la ragione della generazione; infine da esso è inevitabile che nascano e crescano sia tutti gli esseri viventi, sia quelli le cui radici sono fisse nella terra».
In questo passo lo stoico Balbo, richiamando le teorie di Cleante, evidenzia come ogni essere vivente sia generato e nutrito dalla vis caloris. Il calor promana dalla terra e dall’acqua e, divenuto
vapor, giunge infine nel suo moto ascendente a nutrire la quarta parte del mondo, ovverosia lo spazio
celeste. Del resto anche Lucrezio nel suo passo sottolinea come il calor giunga al cielo grazie non solo al moto ascensionale del fuoco, ma anche grazie al moto ascensionale dell’aria (vv. 1087-1089
at contra tenuis exponunt aeris auras / et calidos simul a medio differrier ignis, / atque ideo). Questo
passo ciceroniano è di enorme rilevanza perché Balbo per ben tre volte ribadisce che l’impulso della
vis caloris può spiegare la generazione delle piante e la loro crescita a partire del suolo (sive terra editum, quaeque ipsa [terra] ex se generata stirpibus infixa contineat; et ea quorum stirpes terra continentur)135; tale costante richiamo potrebbe forse spiegare la ragione per cui Lucrezio nei vv.
1092-1093 alluda parimenti al nutrimento e alla crescita delle piante a partire dalla terra (nec prorsum
arboribus summos frondescere ramos / posse, nisi a terris paulatim cuique cibatum).
Per giunta, un’altra sequenza argomentativa analoga a quella presentata da Lucrezio si trova pure nei cap. 115-118 del De natura deorum. Qui Balbo vuole dimostrare la stabilità del mondo e la sua propensione ad permanendum. Tale condizione è resa possibile dal fatto che tutte le parti del mondo tendono egualmente verso il centro e così, stringendosi tra loro (inter se iuncta) in una sorta di vincolo, permettono la permanenza del mondo136. Tale teoria corrisponde in toto alla teoria che Lucrezio confuta ai vv. 1053-1056 in medium summae, quod dicunt, omnia niti / atque ideo mundi
naturam stare sine ullis /ictibus externis neque quoquam posse resolvi /summa atque ima, quod in medium sint omnia nixa, (ipsum si quicquam posse in se sistere credis). Si noti come il ciceroniano omnes partes eius [scil. mundi] permetterebbe di spiegare l’omnia lucreziano, dichiarando valida la
spiegazione di Schmidt e confutando quella di Furley, Sedley e Salemme.
Nella trattazione di Balbo non si trova una confutazione della dottrina degli Antipodi, tuttavia essa è in qualche modo implicita nell’asserzione si mundus globosus est che evoca l’immagine di una terra sferica e dunque capace di ospitare regioni antipodiche rispetto alla nostra. Si noti inoltre che, come Lucrezio (v. 1058 quae pondera; v. 1078 ponderis), anche Cicerone insista sul concetto dei pesi che convergono verso il centro (cfr. tanta contentio gravitatis et ponderibus).
Infine, quando discute del moto dell’acqua verso il centro, Cicerone chiama in causa l’exemplum del mare, che si raduna come una sfera attorno alla terra. Tale considerazione è preziosissima, poiché consente di “salvare” il v. 1085 di Lucrezio umorem ponti magnasque e
montibus undas137; Salemme, infatti, sulle orme di Deufert, propone l’espunzione di questo verso sulla base di queste considerazioni:
«Il v. 1086 [1085 nella versione da me accettata] spiega liquoris (ma in che modo? con le acque del mare che chiaramente non tendono verso il centro? o con le acque che scendono dai monti, modalità