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Il problema del realismo e degli antirealismi e delle loro, rispettive, razionalità

Due economie della conoscenza a confronto (o della razionalità del realismo)

1. Il problema del realismo e degli antirealismi e delle loro, rispettive, razionalità

Il tema che si vorrebbe esaminare in questo saggio, sebbene incardinato in un argomento a favore del realismo ontologico, ha la sua naturale sorgiva in una domanda che ha visto solcare l’epistemologia contemporanea come un vero e proprio leitmotiv negli scritti di studiosi entrati a far parte della koinè anglo- sassone come Kuhn e Feyerabend, ma anche di teorici più eterodossi e deci- samente “anti-analitici”, come Latour e Foucault: che tipo di rapporto può sussistere tra potere e conoscenza? In termini più prosaici ma anche più di- retti: che tipo di potere può rappresentare per un soggetto epistemico S entrare in possesso di una conoscenza che p, rispetto ad altri soggetti epistemici S1,

S2, S3,  S, o in anticipo su questi ultimi? La conoscenza, non necessariamente

di tipo scientifico e naturalistico, come attività o processo sociale, è in grado, in qualche modo, di originare delle intrinseche concentrazioni di “ricchezza conoscitiva”, delle sperequazioni cognitive, o addirittura dei soggetti tal- mente ricchi di conoscenze in grado di poter controllare il processo di forma- zione e distribuzione delle informazioni in modo strategicamente esiziale per tutti gli altri operatori epistemici loro competitor? Quello che seguirà, così, è un argomento non perorato solo a sostegno di un’idea di “conoscenza come

risorsa economica”1 ma a favore, altresì, della proposta per cui tale “equiva- lenza tassonomica” andrebbe accolta non solo dalle scienze sociali ma anche, e soprattutto, dall’epistemologia filosofica. La conoscenza, così, non risulte- rebbe essere solo un vero e proprio “taxon merceologico” umano, ma anche uno tra i beni più importanti sia per la sopravvivenza, sia per la stessa “dignità razionale” della nostra specie, essendo il suo più inestimabile tesoro evolu- tivo. Ciò non di meno, detto “tesoro” non è inesauribile e, anche se la sua inarrestabile crescita, come osserva il premio Nobel Douglass C. North, con- tinua ad esservi anche in assenza di incentivi sociali, non si produce “da solo”.

Fatti non foste a viver come bruti/ma per seguir virtute e canoscenza non

sono due versi in grado di confutare quell’aforisma, sicuramente più prosaico (ma non meno profondo) attribuito a M. Friedman, per cui «nessun pasto è gratis». Considerare quest’ipotesi ci aiuterebbe, di contro, a scegliere un sen- tiero argomentativo che, strada facendo, conduce ad un importante bivio pro- blematico: perché la conoscenza è una risorsa intrinsecamente economica?

Come ne è possibile una distribuzione ottimale? Considerare l’oggetto della

conoscenza da una prospettiva realista o, di contro, comunitarista o costrut-

tivista, può rappresentare realmente un bivio dilemmatico tra due diverse e

opposte tra loro economie della conoscenza?

La prima ipotesi è questa: ciò che contraddistingue sin dai suoi albori, come una specie unica homo sapiens sapiens, sono le sue peculiari, se non uniche, capacità e competenze cognitive e, in più, la sua abilità nel saper pro- durre e distribuire la conoscenza come una vera e propria e assai elaborata, “risorsa sociale”. Ma allora, se seguissimo (solo metaforicamente) la tesi della produzione/alienazione di Marx2, l’uomo si identificherebbe, sì, con il proprio “conoscere” e con le modalità simbolico-culturali per via delle quali conosce quel che conosce, e quindi con la propria derivante identità storico-evolutiva (che non è solo una mera memoria storica3). Diversamente da altri organismi, però (e contra Marx) gli esseri umani non sarebbero “solo” qualcosa in più di quel che producono; possono identificarsi con ciò che conoscono e con il “come lo conoscono”, dal momento che la conoscenza, comunque la si pensi

1 Ci riferiamo a conoscenza intendendola come credenza vera e giustificata, tesi risalente a

Platone, Menone §97 e Teeteto, §203c, e uscita malconcia dall’analisi di Gettier (1963: 121- 23) e, riesposta in una bella ricostruzione analitica da Vassallo (2003).

2 Marx, in questo non fece altro che seguire un’intuizione e una speranza, come si è visto, di

Smith (1776); Roncaglia (2005).

al riguardo, coinvolge (secondo alcuni già al livello percettivo4) capacità e competenze concettuali e, quindi, simboliche.

Di qui, assunta l’unicità “simbolica” della nostra specie5, risulterebbe ab- bastanza semplice mostrare perché il tratto fondamentale della nostra capacità di sviluppo sarebbe quella basata sulla natura epistemica di homo sapiens-

sapiens. Ma se quest’ipotesi fosse corretta ne deriverebbero delle conse-

guenze molto interessanti anche per il nostro usuale modo di intendere l’equi- librio delle forze interne ai processi di formazione e distribuzione della conoscenza, equilibrio che, lungi dal dipendere solo da fattori logicamente

endogeni (la natura delle teorie, il loro potere esplicativo, ecc.), potrebbe do-

ver dipendere anche da fattori più esogeni, come l’affermarsi di veri e propri

monopolisti o oligopolisti della conoscenza o, come vennero chiamati mezzo

secolo fa dall’economista K. J. Arrow, da dei veri e propri “dittatori della scelta sociale” in questo caso della scelta epistemica6. Questa seconda ipotesi è quella su cui verranno forniti più lumi, essendo anche la più difficile da esporre in modo non opaco. Com’è possibile, infatti, che da un processo di produzione e distribuzione della conoscenza, possano derivare delle condi- zioni di squilibrio, per cui il potere conoscitivo risulterebbe ipso facto più intrappolato nelle “maglie esplicative” di certi “pescatori di conoscenza” e delle loro “reti”, ossia delle loro teorie, che nelle reti conoscitive di altri, a

parità (del tutto teorica, ovviamente) di potere di accesso? Inoltre: perché è

così importante per la crescita della conoscenza che le cose debbano andare proprio in questo modo?

Per rispondere a tutte queste domande, pertanto, è necessario istituire un vero e proprio confronto tra due concezioni della conoscenza e della verità oggi tornate prepotentemente in conflitto tra loro da un dibattito che, verso la fine del secolo scorso, sembrava, invece, destinato ad esaurirsi: il realismo oggettivo (soprattutto considerato nella sua “nuova” veste di Nuovo Realismo o dei “nuovi realismi” filosofici) e le posizioni ad esso alternativo e da esso fortemente criticate. Ma tale confronto dovrà essere attuato in maniera nuova: si tratta di vedere se, soggiacenti a queste due differenti concezioni ontologi- che dell’oggetto della conoscenza, vi siano due differenti “economie del co- noscere”, due metodi affatto e radicalmente differenti di vedere nella conoscenza un prodotto non solo della nostra creatività e dei nostri schemi

4 McDowell (1994).Agli antipodi di McDowell, ma sempre sensibile ad una natura “econo-

mica” in quanto “ecologica” della percezione, è Gibson (1979) dove il padre della psicologia ecologica parla espressamente di “disponibilità o furniture percettive all’uso sensorio-moto- rio di un organismo” o affordances (da to afford: fornire).

5 Jablonka & Lamb (2005). 6 Arrow (1951).

razionali ma anche delle risorse che siano (o non) “esternalità” pre-economi- che rispetto al trade-off della nostra concettualizzazione, ovvero provenienti (o meno) da un dittatoriale mondo esterno, sempre in grado di imporci le sue leggi e le sue invarianti naturali.7