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Il corpus della legislazione razziale dal 1938 al 1945 e la sua attuazio- attuazio-ne in via amministrativa

Nel documento L’ItaLIa aI tempI deL ventennIo fascIsta (pagine 167-173)

Paolo Caretti

3. Il corpus della legislazione razziale dal 1938 al 1945 e la sua attuazio- attuazio-ne in via amministrativa

È dunque su un terreno già arato che si innesta la legislazione del periodo 1938-1945 volta ad introdurre per la prima volta nell’ordinamento italiano norme espressamente discriminatorie nei confronti degli stranieri e degli ita-liani qualifi cati “di razza ebraica”. Anche in questo caso, l’intento del legi-slatore è quello di costruire un’ulteriore cittadinanza dimidiata, nel quadro di un ormai esplicito orientamento razzista di carattere generale. Basti tor-nare alla Dichiarazione sulla razza, già ricordata del luglio del 1938. In essa si alludeva alla promozione di un forte impegno del regime a promuovere «il miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana»; una razza defi nita “pura” e da tenersi distinta dalle razze non ariane, «in particolare quella semita e camita»; una razza da difendere da pericolosi «incroci e im-bastardimenti», resi possibili dal contatto con le razze presenti sul territorio nazionale e su quello dell’impero.

Si tratta dunque di un documento nel quale si tracciano le linee di una politica razziale a tutto campo a difesa di quella italica. In ciò il fascismo faceva propri, strumentalizzandoli, i risultati di gran parte della scienza di allora (dall’antropologia alla genetica) che, sul presupposto (oggi scientifi ca-mente insostenibile), della possibilità di distinguere il genere umano in raz-ze, condivideva l’idea dell’esistenza di una “razza italiana” (appartenente al ceppo di quella ariana nordeuropea), la quale avrebbe mantenuti i suoi tratti

distintivi originari nonostante i numerosi incroci con popolazioni diverse: dai greci, agli arabi, ai normanni (una tesi peraltro contestata dai tutori d’oltralpe della razza ariana).

È su queste basi, dunque, che, a partire dal 1938 il regime iniziò a limitare le libertà degli stranieri e dei cittadini italiani qualifi cati “di razza ebraica”.

Atti propedeutici alla predisposizione della legislazione razziale del set-tembre 1938 furono, dal punto di vista politico, la pubblicazione del Ma-nifesto sulla razza del 16 luglio 1938 e, dal punto di vista amministrativo, il censimento degli ebrei italiani effettuato il 22 agosto dello stesso anno, gestito dalla “Demorazza”.

È singolare notare come l’appartenenza alla “razza” ebraica venne de-fi nita non attraverso la positivizzazione del concetto di razza ma mediante un “sistema” di presunzioni legali aventi carattere assoluto, in quanto insu-scettibili di essere superate attraverso la prova contraria. L’art. 8 del r.d.l. 17 novembre 1938 – XVIII, n. 1728 stabilì, infatti, che «a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità stra-niera; c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manife-stazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1 ottobre 1938-XVI, apparteneva a religione diversa da quella ebraica».

Da tale “sistema” di presunzioni legali emergeva la forte incidenza sulla determinazione dell’appartenenza “razziale” sia del corredo genetico della persona sia, seppur in seconda istanza, della professione religiosa e della manifestazione di appartenenza culturale. Anche la nazionalità diveniva un criterio determinante: una persona fi glia di genitori di cui uno solo apparte-nente alla “razza ebraica” era in ogni caso qualifi cata ebrea se l’altro genitore fosse stato straniero, mentre poteva non esserlo se l’altro genitore fosse stato italiano. In altri termini, nel momento genetico delle discriminazioni razziali la razza aveva una dimensione prevalentemente biologica e non culturale o linguistica. La defi nizione normativa di appartenente alla razza ebraica venne, poi, successivamente arricchita attraverso alcune disposizioni inter-pretative ministeriali che specifi carono, in particolar modo, i casi di fi gli di “unioni miste”.

L’appartenenza alla “razza ebraica” doveva essere dichiarata pubblica-mente sui registri dello stato civile e annotata in tutti gli atti pubblici ed era, come noto, fonte di numerose restrizioni delle libertà personali.

I primi provvedimenti annoverati tra le “leggi razziali” italiane, ovvero quelli approvati nel settembre 1938, furono volti, in particolare, a impedire

l’ingresso nel territorio nazionale di stranieri ebrei e ad espellere gli ebrei dalla scuola italiana, sia in quanto insegnanti, sia in quanto studenti, con l’unica eccezione degli studenti universitari già iscritti a istituti di istruzione superiore nei passati anni accademici.

Il r.d.l. 7 settembre 1938, n. 1381, che non venne mai convertito in legge ma confl uì nel r.d.l. n. 1728 del 1938 (dando luogo ad una sorta di reiterazione ante litteram di decreto-legge non convertito), stabilì il divieto di fi ssare sta-bile dimora nei territori del Regno, della Libia e nei possedimenti dell’Egeo agli «stranieri ebrei»; ai fi ni di tale decreto si consideravano tali solo i fi gli di genitori entrambi di razza ebraica. Il decreto assumeva, inoltre, effi cacia re-troattiva fi no al 1919, prevedendo agli artt. 3 e 4 che la cittadinanza concessa ad ebrei stranieri dopo il 1 gennaio 1919 dovesse intendersi revocata e che gli «stranieri ebrei» che avessero iniziato il proprio soggiorno in Italia, in Libia o nell’Egeo dopo tale data sarebbero stati espulsi se non avessero lasciato tali territori entro sei mesi2. In realtà, alla luce dell’art. 3, che prevedeva la revoca della cittadinanza già concessa, anche a distanza di venti anni, si comprende che il provvedimento non era rivolto ai soli «stranieri ebrei», bensì a tutti gli ebrei, fatta eccezione unicamente per i fi gli di un genitore non ebreo o per gli ebrei residenti nel Regno d’Italia da oltre vent’anni.

Il r.d.l. 5 settembre 1938 – XVI, n. 1390 introdusse, poi, le norme sulla «difesa della razza nella scuola fascista» e stabilì che in tutte le scuole sta-tali e non, ai cui studi fosse riconosciuto effetto legale, non potessero essere ammesse persone di razza ebraica anche se già inserite in graduatorie con-corsuali. Gli insegnanti di ruolo e tutto il personale scolastico furono sospe-si dal servizio e i liberi docenti sospesospe-si dall’esercizio, così come i membri delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti. Parallelamente, anche agli studenti e agli alunni di razza ebraica venne in-terdetta l’iscrizione negli istituti scolastici di qualsiasi ordine e grado i cui studi avessero valore legale. L’unica eccezione prevista era quella per gli studenti universitari già iscritti «ad istituti di istruzione superiore nei passati anni accademici» (art. 5). L’appartenenza alla razza ebraica era determinata dall’essere fi glio di genitori entrambi di razza ebraica. Conseguentemente, con il r.d.l. 23 settembre 1938 – XVI, n. 1630, vennero istituite scuole ele-mentari per gli alunni di razza ebraica a spese dello Stato nelle località in cui il numero degli alunni non fosse inferiore alle dieci unità. In tali scuole gli insegnanti potevano essere di razza ebraica. Venne, poi, autorizzata l’apertu-ra da parte delle comunità isl’apertu-raelitiche di scuole elementari con valore legale. I programmi di studio erano gli stessi previsti per le scuole statali ordinarie, fatta eccezione per l’insegnamento della religione cattolica, mentre i libri di testo di Stato avrebbero subito «opportuni adattamenti, approvati dal Mini-stero dell’educazione nazionale» (art. 3).

2. È appena il caso di ricordare che il 1919, oltre ad essere l’anno della sottoscrizione del trattato di Versailles a seguito del primo confl itto mondiale, fu, come altrettanto noto, anche l’anno di inizio di una forte immigrazione degli ebrei europei in Palestina.

Le norme sulla scuola vennero, poi, trasfuse in un testo unico di integra-zione e coordinamento ad opera del r.d.l. 15 novembre 1938 – XVII, n. 1779. In particolare, venne aggiunto il divieto di utilizzare nelle scuole frequentate da alunni italiani libri di testo di autori di razza ebraica, anche come coautori, curatori e correttori e venne sancita la decadenza dall’abilitazione alla libera docenza per i docenti di razza ebraica.

Nel novembre del 1938 furono emanate nuove disposizioni con il r.d.l. 17 novembre 1938 – XVII, n. 1728, contenente «provvedimenti per la difesa della razza italiana», che introdusse la disciplina dei matrimoni «tra persone appartenenti alla razza “ariana” e non e tra stranieri e italiani» e riprodusse, con integrazioni, la disciplina sugli stranieri ebrei.

Venne introdotto il divieto di matrimonio tra cittadini italiani di razza “ariana” e persone appartenenti ad altre razze. Tale divieto fu sanzionato con la nullità del matrimonio e con pene a carico dell’uffi ciale dello stato civile che al momento delle pubblicazioni non avesse accertato la razza e lo stato di cittadinanza degli sposi o che avesse provveduto alle pubblicazioni o alla celebrazione del matrimonio tra un “ariano” e una persona di altra razza. Nel caso di matrimonio religioso fu vietata la trascrizione dello stesso nei registri dello stato civile ed il ministro di culto che avesse trasgredito tale divieto avrebbe subito la condanna al pagamento di un’ammenda. Per quanto ri-guarda i matrimoni tra cittadini italiani e stranieri, essi non furono vietati ma subordinati al preventivo consenso del Ministro dell’interno, a pena di san-zione penale dell’arresto fi no a tre mesi e dell’ammenda fi no a lire diecimila. Il matrimonio con il cittadino straniero fu, invece, interdetto ai dipendenti delle Amministrazioni civili e militari dello Stato, delle Organizzazioni del Partito Nazionale fascista o da esso controllate, delle Amministrazioni delle Province, dei Comuni, degli Enti parastatali e delle Associazioni sindacali ed Enti collaterali, con la previsione della sanzione aggiuntiva della perdita dell’impiego.

Oltre alle restrizioni relative ai matrimoni, il r.d.l. da ultimo citato, dopo aver introdotto una nuova e più ampia defi nizione di “appartenente alla razza ebraica”, stabilì restrizioni personali nei confronti degli stessi e una discipli-na speciale fortemente discrimidiscipli-natoria.

L’articolo 10, in particolare, oltre a escludere gli ebrei dall’espletamento del servizio militare, vietò loro di esercitare l’uffi cio di tutore o curatore di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica e limitò fortemente i loro diritti di proprietà immobiliare e di esercizio di impresa.

Come corollario al divieto di esercizio dell’uffi cio di tutore di minori ap-partenenti a razza diversa da quella ebraica, l’art. 11 stabilì che il genitore di razza ebraica potesse essere privato della patria potestà sui fi gli di religione diversa da quella ebraica, qualora egli avesse impartito agli stessi un’educa-zione non corrispondente alla loro religione o ai fi ni nazionali. Se si pone mente al fatto che la stessa disciplina ammetteva la possibilità che un geni-tore di razza ebraica avesse un fi glio non appartenente alla razza ebraica, e

ciò nel caso in cui l’altro genitore fosse stato italiano ed il fi glio fosse stato educato secondo una religione diversa da quella ebraica, si comprende age-volmente quanto ampio fosse l’ambito di applicabilità della norma in caso di contrasti fra i coniugi o nel caso di decesso del coniuge non ebreo.

Le disposizioni successive (artt. 12 e 13) furono, invece, adottate per evitare che persone di razza ebraica potessero rivestire un ruolo sociale di supremazia nei confronti di italiani: fu vietato agli ebrei di avere alle pro-prie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. La trasgressione a tale divieto fu sanzionata con un’ammenda da lire mille a lire cinquemila. A loro volta, gli ebrei, come non potevano contrarre matri-monio con i dipendenti delle Amministrazioni statali e delle altre istituzioni di diritto pubblico, così non potevano essere, essi stessi, dipendenti delle Amministrazioni civili o militari dello Stato già sopra citate, nonché delle assicurazioni private e delle banche di interesse nazionale e, in generale, di tutte quelle imprese private che avessero qualche legame stabile con istitu-zioni di diritto pubblico.

Le norme di cui all’art. 10 ed all’art. 13, lettera h) potevano subire delle deroghe nei casi tassativi di cui all’art. 14 e su decisione puntuale del Mini-stro dell’interno, previa istanza di parte. Le eccezioni potevano essere stabi-lite nei confronti di appartenenti alla razza ebraica che avessero un passato, personale o familiare, di meriti militari nelle guerre coloniali o di adesione alla causa fascista: i così detti ebrei discriminati.

L’art. 26, infi ne, istituì un giudice speciale per le questioni attinenti all’ap-plicazione del r.d.l., stabilendo che queste sarebbero state decise, caso per caso, dal Ministro dell’interno, sentiti i Ministri eventualmente interessati, previo parere di una Commissione da lui nominata e che le decisioni così assunte non sarebbero state soggette ad alcun gravame, né in via amministra-tiva né in via giurisdizionale.

Le restrizioni previste dall’art. 10 del r.d.l. n. 1728 del 1938 si tradussero in ulteriori norme di attuazione: quelle relative ai limiti della proprietà im-mobiliare ebbero seguito con il r.d.l. 9 febbraio 1939 – XVII, n. 126, e quelle relative al collocamento in congedo assoluto ed al trattamento di quiescenza del personale militare delle Forze armate dello Stato di razza ebraica con il r.d.l. 22 dicembre 1938 – XVII, n. 2111.

In particolare, il r.d.l. n. 126 del 1939 disciplinò le modalità di applica-zione delle restrizioni alla proprietà immobiliare per gli ebrei, stabilendo che si dovesse considerare l’intero patrimonio facente capo a ciascuna persona, compresi i diritti corrispondenti alla nuda proprietà ed all’enfi teusi e che i proprietari dovessero denunciare il proprio patrimonio all’uffi cio distrettua-le deldistrettua-le imposte di competenza, il quadistrettua-le, in mancanza, avrebbe provveduto d’uffi cio al relativo accertamento. In alternativa alla devoluzione del patri-monio eccedente i limiti imposti dall’art. 10 del r.d. n. 1728 del 1938 all’-istituito Ente di gestione e liquidazione immobiliare, i proprietari, a fronte di un corrispettivo determinato ai sensi degli artt. 20 e 21, avrebbero potuto

donarlo al proprio fi glio o coniuge di razza non ebraica, entro centottanta giorni dall’entrata in vigore del decreto-legge n. 126 del 1939.

Da notare che l’indennizzo per l’espropriazione delle quote di proprietà immobiliare eccedente i limiti era costituito da certifi cati trentennali, che venivano emessi dall’Ente, che avrebbero fruttato il 4% di interesse annuo e che sarebbero stati trasferibili solo tra persone appartenenti alla razza ebraica o anche a non appartenenti, ma esclusivamente per costituzione di dote o per l’adempimento ad obbligazioni precedenti all’entrata in vigore del decreto. In tali ultime ipotesi, il certifi cato trentennale sarebbe stato sostituito da un diverso titolo obbligazionario emesso dall’Ente.

Per quanto riguarda, poi, la gestione di aziende da parte degli ebrei, il Titolo II del regio decreto legge diede attuazione alle limitazioni imposte dall’art. 10, lettera c) del r.d.l. n. 1728 del 1938.

Oltre ai diritti di proprietà immobiliare, all’esercizio dell’impresa ed all’impiego nelle amministrazioni pubbliche ed aziende equiparate, nel 1939 furono precluse ai cittadini di razza ebraica anche l’esercizio delle professio-ni di notaio e di giornalista e fu limitato l’esercizio delle professioprofessio-ni di medi-co-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patro-cinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale. In particolare, furono istituiti albi speciali per gli ebrei c.d. “discriminati” e altri elenchi speciali per tutti gli altri ebrei.

Ma, al di là delle disposizioni legislative che imponevano restrizioni all’attività lavorativa, professionale ed imprenditoriale degli appartenenti alla razza ebraica, appaiono elementi caratterizzanti la normazione fascista ed il suo “progetto” razziale anche i puntuali, e meno noti, provvedimenti amministrativi che vietarono agli ebrei alcune specifi che attività. Si tratta delle numerose interdizioni imposte dalla Direzione di polizia tra il dicembre 1938 ed il dicembre 1942 che spaziavano, solo a titolo esemplifi cativo, dal divieto per gli ebrei di essere titolari di agenzie d’affari, di brevetti, di eserci-tare il commercio di preziosi, l’arte fotografi ca, la professione del mediatore, il mestiere di piazzista tipografo, di impiegare gas tossici, di effettuare la rac-colta di metalli, rottami rifi uti, indumenti militari fuori uso, alla preclusione della concessione di riserve di caccia, di licenza di pescatore dilettante, del porto d’armi, di allevamento di colombi viaggiatori.

Il 13 luglio 1939, con la legge n. 1055, vennero, quindi, emanate «di-sposizioni in materia testamentaria nonché sulla disciplina dei cognomi, nei confronti degli appartenenti alla razza ebraica», che stabilirono la nullità del-le condizioni testamentarie che subordinavano il conseguimento di un’ere-dità o di un legato alla appartenenza del benefi cato alla religione israelitica o che privavano questi dell’eredità o del legato nel caso di abbandono della religione medesima.

L’art. 2 della legge stabilì, poi, l’obbligo per gli appartenenti alla razza ebraica, non discriminati, che avessero mutato il proprio cognome in altro

che non rivelasse la loro origine ebraica, di riprendere il proprio cognome originario mentre gli articoli 3 e 4, al contrario, stabilirono che i non consi-derati di razza ebraica, fi gli di padre ebreo e di madre non appartenente alla razza ebraica, avrebbero potuto assumere il cognome materno e che i cittadi-ni italiacittadi-ni non ebrei che avessero un cognome tipicamente ebraico avrebbero potuto ottenere il cambiamento dello stesso.

La legge 19 aprile 1942 – XX, n. 517 stabilì, invece, l’esclusione degli ebrei dal settore dello spettacolo, vietando, oltre all’esercizio da parte degli appartenenti alla razza ebraica di qualsiasi attività nel campo dello spetta-colo, anche le rappresentazioni, esecuzioni, proiezioni pubbliche e registra-zioni di qualsiasi opera alla quale avessero concorso autori appartenenti alla razza ebraica, il commercio delle registrazioni stesse, nonché l’utilizzo in qualsiasi modo di soggetti, sceneggiature, opere letterarie, musicali, scien-tifi che ed artistiche di cui fossero autori appartenenti alla razza ebraica o a cui avessero collaborato, come personale artistico o tecnico appartenenti alla razza ebraica.

Come già accennato, in tema di limitazioni all’esercizio dell’impresa e delle professioni, molte restrizioni alle libertà nei confronti degli apparte-nenti alla razza ebraica vennero attuate attraverso provvedimenti ministe-riali e circolari. Si pensi, ad esempio, alla circolare del Duce del 15 novem-bre 1938, esortante i prefetti ad «una intensifi cata vigilanza sugli enovem-brei», oppure alla circolare del 12 ottobre 1941, rivolta dal Ministero dell’interno ai questori, sull’indicazione della razza ebraica nei lasciapassare per le co-lonie, oppure alle circolari del 18 gennaio e 17 aprile 1942, sempre del Ministero dell’interno ai questori, sul divieto di ingresso degli ebrei nei territori di Mentone, Slovenia e Dalmazia, oppure alla circolare del sot-tosegretario all’interno del 17 agosto 1940, recante il divieto di soggiorno nelle principali località turistiche, oppure ancora alla circolare del questore di Livorno del 5 giugno 1942 vietante qualsiasi «trasferimento estivo» agli ebrei assoggettati a lavoro obbligatorio, oppure, da ultimo, alla nota telefax del 5 dicembre dello stesso anno del Ministro dell’interno, contenente la segnalazione ai prefetti che «in alcune provincie ebrei vanno prendendo in affi tto ville e appartamenti […] per abitarli o subaffi ttarli», nonché l’invito ad impedire tali «accaparramenti e speculazioni di locali che devono essere riservati anzitutto agli ariani».

Nel documento L’ItaLIa aI tempI deL ventennIo fascIsta (pagine 167-173)