2. LA FINE DEL MONDO NELLA PRIMA DIADE DEL DE RERUM NATURA
2.5 Il finale del secondo libro
2.5.6 Le fonti peripatetiche di Lucrezio alla base delle polemiche anti-stoiche del secondo libro
L’ipotesi dell’utilizzo, da parte di Lucrezio, di fonti dossografiche peripatetiche induce a supporre che le argomentazioni anti-stoiche appena citate possano essere state mutuate dalle medesime fonti peripatetiche. Si considerino, ad esempio, le affermazioni di Critolao relative alla generazione degli uomini da parte della Madre-terra: il filosofo polemizza contro l’interpretazione allegorica del mito degli Sparti, visto come simbolo della generazione dell’umanità dalla terra e poi accusa di “terribile stoltezza” (εὐήθεια δεινὴ) coloro che considerano la terra una “madre (…) provvista di mammelle come una donna” e per questo capace di generare e nutrire il genere umano228. È evidente come qui la critica peripatetica si estenda alla pratica stoica dell’allegoresi, non soltanto in relazione al mito degli Sparti, ma anche al mito della terra come Magna-mater. Del resto, un passo dal Compendio di Teologia greca dello stoico Cornuto229 dimostra come gli stoici avessero allegorizzato la figura di Cibele, mettendo in relazione tale mito con il tema della stabilità del cosmo e della generazione del mondo stesso e degli esseri viventi. Nulla vieta di supporre che alla polemica lucreziana contro il culto della Magna Mater e la sua allegoresi abbia potuto contribuire anche la polemica antistoica presente in Critolao.
Come si è visto, Critolao, criticando l’escatologia stoica, richiama polemicamente il concetto stoico di εἱμαρμένη, ricondotto etimologicamente al sostantivo εἱρμός, in quanto “catena di cause”. È noto che gli Stoici interpretassero allegoricamente il mito omerico dell’incatenamento di Era da parte di Zeus mediante una catena dorata (Il. 15, 18 ss.) proprio in riferimento all’ εἱμαρμένη e alla costruzione ordinata, razionale e provvidenziale della natura del cosmo230. La catena dorata viene così messa in relazione con la luminosità dei corpi celesti (cfr. Cornut. τῷ χρυσοφανές τι ἔχειν τὰ ἄστρα) e dunque con il fuoco etereo (cfr. Heracl. All. αἰθέριον πῦρ), che coincide con Zeus, ovverosia
228 Cfr. Phil. aet. 55 ss., in particolare 66 ὅλως τοῦτ' οὐκ εὐήθεια δεινὴ μήτραν ὑπολαμβάνειν γῆν ἐγκεκολπίσθαι πρὸς
ἀνθρώπων σποράν; τὸ γὰρ ζῳογονοῦν χωρίον ἐστὶ μήτρα, “φύσεως”, ὡς εἶπέ τις, “ἐργαστήριον”, ἐν ᾧ ζῷα μόνον διαπλάττεται· τὸ δὲ οὐ γῆς μέρος ἐστίν, ἀλλὰ ζῴου θήλεος, δημιουργηθὲν εἰς γένεσιν· ἐπεὶ καὶ μαζοὺς καθάπερ γυναικὶ γῇ φατέον ἡνίκα ἠνθρωπογόνει προσγενέσθαι, τροφὴν ἵν' ἔχωσιν οἰκείαν οἱ πρῶτον ἀποκυηθέντες·
229 Cfr. Cornut. Compend. Theol. Gr. 6-7 πυργωτὸν δὲ περί κειται στέφανον ἤτοι διὰ τὸ καταρχὰς ἐπὶ τῶν ὀρῶν τίθεσθαι
τὰς πόλεις ὀχυρότητος ἕνεκεν ἢ ἐπεὶ ἀρχηγός ἐστι τῆς πρώτης καὶ ἀρχετύπου πόλεως, τοῦ κόσμου (…) εἶτα τὴν Ῥέαν φασὶν γεννωμένου αὐτῇ τοῦ Διὸς λίθον ἀντ' αὐτοῦ προσενεγκεῖν ἐσπαργανωμένον τῷ Κρόνῳ, τοῦτον εἰποῦσαν τετοκέναι· κἀκεῖνον μὲν καταποθῆναιὑπ' αὐτοῦ, τὸν δὲ Δία λάθρα τραφέντα βασιλεῦσαιτοῦ κόσμου. Ἐνταῦθ' οὖν ἄλλως εἴληπται ἡ κατάποσις· συντέτακται γὰρ ὁ μῦθος περὶ τῆς τοῦ κόσμου γενέσεως, ἐν ᾧ τότε ἀνετράφη ἡ διοικοῦσα αὐτὸν φύσις καὶ ἐπεκράτησεν, ὅτε εἰς τὸ μεσαίτατον αὐτοῦ ὁ λίθος οὗτος, ὃν καλοῦμεν γῆν, οἱονεὶ καταποθεὶς ἐγκατεστηρίχθη. «». Per quanto concerne invece l’interpretazione stoica del mito degli Sparti, cfr. Cicerone De legibus 1.24.
230 Cfr. Ramelli-Lucchetta, Allegoria. Volume I. L’età classica. Introduzione e cura di Roberto Radice, Milano 2004, p.
124 ss., dove si mostra che tale lettura allegorica risale con ogni probabilità a Crisippo. Cfr. Cornut. 17 ἔοικε γὰρ ὁ ποιητὴς μυθοῦ [τε] παλαιοῦ παραφέρειν τοῦτο ἀπόσπασμα, καθ' ὃν ὁ Ζεὺς ἐμυθεύετο κεκρεμακέναι τε ἐκ τοῦ αἰθέρος τὴν Ἥραν χρυσαῖς ἁλύσεσι τῷ χρυσοφανές τι ἔχειν τὰ ἄστρα καὶ ἐκ τῶν ποδῶν αὐτῆς δύο ἄκμονας ἐξηρτηκέναι, τὴν γῆν δηλονότι καὶ τὴν θάλατταν, ὑφ' ὧν τείνεται κάτω ὁ ἀὴρ μηδετέρωθεν ἀποσπασθῆναι δυνάμενος; cfr. pure Heraclit. All. 23; 40: «il poeta allude alla natura del cosmo [τὴν κοσμικὴν αἰνίττεται φύσιν], ponendo Zeus il più in alto di tutti, come aria infuocata, ed Era al secondo posto; e dice che è stata nutrita dall’Oceano poiché l’aria deriva dalle esalazioni umide. Chiama “incudini” la terra e il mare e “catena d’oro” il fuoco dell’etere [αἰθέριον πῦρ], poiché l’aria si congiunge con esso nella sua parte più elevata.
con la divinità provvidenziale. Pare pertanto significativo che Lucrezio, proprio nel finale del secondo libro, richiami, anch’egli polemicamente, il mito della catena aurea in relazione alla genesi degli esseri viventi (vv. 1153-1155):
Haud, ut opinor, enim mortalia saecla superne aurea de caelo demisit funis in arva
nec mare nec fluctus plangentis saxa crearunt
Le stirpi mortali non sono “cadute dal cielo” (cfr. pure 5.793-794 nam neque de caelo
cecidisse animalia possunt / nec terrestria de salsis exisse lacunis), fatte discendere da una catena
aurea, ma sono state generate dalla terra soltanto. Alla luce dei passi stoici citati sembra probabile che Lucrezio lanci una polemica allusione all’allegorismo stoico e alla dottrina stoica relativa alla generazione “provvidenziale” degli esseri viventi, scaturiti sì dalla terra, ma grazie all’azione del fuoco etereo, caduto dal cielo. A questo proposito mi pare determinante un passo attribuito a Crisippo (S.V.F II 422 = Philo De visione angeli p. 616 Aucher. Quoniam non corruptibilis ignis erant virtutes,
sed salutaris, per quem omnia artificiose facta sunt. Quare, ut mihi videtur, etiam nonnulli philosophosorum ignem artificialem assemere in viam cadere ad semina in generationem producenda)231. Dunque, ancora una volta la polemica anti-stoica presente nel De rerum natura potrebbe trarre spunto da un richiamo anti-stoico già accennato nella fonte peripatetica del poeta232. Che Lucrezio, pur capovolgendo le tesi di Critolao, ne sfrutti tuttavia gli spunti anti-stoici, soprattutto in contrasto con l’allegorismo della Stoà, sembra confermato da un’altra significativa analogia tra le parole del filosofo peripatetico e i versi del De rerum natura. Si riconsideri infatti l’incipit del passo di Critolao, dove si criticano l’utilizzo e l’interpretazione del mito da parte degli stoici: Ἀίδιος ἄρα καὶ ὁ κόσμος. Τὸ δὲ ὑπερτεθὲν ἤδη κατασκευαστέον, εἰ δεῖ καὶ ἀποδείξεως τοῖς οὕτως ἐμφανέσι· δεῖ δέ, ὡς ἔοικεν, ἕνεκα τῶν μυθοπλαστῶν, οἳ ψευσμάτων ἀναπλήσαντες τὸν βίον ἀλήθειαν ὑπερόριον πεφυγαδεύκασιν, οὐ μόνον πόλεις καὶ οἴκους ἀλλὰ καὶ ἕνα ἕκαστον τοῦ <ἀρίστου> κτήματος χηρεύειν βιασάμενοι καὶ πρὸς τὸ τῆς φράσεως ὁλκὸν μέτρα καὶ ῥυθμοὺς δέλεαρ εἰς ἐνέδραν ἐπινοήσαντες, οἷς ἀφρόνων ὦτα καταγοητεύουσι, καθάπερ ὀφθαλμοὺς αἱ ἄμορφοι καὶ εἰδεχθεῖς ἑταῖραι περιάπτοις καὶ νόθῳ κόσμῳ χηρείᾳ γνησίου.
231 Cfr. Censorin. De die natali 4: Zenon Citieus, stoicae sectae conditor, principium humano generi ex novo mundo
constitutum putavit, primosque homines ex solo adminiculo divini ignis, id est di providentia, genitos. Si noti che, subito
dopo aver riportato la teoria zenoniana, Censorino riporta alcune antropogonie mitiche, tra le quali trova spazio anche il mito degli Sparti, presente anche in Critolao: denique etiam vulgo creditum est, ut plerique genealogiae auctores sunt,
quarundam gentium, quae ex adventicia stirpe non sint, principes terrigenas esse (…) et in Colchide vel Boeotia consitis anguis dentibus armati spartoe, e quibus mutua caede inter se necatis pauci superasse traduntur, qui in conditu Thebarum Cadmo fuerint adiumento.
«Dunque il cosmo è immortale. Ciò che è stato tralasciato ormai verrà spiegato, se necessita di spiegazione una realtà così evidente; una spiegazione è necessaria per i creatori di miti, i quali, colmando la vita d’inganni, hanno bandito la verità, avendo obbligato non solo le città e le dimore, ma addirittura ciascuno, ad essere privo del possesso <migliore> e avendo escogitato, per il fascino dell’espressione, metri e ritmi come esca volta all’inganno; con tali espedienti essi incantano gli orecchi degli stolti, come le etere brutte e laide incantano gli occhi mediante ornamenti e con un trucco posticcio (“da meretrice”), in mancanza di un aspetto genuino».
Si confronti la rappresentazione di Critolao dei mitografi e delle loro strategie d’inganno con la descrizione lucreziana del linguaggio eracliteo (Lucr. 1.635-644):
635 Quapropter qui materiem rerum esse putarunt
ignem atque ex igni summam consistere solo, magno opere a vera lapsi ratione videntur. Heraclitus init quorum dux proelia primus,
clarus <ob> obscuram linguam magis inter inanis
640 quamde gravis inter Graios, qui vera requirunt;
omnia enim stolidi magis admirantur amantque, inversis quae sub verbis latitantia cernunt, veraque constituunt quae belle tangere possunt auris et lepido quae sunt fucata sonore.
«Pertanto coloro che ritennero che il principio generatore della realtà sia il fuoco e che l’universo consista soltanto di fuoco
sembrano caduti lungi dalla verità.
Eraclito, che si avvia alla guerra come comandante di costoro, per primo Illustre per il suo oscuro linguaggio più presso gli stolti tra i Greci, che presso quei saggi che ricercano la verità.
Gli stolti infatti ammirano e amano tutto ciò che vedono nascondersi dietro parole invertite
e definiscono verità ciò che può ammaliare con piacevolezza gli orecchi e che è contraffatto da una sonorità gradevole».
Le corrispondenze tra i due passi sono ancora una volta notevoli:
Tematiche Lucrezio Critolao in Filone
La fuga dalla verità magno opere a vera lapsi ratione videntur
ἀλήθειαν ὑπερόριον
πεφυγαδεύκασιν Stoltezza di coloro che si
lasciano ingannare; gli orecchi “incantati” da un suono piacevole
Stolidi magis admirantur amantque (…) quae belle possunt tangere / auris
πρὸς τὸ τῆς φράσεως ὁλκὸν (…) οἷς ἀφρόνων ὦτα καταγοητεύουσι Le parole “truccate e
imbellettate” come
meretrici per ingannare coloro che ascoltano
et lepido quae sunt fucata sonore
καθάπερ ὀφθαλμοὺς αἱ ἄμορφοι καὶ εἰδεχθεῖς ἑταῖραι περιάπτοις καὶ νόθῳ κόσμῳ χηρείᾳ γνησίου
La notevole corrispondenza tra i due passi induce a sospettare che Lucrezio abbia ripreso le argomentazioni e le espressioni dei vv. 641-644 da Critolao. Se però il filosofo peripatetico indirizza la propria critica contro gli “artefici di miti” (μυθοπλάστης) e contro coloro che di tali miti forniscono un’interpretazione allegorica – ovverosia gli Stoici – Lucrezio si rivolge invece contro un filosofo presocratico, Eraclito. La scelta pare tutt’altro che fortuita: Eraclito è infatti indicato quale dux di una nutrita schiera di pensatori, tutti “scivolati lungi dal vero” (a vera lapsi ratione): il confronto con il passo di Critolao aiuta a comprendere come tale schiera sia da identificare con la scuola stoica, evidenziando l’improbabilità della tesi di quanti asseriscono invece l’assenza di una polemica anti- stoica in questo passo233. Lucrezio sembra infatti aver deliberatamente diretto un’accusa peripatetica rivolta alla Stoà contro colui che dalla Stoà era considerato il prefiguratore ed il capostipite: in questo modo all’attacco ad Eraclito si somma l’affondo nei confronti degli eredi di Eraclito. A conferma di questa lettura si possono chiamare in causa i vv. 644-645 del secondo libro, dove la lettura allegorica del mito e del culto della Magna mater viene definita accattivante ed efficace nella forma poetica, ma del tutto lungi dalla verità (quae bene et eximie quamvis disposta ferantur, / longe sunt tamen a vera
ratione repulsa): oggetto di tale obiezione sono verosimilmente in primis gli stoici, eredi di Eraclito.
Né pare un caso che la iunctura “magno opere a vera lapsi ratione videntur”, oltre che in riferimento agli eredi di Eraclito nel passo del primo libro sopracitato, ricorra soltanto in un altro passo, ovverosia in 2.176, nel corso di un passaggio anti-provvidenzialistico (vv. 167-183 nequaquam nobis esse
divinitus creatam / naturam mundi) rivolto, con ogni probabilità, principalmente contro la scuola
stoica.
L’attacco allo stoicismo non è dunque assente nel secondo libro, ma concerne innanzi tutto gli aspetti del provvidenzialismo (il mondo creato hominum causa) e dell’allegorismo. Anzi, come si è visto, il poeta ha buon gioco nello sfruttare le polemiche anti-stoiche già elaborate dai peripatetici. L’ampiezza del passaggio centrale sulla Magna mater va letto in relazione al finale. In questo modo si comprende come la polemica contro la dottrina peripatetica di un mondo eterno e di una terra sempre fiorente tenda a convergere con la polemica contro la dottrina stoica di una divinità benevola e “provvidenziale”. Ancora una volta Lucrezio sembra poter pervenire a tale identificazione soprattutto alla luce della convergenza tra aristotelismo e stoicismo che trova in Panezio una figura chiave.