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Popolazioni con poche parole e bambini che contano

I fondamenti cognitivi della matematica umana: dove cercarli?

2. Cognizione e aritmetica 1 Animal

2.3. Popolazioni con poche parole e bambini che contano

In anni recenti, due popolazioni aborigene della foresta dell’Amazzonia – i Pirahã e i Munduruku – sono state le protagoniste della ricerca in antropologia cognitiva14. La lingua di entrambe queste popolazioni ha poche parole per

indicare numeri: i Pirahã possiedono parole precise solo per i numeri 1 e 2, mentre si riferiscono a 3 e 4 in maniera più irregolare; i Munduruku usano invece con coerenza le parole per i numeri 1, 2 e 3, ma non sono coerenti quando parlano di quantità corrispondenti a 4 e 5. Gli esperimenti effettuati hanno tuttavia dimostrato che nonostante essi possiedano un numero di parole limitato a confronto con i nostri numerali, sono invece del tutto in grado di confrontare e addizionare – in maniera non precisa ma approssimata – numeri più grandi che superano le quantità per cui hanno parole. Nei due test cosid- detti della distanza e della grandezza – presentati con stimoli non simbolici come ad esempio insiemi di punti – Pirahã e Munduruku si comportano in maniera del tutto simile a quella dei soggetti di controllo occidentali15. Questa

circostanza suggerisce che i processi cognitivi che sottendono le loro mani- polazioni numeriche – non simboliche – siano equivalenti a quelli di altre popolazioni dotate di lingue più sofisticate, perlomeno per quanto riguarda i termini introdotti per indicare numeri. Di conseguenza, lo studio del compor- tamento di queste popolazioni dimostra che gli essere umani alfabetizzati con- dividono con quelli illetterati – e in parte con gli animali non verbali – una rappresentazione delle quantità numeriche che risulta essere indipendente dalle loro capacità linguistiche.

14 Cfr. Gordon (2004) e Pica et al. (2004).

15 È stato dimostrato che indicare il più grande tra due numeri o tra due insiemi di oggetti –

sia che vengano usati stimoli simbolici o non-simbolici – è più veloce e più accurato quando i due numeri o la dimensione dei due insiemi sono molto lontani fra loro. Ci si riferisce co- munemente a questo effetto come all’ ‘effetto distanza’ (distance effect). Inoltre, il tempo impiegato per indicare il più grande tra due numeri o due insiemi dipende anche dalla gran- dezza del numero o della dimensione dell’insieme. Ci si riferisce comunemente a questo ef- fetto come all’ ‘effetto grandezza’ (size effect). Cfr. Cappelletti & Giardino (2007).

Tuttavia, pur accettando che questi risultati dimostrino che Pirahã e Mun- duruku hanno una qualche rappresentazione – seppure approssimata – di nu- merosità anche grandi, cerchiamo di capire quale sia il limite delle loro competenze. Per esempio, sanno contare? A giudicare da ciò che si ricava da questi studi, sembrerebbe che perlomeno i Pirahã non abbiano mai sviluppato una pratica analoga alla nostra che li metta nella condizione di contare, e non solo perché non posseggono le parole per i numerali, ma soprattutto perché, come si vede in alcuni nuovi test dove viene loro richiesto di effettuare corri- spondenze biunivoche, non sembrano nemmeno essere in grado di utilizzare spontaneamente le dita per contare. Per qualche ragione, pare infatti che essi si fermino alla capacità di distinguere tra numerosità, ma non riescano a tener traccia di numerosità attraverso lo spazio e il tempo16. In effetti, suggeriscono

gli sperimentatori, è solo quando una cultura sviluppi una pratica con il fine di contare che oggetti esterni alla mente come le stesse dita o semplici tacche segnate su un ramoscello possono assumere il ruolo di ‘segnaposti’, che ten- gono traccia ‘per noi’ delle diverse numerosità. Lasciamo per un attimo da parte operazioni aritmetiche più complesse e guardiamo semplicemente al modo in cui impariamo a contare: le parole che utilizziamo – ‘uno’, ‘due’, ‘tre’, ... – non sono in fondo nient’altro che i migliori segnaposti che la nostra cultura abbia prodotto con il fine di tener traccia di numerosità, e dunque in un certo senso la migliore tecnologia cognitiva a nostra disposizione. Avremmo certo potuto continuare a contare sulle dita – ma sarebbe stato poi difficile andare oltre 10 – oppure affidarci a dei segni – ma avremmo allora dovuto portare sempre con noi un gessetto e una lavagnetta. Si potrebbe obiet- tare che sebbene le popolazioni che abbiamo visto posseggano una lingua più povera della nostra almeno per quanto riguarda i possibili segnaposti per le numerosità, questo non voglia dire che non abbiano una propria cultura: una trappola in cui gli antropologi cognitivi rischiano ripetutamente di cadere è di imporre il punto di vista occidentale alla considerazione di pratiche culturali differenti. Certamente, perlomeno in linea di principio, queste popolazioni avrebbero potuto sviluppare pratiche del tutto dissimili dalle nostre, come ad esempio l’uso sistematico delle parti del corpo per contare17. Tuttavia, non

sembra che questo sia il caso dei Pirahã, che, seguendo il resoconto dei loro osservatori, di fatto non mettono in pratica nessun tipo di strategia per tener traccia degli oggetti da contare, per esempio utilizzando le dita o i movimenti

16 Frank et al. (2008). 17 Cfr. Butterworth (1999).

oculari. In breve, essi non hanno sviluppato alcun tipo di strategia non verbale che li aiuti a contare18.

Vediamo invece come si comportano i bambini prescolari, che hanno già imparato a contare ma a cui non è stato ancora insegnato come risolvere ope- razioni aritmetiche. Un esperimento ha messo alla prova l’aritmetica ‘sponta- nea’ di bambini tra i 5 e i 6 anni, di diversa estrazione economica e sociale. Questa forma di aritmetica si baserebbe non sull’istruzione ma (i) sulla capa- cità dei bambini a distinguere numerosità e (ii) sulle strategie che essi hanno sviluppato per contare19. Ai bambini vengono dati da risolvere problemi come

il seguente (Fig. 2.2):

Fig. 2.2. Un esempio di prova di aritmetica prescolare

L’obiettivo degli sperimentatori è di capire se i bambini messi di fronte a pro- blemi di questo genere fanno affidamento sulle loro rappresentazioni non sim- boliche e approssimate, quando anche i numeri vengano loro presentati attraverso numerali arabi. I risultati hanno mostrato che le risposte date dai bambini a questi problemi simbolici sono caratterizzate dai medesimi limiti che si sono già osservati in altri bambini, come anche nei neonati e negli ani-

18 Molto interessante a questo proposito è il libro di Daniel Everett che racconta la sua espe-

rienza decennale di ricercatore (e in un primo momento missionario) tra i Pirahã. Nel libro, il linguista argomenta a favore dell’ipotesi che questa popolazione trasmetta il sapere attra- verso sequenze di azioni o attraverso parole che però devono provenire da chi è stato testi- mone diretto o da chi ha ascoltato un testimone diretto dei fatti. Secondo Everett, questo principio, da lui chiamato l’immediacy of experience principle, spiegherebbe la mancanza presso i Pirahã di una tradizione orale e di qualsiasi rituale, nonché di parole per generaliz- zazioni specifiche come i numeri o i colori. Cfr. Everett (2008).

mali non umani, per operazioni analoghe con stimoli non simbolici: la preci- sione delle risposte diminuisce man mano che il rapporto tra i due numeri da sommare o da confrontare si avvicina a 1. Le operazioni di addizione e di confronto sono ugualmente accurate, mentre l’operazione di sottrazione ri- sulta più difficile. La corrispondenza tra questi due risultati in contesti diversi mostrerebbe che i bambini prescolari, a cui ancora non sono state insegnate le operazioni aritmetiche, fanno affidamento sul loro sistema non simbolico di rappresentazione, già utilizzato per distinguere tra numerosità, per risolvere problemi presentati simbolicamente. È sorprendente come questo permetta loro – per quanto entro certi limiti – di trovare la soluzione corretta a opera- zioni aritmetiche presentate tramite numerali arabi, prima ancora che queste operazioni aritmetiche vengano loro insegnate utilizzando simboli. L’ipotesi che voglio fare qui è che questo accade perché i bambini hanno già: (i) me- morizzato i numerali nel loro ruolo di segnaposti verbali per contare; (ii) im- parato a creare una corrispondenza tra i numerali e la propria rappresenta- zione non simbolica dei numeri a cui i numerali si riferiscono. A queste con- dizioni, essi sviluppano spontaneamente procedure di ragionamento che si basano sul proprio sistema non simbolico; queste procedure permettono loro di manipolare quantità anche quando esse siano presentate simbolicamente. Se questo è vero, allora il loro sistema non simbolico viene attivato ogni volta che venga loro richiesto di creare le corrispondenze biunivoche che hanno imparato a costruire contando, senza che questo dipenda da quanta aritmetica sia stato loro insegnata.

In un esperimento più recente, è stato mostrato che i bambini sono in grado di creare corrispondenze tra simbolico e non simbolico in entrambe le direzioni (sebbene siano meno precisi nella corrispondenza dal non simbolico al simbolico) e che questa capacità si sviluppa tra i 6 e gli 8 anni ed è collegata alla loro riuscita scolastica20. Questo dimostrerebbe che le rappresentazioni

non simboliche sottese al ragionamento simbolico avrebbero un ruolo nello sviluppo delle conoscenze matematiche del bambino. Secondo gli sperimen- tatori, i risultati ottenuti su questa forma di aritmetica spontanea, approssi- mata e non simbolica, avrebbero interessanti conseguenze sui modi in cui bisognerebbe insegnare l’aritmetica nei primi anni di scuola elementare.