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Continuità e discontinuità nella res extensa »

L’esame da noi condotto sulla res extensa si articola su vari piani: la considerazione del fondamento metafisico delle leggi fisiche e delle caratteristiche della materia; l’applicazione, anche se con significative differenze da Le Monde ai Principia, della concezione geometrica all’estensione e al moto dei corpi; il rapporto tra le particelle di materia e il continuum dello spazio pieno.

In una lettera a Mersenne del 28 ottobre 1640 Descartes nega espressamente che il continuo possa essere composto da indivisibili. Egli conferisce a tale affermazione – che si situa nell’ambito della confutazione di alcuni argomenti del

422 La Géométrie, p. 440.

Padre Lacombe424 – un valore generale che si estende dall’atomismo fisico al punto geometrico e all’istante temporale425:

Deux indivisibles ne pourroient faire, à tout compte, qu’une chose divisible en deux parties; mais avant de dire qu’ils puissent faire un cors, il faut sçavoir ce qu’on entend par le nom cors, à sçavoir une chose longue, large et estenduë; ce qui ne peut estre composé d’indivisibles, à cause qu’un indivisible ne peut avoir aucune longueur, largeur, ny profondeur; ou bien, s’il en avoit, nous le pourrions diviser du moins par nostre imagination, ce qui suffiroit pour assurer qu’il n’est pas indivisible; car si nous le pouvons ainsi diviser, un Ange le pourroit diviser reellement.

Tutti i corpi sono dunque continui, come è affermato all’inizio della quinta Meditatio426 e discusso nel trattato Labyrinthus sive de Compositione continui Liber unus427.

Sulla negazione della discontinuità dello spazio vi sono due annotazioni alla teoria galileiana riportate nella lettera a Mersenne dell’11 ottobre 1638. In primo luogo, la linea non è composta dalla somma di una infinità di punti in atto: «Il fait considerer une ligne droite, descrite par le mouvement d’un cercle, pour prouver qu’elle est composée d’une infinité de poins actu, ce qui n’est qu’une imagination toute pure»428. Mersenne condivide l’osservazione di Descartes, pur ritenendo che il fine di Galilei sia, in questo caso, più quello di stupire che non di convincere: poiché nessuna linea può comporsi di un numero finito di punti ma solo d’infiniti, allora tutte le linee sarebbero uguali, o meglio non ve ne sarebbero né di maggiori né di minori perché tutte composte di infiniti punti429. Lo scienziato toscano aveva infatti confutato la concezione aristotelica di una grandezza continua divisibile attualmente solo in

424 Lettera 923, CM X, pp. 135-137. 425 Lettera CCX, AT III, pp. 213-214.

426 Meditatio V, p. 63: «Nempe distincte imaginor quantitatem, quam vulgo

Philosophi appellant continuam, sive ejus quantitatis aut potius rei quantae extensionem in longum, latum et profundum; numero in ea varias parte; quaslibet istis partibus magnitudines, figuras, situs, et motus locales, motibusque istis quaslibet durationes assigno».

427 Lettera LXXXVIII, AT I, p. 422. LIBERT FROIDMONT, Labyrinthus sive de Compositione continui Liber unus, Philosophis, Mathematicis, Theologis utilis ac jucundus,

Antverpiae, Ex Officina Plantiniana Balthasaris Moreti, 1631.

428 Lettera CXLVI, AT II, p. 385. Lettera CCCXLVII, AT IV, pp. 112-113: «moy, ie

ne l’admets pas [que non datur progressus in infinitum]; ie croy que datur revera talis

progressus in divisione partium materiae, comme on verra dans mon traité de Philosophie». 429 MERSENNE, Les Nouvelles Pensées de Galilée, Paris, Henry Guenon, 1639,rist. a

cura di P. Costabel e M.-P. Lerner, 2 voll., Paris, Vrin, 1973, vol. I, pp. 22-23: «il s’ensuit de la spéculation de Galilée que la ligne est composée d’indivisibles, ce qui le contraint de dire que nul nombre finy de poincts ne peut faire aucune ligne quantitative, mais qu’il en faut un nombre infiny, d’où il s’ensuit que toutes les lignes sont esgales, ou plustost qu’en les considérant toutes composées d’une infinité de poincts, il n’y a ny égal, ny plus au moins grand dans l’infiny».

grandezze continue430, sia nella prima giornata dei Discorsi – proponendo la composizione delle grandezze con un numero infinito di parti indivisibili non quante («Se vogliamo compor la linea di punti invisibili, bisogna fargli infiniti; e così conviene apprender nel medesimo tempo l’infinito e l’indivisibile») sia nelle Postille alle Esercitazioni filosofiche431.

Riguardo alla ruota di Aristotele, Mersenne scrive che Galilei «suppose que les corps soient composez d’atomes, comme la ligne de poincts»432. Descartes denuncia questo ‘sofisma’ senza contestualizzare l’affermazione di Galilei: gli spazi saltati dall’esagono non sono vuoti ma riempiti da altre parti della superficie del poligono compresa tra i suoi vertici. «L’hexagone qu’il propose ne laisse rien de vuide en l’espace par où il passe, mais chascune de ses parties se meut d’un mouvement continu, lequel descrivant des lignes courbes qui remplissen tout un espace, on ne doit pas les considerer, comme il fait, en une seule ligne droite»433. Dal fraintendimento e dall’animosità con la quale Descartes discute di Galilei trapela la sua preoccupazione riguardo al continuo dello spazio geometrico e di quello fisico e alla negazione del vuoto.

Nella quinta Meditatio Descartes stabilisce inoltre l’identità tra l’idea innata di materia e quella di quantità che i filosofi chiamano ‘continua’: «Nempe distincte imaginor quantitatis, aut potius rei quantae extensionem in longum, latum, et profundum; numero in ea varias partes; quaslibet istis partibus magnitudines, figuras, situs, et motus locales, motibusque istis quaslibet durationes assigno»434.

L’estensione è l’attributo principale (praecipuus) della materia e, in base ai Principia I §52, la sostanza è più facilmente conoscibile mediante il proprio attributo che non direttamente. L’universo materiale, dotato di una perfetta omogeneità anche tra mondo terrestre e celeste, può essere descritto in termini geometrici applicando il

430 ARISTOTELE, De Coelo, III, 1, 298b; ID., Physica, VI, 1 231a e ss. Cfr. HAROLD

CHERNISS, Aristotle’s criticism of Plato and the academy, New York, Russel & Russel, 1962, pp. 129-137.

431 G. G

ALILEI, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze,

OG VIII, p. 77. ID., Postille alle Esercitazioni filosofiche di Antonio Rocci, OG VII, pp. 682-

683, 745-750. «Io Sig. Rocco essendo certo che il continuo costa di parti sempre divisibili, dico che è verissimo e necessario che la linea sia composta di punti, ed il continuo d’indivisibili; e cosa forse più inopinata vi aggiungo, cioè che, essendo il vero un solo, conviene che il dire che il continuo costa di parti sempre divisibili, col dire che il continuo costa d’indisivibili, siano una medesima cosa» (ivi, p. 745). Lo studio galileiano del continuo risale agli anni padovani, come testimonia l’Autore stesso in una lettera a Belisario Vinta comunicandogli di aver scritto un opuscolo denominato De compositione continui: Lettera 307, OG X, p. 352. Cfr. MAURICE CLAVELIN, La philosophie naturelle de Galilée: essai sur

les origines et la formation de la mécanique classique, Paris, A. Colin, 1968, pp. 289-292,

317-324, 54-60; PAOLO GALLUZZI, Momento. Studi galileiani, Roma, Edizioni dell’Ateneo e

Bizzarri, 1979, 345-352.

432 Les Nouvelles Pensées de Galilée, p. 19. 433 Lettera CXLVI, pp. 382-383.

metodo d’indagine della Géométrie435. Il moto di un corpo viene così scomposto all’occorrenza in una serie di istanti proprio come la linea continua può essere interrotta o suddivisa nei suoi punti. Quella proposta da Descartes è una descrizione geometrica della fisica, possiede un elemento di artificiosità e di approssimazione, e nasce da una riflessione che è prima epistemologica che ontologica: come sarà mostrato con maggior rigore nel prosieguo, la considerazione del moto di un corpo in un determinato istante del suo percorso è funzionale alla ricerca scientifica e coerente con la visione meccanicista, mentre sarebbe inesatto ricondurlo solo alla dimensione temporale della conservazione operata da Dio.

L’estensione non indica di per sé il movimento – come avviene invece nella definizione geometrica di linea o superficie – e in una materia perfettamente omogenea non si origina alcun movimento. Quest’ultimo è impresso direttamente da Dio nello stesso istante nel quale crea la materia. Il moto cartesiano ha una velocità scalare, dotata di un valore ma non di una direzione, la quale scaturisce dall’interazione con le altre particelle – anche se le leggi che presiedono a tali combinazioni di movimenti provengono da Dio.

L’unico movimento perfettamente semplice è quello rettilineo, la cui natura è contenuta in un solo istante, mentre per quello circolare occorre considerare la reciproca relazione di due parti del percorso compiuto da un corpo. Nel primo caso la determinazione del moto richiama i principii di semplicità; nel secondo la deduzione che occorre intraprendere nel confrontare due valori è dotata di un grado di certezza inferiore. La tradizione aristotelica associava la perfezione della natura celeste alla figura geometrica del cerchio, il cui modello era rintracciato nel moto eterno e incorruttibile dei pianeti; nel mondo sublunare, invece, il rettilineo era naturale e il circolare ‘misto’436. Annullando le differenze ontologiche dello spazio, il moto rettilineo viene esteso da Descartes (come anche da Galilei) a tutto il cosmo, ponendo fine all’egemonia della metafisica nell’indagine della scienza, preparando la legge

435 Lettera CLXXXV, AT III, p. 39: «Pour la Physique, ie croyrois n’y rien sçavoir, si

ie ne sçavois que dire comment les choses peuvent estre, sans demonstrer qu’elles ne peuvent estre autrement; car l’ayant reduite aux lois des Mathematiques, c’est chose possible et ie croy le pouvoir en tout ce peu que ie croy sçavoir, bien que ie ne l’aye pas fait en mes Essais, à cause que ie n’ay pas voulu y donner mes Principes, et ie ne voy encore rien qui me convie à les donner à l’avenir».

436 La questione della ‘naturalità’ del cerchio è assai complessa e presenta posizioni

variegate. Innazitutto, questa figura geometrica ha proprietà tra loro contrarie sin dalla sua genesi: è prodotta da una cosa che sta ferma nel centro e da una cosa che si muove; nella linea che racchiude il cerchio appaiono i contrari del concavo e del curvo; la linea che descrive la circonferenza si muove in avanti e in dietro poiché l’ultimo ritorna ad essere di nuovo il primo; il punto più lontano dal centro è dotato di una velocità maggiore (PSEUDO- ARISTOTELE, Mechanica, 847b – 848a). Ogni movimento meccanico, sia nella tradizione aristotelica sia in quella archimedea, poggia sulla truttura del cerchio, costruzione artificiale contro natura. Con Vitruvio e, soprattutto, nel Rinascimento (Alessandro Piccolomini, Giuseppe Moleto, Guidobaldo del Monte, Galilei) si rivendica la naturalità del cerchio e dell’arte meccanica riferendosi ad un altro passo aristotelico della Phyisica, II, 199a.

d’inerzia – la cui definizione non può prescindere dal moto rettilineo («un corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme»)437 – e creando i presupposti per trasporre in ambito fisico la relazione continuo-discreto. In quest’ultimo caso, infatti, un punto (o un istante) per il moto rettilineo e due punti (o due istanti) per quello curvilineo offrono una ‘descrizione’ del movimento del corpo esaminato, proprio come in geometria i punti delle coordinate non definiscono ma descrivono la curva: «[…] je ne dis pas pour cela que le mouvement droit se puisse faire en un instant, mais seulement que tout ce qui est requis pour le produire se trouve dans les corps en chaque instant qui puisse être déterminé pendant qu’ils se meuvent, et non pas tout ce qui est requis pour produire le circulaire»438.

Per comprendere gli altri movimenti, tra i quali anche quello circolare, occorre considerare almeno due dei suoi istanti, o meglio due delle sue parti, e il loro mutuo rapporto439.

Dieu conserve chaque chose par une action continuë, et par consequent, qu’il ne la conserve point telle qu’elle peut avoir esté quelque temps auparavant, mais précisément telle qu’elle est au mesme instant qu’il la conserve. Or est-il que, de tous les mouvemens, il n’y a que le droit, qui soit entierement simple, et dont toute la nature soit comprise en un istant. […] Au lieu que, pour concevoir le mouvement circulairie, ou quelqu’autre que ce puisse estre, il faut au moins considerer deux instans, ou plutost deux de ses parties, et le rapport qui est entr’elle.

Tutta la realtà fisica è regolata da un unico principio, quello del movimento di particelle, ossia di piccole quantità di materia non indivisibili: i colori, ad esempio, sono apparenze, risposte fisiologiche agli stimoli delle particelle, le cui differenze sono dovute al moto di rotazione e di traslazione. Ogni fenomeno fisico, dunque anche ottico e acustico, viene interpretato come una variazione di velocità delle particelle di aria.

La conservazione della quantità di moto e la superiorità, anche ontologica, del moto rettilineo hanno esiti morali e fisiologici, ai quali ci limitiamo qui ad accennare. Poiché Dio conserva sempre la medesima quantità di movimento, nel rapporto anima- corpo l’anima immateriale sembrerebbe non poter agire sugli oggetti materiali senza introdurre un nuovo movimento nel mondo; l’anima, invece, si limita ad imprimere una nuova direzione a corpi che già si muovono, inviando gli ‘spiriti animali’ attraverso i nervi per determinare un certo movimento. Ne consegue che Dio è l’autore dei moti ‘retti’ delle azioni umane, la cui irregolarità e corruzione è dovuta solo all’interazione con altre parti di materia, ossia con diverse disposizioni della nostra volontà440:

437 Š.A. K

OYRÉ, Studi galileiani, trad. it., Torino, Einaudi, 1976, pp. 161 e ss.

438 Le Monde, cap. VII, p. 45. 439 Ivi, pp. 44-45.

Donc, suivant cette regle, il faut dire que Dieu seul est l’Autheur de tous les mouvements qui sont droits; mais que ce sont les diverses dispositions de la matière qui les rendent irréguliers et courbés, ainsi que les théologiens nous apprennent que Dieu est aussi l’autheur de toutes nos actions, en tant qu’elles sont, et en tant qu’elles ont quelque bonté; mais que ce sont les diverses dispositions de nos volontés qui les peuvent rendre vicieuses.

Tra le proprietà della materia, oltre all’incomprimibilità e all’impenetrabilità, vi è anche la divisibilità all’infinito che permette ai corpi di muoversi in un universo privo di vuoto. Il continuum dello spazio pieno viene confermato anche dalla negazione degli atomi. Nel §20 della seconda parte dei Principia, dal titolo Ex his etiam demonstrari, nullas atomos dari posse, si afferma: «Cum enim si quae sint [materiae partes], necessario debeant esse extensae, quantumvis parvae fingantur, possumus adhunc unamquamque ex ipsis in duas aut plures minores cogitatione dividere, ac proinde agnoscere esse divisibiles»441. Nessuna parte di materia, anche la più piccola, può essere ritenuta indivisibile poiché ciò comporterebbe una limitazione della potenza divina. Descartes parla di divisione indefinita, trovando nel limite minimo il corrispettivo della dimensione indefinita dell’universo: «divisionem quarundam particularum materiae in infinitum, sive indefinitam, atque in tot parte, ut nullam cogitatione determinare possimus tam exiguam, quin intelligamus ipsam in alias adhunc minores reipsa esse divisam»442.

La negazione del vuoto e degli atomi, e la conseguente affermazione di uno spazio pieno continuum e di parti non indivisibili di materia, si fondano su due differenti presupposti metafisici: quello della veracità divina e quello della potentia Dei absoluta443.

Secondo Descartes, l’incapacità dell’uomo di concepire una divisione attuale infinita della materia (per questo definita ‘indefinita’) lo costringe ad ammettere l’assenza di validi motivi in grado di privare Dio del potere o della possibilità di realizzare tale divisione. «Non tamen possum affirmare illarum [i.e. partium] divisionem a Deo numquam absolvi, quia scio Deum plura posse facere, quam ego

441 DESCARTES, Principia Philosophiae, AT VIII, parte II, §20, p. 51. 442 Principia II, §34, pp. 59-60.

443 Su questi due argomenti e sul §18 della seconda parte dei Principia, relativo

all’identità tra la concezione dello spazio vuoto e quella di un monte privo di valle, si articola la corrispondenza degli anni ’48-’49 con Arnauld e More. Secondo Koyré (Dal mondo chiuso

all’universo infinito, Milano, Feltrinelli, 1970, pp. 87 e ss.), queste lettere ribadiscono la

prioritaria importanza dell’onnipotenza divina. Di altro avviso è Sergio Landucci (La teodicea

nell’età cartesiana, Napoli, Bibliopolis, 1986, p. 190), il quale ricorda che queste lettere sono

un commento al passo dei Principia sul vuoto. Sul tema della veracità divina in riferimento alla fisica si veda l’approfondito studio da questi condotto in ivi, pp. 179-196. Per una dettagliata analisi della posizione cartesiana sul vuoto e della sua contestualizzazione tra i contemporanei, si legga DANIEL GARBER, Descartes metaphysical physics, Chicago, The university of Chicago press, 1992, pp. 127-148.

cogitatione mea complecti»444. La medesima argomentazione è impiegata per l’indefinitezza dell’estensione: «Repugnat conceptui meo […] ut mundus sit finitus vel terminatus, quia non possum non concipere spatium ultra quoslibet praesuppositos mundi fines»445.

Nel §18 della seconda parte dei Principia, l’Autore pone l’identità tra la concezione dello spazio vuoto e quella di un monte privo di valle. In riferimento alla potenza absoluta, Dio potrebbe creare una montagna senza valle, mentre tale asserzione risulta impossibile se rapportata alla mente umana o alla potenza ordinata. In modo antitetico rispetto alle lettere a Mersenne del 1630 e alla risposta alle obiezioni di Gassendi nelle quali ribadisce che Dio può fare tutto ciò che noi concepiamo come possibile, nella sesta Meditatio, nella lettera del 1642 a Regius446 e in quelle del 1649 a More e Clerselier447, Descartes afferma che il Creatore non può fare cose che la nostra ragione concepisce come contraddittorie448.

L’analisi del vuoto, della divisione indefinita e dell’estensione indefinita della materia occupano i §§16-21 della seconda parte dei Principia. Questi tre argomenti, pur poggiando su presupposti metafisici, presentano una differenza significativa che è resa anche mediante un’interessante distinzione lessicale. Nei §§20-21 si afferma che la mente è in grado di comprendere – e non solo di immaginare – la possibilità di spazii indefinitamente estesi e la divisione della più piccola parte di materia mediante l’esplicarsi dell’onnipotenza divina. Entrambi i paragrafi cominciano con ‘cognoscimus’, il quale è differente dal verbo ‘concipere’ impiegato nell’argomento sul vuoto. Si ‘concepisce’ un’idea o la sua irrealizzabilità, mentre si ‘conosce’ la realtà, ossia la si abbraccia nella sua completezza: conosco una determinata cosa perché rientra nelle possibilità dell’onnipotenza divina.

Cognoscimus etiam fieri non posse ut aliquae atomi, sive materiae partes ex natura sua indivisibiles, existant. […] Ut etenim essecerit eam a nullis creaturis dividi posse, non certe sibi ipsi ejusdem dividendae facultatem potuit adimere: quia fieri plane non potest, ut propriam suam potentiam imminuat. […]

Cognoscimus praeterea hunc mundum, sive substantiae corporeae universitatem, nullos extensionis suae fines habere449.

444 Lettera DXXXVII, AT V, pp. 273-274. 445 Lettera DLIV, AT V, p. 344.

446 Lettera CCLXXX, AT III, p. 567.

447 Lettera DXXXVII, AT V, pp. 267 e ss.; Lettera DLVIII, AT V, pp. 232 e ss. 448 Cfr. Lettera CDX, AT IV, p. 329: «[…] ie croy qu’il implique contradiction qu’il y

ait du vuide, à cause que nous avons la mesme idée de la matiere que de l’espace; et pource que cette idée nous represente une chose reelle, nous nous contredirions nous-mesmes, et assurerions le contraire de ce que nous pensons, si nous disions que cet espace est vuide, c’est a dire, que ce que nous concevons comme une chose reelle, n’est rien de reel».

‘Concepire’ un contenuto presente e intendere la necessità logica del principio di non contraddizione si riferisce all’irrealizzabilità di una montagna priva di vallata. In questo caso non si conosce un’idea perché se ne concepisce la contraddizione (che viene ribadita per ben due volte): sono inconciliabili l’idea dell’estensione – e, dunque, del vuoto come nulla, privo di dimensione e di estensione – e la distanza che osserviamo tra i lati di un vaso apparentemente vuoto450.

Jam autem, ut errorem illum emendemus, considerare oportet nullam quidem esse connexionem inter vas et hoc vel illud corpus particulare quod in eo continetur, sed esse maximam, ac omnino necessariam, inter vasis figuram concavam et extensionem in genere sumptam, quae in ea cavitate debet contineri. Adeo ut non magis repugnet nos concipere montem sine valle, quam intelligere istam cavitatem absque extensione in ea contenta, vel hanc extensionem absque substantia quae sit extensa. […] necesse est ut se mutuo tangant, ac manifeste

repugnat ut distent, sive ut inter ipsa sit distantia, et tamen ut ista distantia sit nihil.