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Responsabilità e ragionamento controfattuale nel diritto

5. I controfattuali e la colpa

Vorrei difendere brevemente l’ipotesi che, nella prassi del diritto, così come nell’ambito più ampio del ragionamento pratico, assumersi e attribuire re- sponsabilità per le azioni coinvolge una dimensione normativa, ossia la capa- cità di essere sensibili alle ragioni26. In particolare, le imputazioni di respon-

sabilità in sede penale non esprimono esclusivamente giudizi di natura cau- sale, ma riguardano anche le ragioni che l’agente può addurre nel processo per giustificare o scusare le proprie azioni, o ancora le ragioni che l’agente avrebbe dovuto prendere in considerazione, ma che non ha considerato, al momento dell’azione. Le distinzioni paradigmatiche tra i diversi tipi e gradi di colpevolezza, così come la dottrina delle scusanti e delle cause di giustifi- cazione possono essere così spiegate nei termini delle ragioni che l’agente non aveva e avrebbe dovuto considerare nel corso dell’azione.

In questo senso, possiamo affermare che il locus della formazione della responsabilità non sia la mente dell’agente, ma – per dirla con Wilfrid Sel- lars27 – lo spazio delle ragioni in cui si articola la prassi del dare giustifica- zioni per la propria condotta e chiedere giustificazioni per la condotta altrui. L’approssimazione più fedele di tale prassi nell’ambito del diritto è ovvia- mente il processo penale. È all’interno di questa prassi governata da regole che la responsabilità dell’agente viene costruita, più che scoperta. La dimen- sione normativa della responsabilità non può essere ridotta ai motivi per cui gli agenti hanno agito, perché essere sensibili alle ragioni richiede più di una semplice attribuzione di motivi. Perché un agente agisca responsabilmente, egli deve poter esercitare un controllo sulle proprie azioni. Tale capacità ri- chiede non solo dei moventi per agire, ma anche l’essere in grado di rispon- derne, di poter esercitare un controllo su di essi ed effettuare una scelta deliberata circa il perseguirli o meno28. L’idea secondo cui la colpevolezza richieda il mero controllo dell’azione va dunque specificata: un atto di cui un

26 Vi è un’ampia letteratura sulla concezione della responsabilità come capacità di essere sen-

sibili alle ragioni (o la cosiddetta responsiveness to reason). Alcune importanti proposte teo- riche in questa direzione sono: Fischer & Ravizza (1999); Scanlon (1998a) e Id. (1988b: 352- 371); Watson (2001: 374-394). Anche Brandom delinea una teoria della responsabilità doxa- stica in termini di rispondenza alle ragioni sviluppando l’originaria concezione di Wilfrid Sellars. Si vedano, in particolare, in “Norms, Selves, and Concepts” e “Autonomy, Commu- nity, and Freedom” in Brandom (2006).

27 L’espressione è di Robert Brandom, che attribuisce a Sellars la paternità del concetto. Si

veda Brandom (1994: capitolo 3); Sellars (1956: § 36).

28 Sullo stretto legame tra rispondenza alle ragioni e controllo, si veda di nuovo Fischer &

soggetto è chiamato a rispondere in un’aula di tribunale deve essere necessa- riamente volontario, ma la volontarietà non è essa stessa sufficiente ad stabi- lire la responsabilità per quell’atto. È esattamente questo il punto dei casi in stile Feinberg che coinvolgono il ruolo della sorte. Nel nostro esempio, l’ele- mento volontario della colpevolezza è identico in entrambi gli scenari, ma il fattore casuale che interviene è esterno al controllo dell’agente. L’idea che la colpevolezza sia un insieme di stati psicologici e disposizioni appare pertanto troppo debole per giustificare le imputazioni di responsabilità.

Un aspetto cruciale di questa concezione è che la prassi del dare e chie- dere ragioni esige l’esercizio di un ragionamento controfattuale. In questo contesto però, il ragionamento controfattuale non si focalizza sulle proprietà modali degli eventi (se essi siano necessari, sufficienti, o meramente contin- genti)29, ma sulla giustificazione delle proprie azioni. I casi di negligenza e imprudenza sono esemplari di questo esercizio di ragionamento. Nel decidere se un agente è responsabile per un evento dannoso, non possiamo soltanto chiederci se la sua azione sia causalmente connessa all’evento, ma se egli fosse in grado di comprendere che, evitando di agire così come ha agito, avrebbe potuto così evitare di causare l’evento dannoso che gli viene impu- tato. Il problema non riguarda quale elemento causale avrebbe fatto la diffe- renza se le cose fossero andate diversamente, né se l’autore aveva un motivo per agire come ha agito, ma piuttosto se egli avesse potuto formarsi una ra- gione per evitare la propria condotta delittuosa30.

Secondo il punto di vista che qui difendo, perché qualcuno sia responsa- bile di un’azione, non basta che egli abbia un motivo per agire. Un movente può essere un elemento necessario, ma non sufficiente per l’attribuzione di responsabilità. Oltre all’elemento della volontarietà, occorre provare che (i) l’agente aveva una comprensione di ciò che è accaduto come qualcosa che era in suo potere evitare e che (ii) era in grado di concepire una ragione per non compiere quell’atto. È la capacità di pervenire a queste ragioni e di ri- spondere della loro assenza che contraddistingue l’attribuzione di responsa- bilità nel ragionamento pratico, così come nell’ambito della legge. I requisiti

29 La mera sorte è un evento contingente. Con il termine ‘contingente’ non intendo qui la

mera possibilità che un evento si verifichi, ma piuttosto il caso in cui un evento è attuale (ossia, è un evento che si verifica in questo mondo), e dunque possibile (ciò che si verifica in questo mondo deve essere anche possibile), ma tuttavia non é necessario (non tutto ciò che avviene, avviene infatti in tutti i mondi possibili). Si veda su questo punto l’introduzione a Gendler & Hawthorne (2002: 5).

30 Ovviamente questa domanda non coincide col chiedersi se egli avrebbe potuto trovare in

quel momento un motivo per agire o evitare di agire. Il problema è piuttosto se l’agente abbia le capacità di pervenire ad una tale ragione. In altre parole, cerchiamo una ragione giustifi- cativa della sua condotta, non una spiegazione psicologica.

del controllo e della competenza sono riconosciuti in modo esplicito nel di- ritto quando si presentano casi in cui si sollevano eccezioni circa la capacità di intendere e di volere. Tali requisiti definiscono la capacità di essere agenti in generale e sono all’opera, sebbene implicitamente, nei giudizi che hanno come oggetto i reati di negligenza, imprudenza, ed omissione. In tutti questi casi, l’oggetto di giudizio non è la presenza di un movente criminoso, ma l’assenza di una dovuta considerazione dei rischi legati alla condotta. Per- tanto, nonostante i termini di ‘intenzione’ e ‘movente’ nell’ambito del giudi- zio penale sembrino richiamare stati psicologici, queste nozioni sono normative e rendere esplicite queste proprietà nell’ambito del giudizio penale richiede l’impiego dei controfattuali31.

6. Conclusione

In questo saggio ho sostenuto che i modelli controfattuali conducono il teo- rico ad un dilemma: o egli fornisce una teoria monistica della causalità lungo la falsariga del modello NESS, però al costo di non poter spiegare il ruolo della mera sorte, oppure salva la teoria, al costo di rivedere i giudizi sulla responsabilità degli agenti. Ho proposto di seguire questa seconda strada, so- stenendo che il ruolo dei controfattuali all’interno ragionamento giuridico ha due funzioni: è una guida euristica nella ricerca delle cause e spiega le carat- teristiche normative dei nostri giudizi di colpevolezza. Ho sostenuto che, piut- tosto che accertare ciò che gli agenti avrebbero fatto in circostanze particolari, l’obiettivo di un’analisi controfattuale è di accertare, nell’ambito del pro- cesso, la responsabilità degli agenti in risposta a ciò che avrebbero dovuto prendere in considerazione al momento dell’azione. La funzione euristica del ragionamento controfattuale è un aspetto cruciale della responsabilità penale. Ho sostenuto che, contro la concezione tradizionale che concepisce la respon- sabilità essenzialmente come imputazione di un atto causale, il concetto di responsabilità richiama le capacità razionali coinvolte nel rendere conto della condotta propria ed altrui. Questa capacità è la condizione di possibilità del discorso razionale stesso, ossia del gioco linguistico che si sviluppa nelle prassi del ‘dare e chiedere ragioni’. Poiché i tribunali e le corti di giustizia

31 Questa lettura della colpevolezza ricalca peraltro la concezione normativa dominante in

ambito penale. Ad esempio Fiandaca ed Musco affermano: «La concezione normativa oggi dominante afferma che è colpevole un soggetto imputabile, il quale abbia realizzato con dolo o colpa la fattispecie obiettiva di un reato, in assenza di circostanze tali da rendere necessitata l’azione illecita. La colpevolezza in senso normativo è, pertanto, un concetto necessariamente complesso» (Fiandaca & Musco (2004: 289)).

sono la migliore approssimazione di questo tipo di prassi, l’accertamento della responsabilità nei consessi di giustizia consiste innanzitutto nell’accer- tamento delle ragioni appropriate per una certa condotta e della capacità ri- chieste per formare ragioni di quel tipo. I risultati di questa analisi sono rilevanti per la stessa teoria della pena: nonostante i tentativi di giustificare la pena sulla base sicura di una teoria generale della causalità, ho sostenuto che tale giustificazione debba basarsi piuttosto sulla valutazione degli atteggia- menti normativi coinvolti nella pratica discorsiva e razionale del diritto.

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L’agire razionale nelle spiegazioni sociologiche: