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Ivano Granata

A cento anni dalla nascita dei Fasci di combattimento, avvenuta il 23 marzo 1919 a Milano, nell’“adunata” di Piazza San Sepolcro, la storiogra-fi a ha ricostruito le problematiche relative al fascismo – dalle origini alla presa di potere, dalla trasformazione in regime fi no alla sua caduta – in un modo ampio e complessivamente adeguato sia sul piano fattuale, sia su quel-lo interpretativo. Proprio in ambito interpretativo tuttavia non sono mancate contrapposizioni assai vivaci sull’ideologia, sul ruolo e sulla collocazione del fascismo, che hanno interessato non solo il settore specifi co della storia d’Italia, ma anche il più vasto contesto dei sistemi dittatoriali e del totalitari-smo. Le polemiche, che hanno diviso studiosi di diverse estrazioni e scuole nell’ambito del cosiddetto rapporto politica-storiografi a, cominciarono di fatto alla metà degli anni Sessanta con la pubblicazione dei primi volumi della biografi a di Mussolini di Renzo De Felice e riguardarono il problema della collocazione a “sinistra” del fascismo diciannovista. Successivamen-te, col progressivo ampliamento delle indagini storiografi che su tutti i vari aspetti del regime, le polemiche, che assunsero talvolta un carattere aspro e anche di parte, fi nirono per coinvolgere tutto il ventennio fascista.

Ad anni di distanza le polemiche si sono gradualmente sopite e la sto-riografi a ha fi nito per elaborare interpretazioni che, in taluni casi, sono il frutto di un lavoro di “mediazione”, per così dire, tra diverse posizioni, che solo apparentemente in passato erano ritenute inconciliabili. In un momen-to in cui gli studi sul fascismo, al di là dell’impegno di alcuni noti studiosi e di pubblicazioni incentrate sugli anniversari, sembrano segnare il passo, soprattutto quelli sulle origini, si può cercare di ripercorrere alcuni dei prin-cipali aspetti del fascismo nel tentativo di comprendere se ormai certi giudizi possano essere considerati acquisiti oppure se ci sia ancora un margine per ulteriori approfondimenti. Questi ultimi dovrebbero riguardare in particolare il rapporto tra regime, “mussolinismo” e totalitarismo, di cui le nuove inter-pretazioni, dovute a studi più recenti, mettono in discussione certe acquisi-zioni del passato.

Per indicare il fascismo diciannovista si è spesso fatto riferimento al “programma di San Sepolcro”, che sarebbe stato la “base” di tutto il mo-vimento. In realtà tale programma non è mai esistito, se non in quella forma “mitica” che assunse durante gli anni del fascismo. Durante l’a-dunata costitutiva non venne, infatti, presentato nessun programma, ma furono discusse solo alcune indicazioni politiche generali. Un primo vero programma organico comparve sul Popolo d’Italia solo il 6 giugno ed è a questo che bisogna fare riferimento come programma delle origini ed è sempre a questo che si rivolgeranno poi le attenzioni e le polemiche degli storici. Sul piano politico i punti salienti riguardavano il suffragio univer-sale con rappresentanza proporzionale, il minimo di età per votare fi ssato in 18 anni, il diritto di voto e di eleggibilità per le donne, l’abolizione del Senato e la convocazione di un’Assemblea nazionale per defi nire la forma dello Stato. Sul piano sociale si rivendicavano le otto ore di lavoro per tut-ti, i minimi di paga e l’assicurazione sull’invalidità e sulla vecchiaia a 55 anni. Da ultimo, sul piano fi nanziario si chiedeva un’imposta straordinaria e progressiva sul capitale, che assumesse la forma di una vera espropria-zione parziale delle ricchezze, il sequestro dei beni delle Congregazioni religiose e la revisione dei contratti di forniture di guerra, con la confi sca dell’85% dei profi tti di guerra.

Un programma con tali caratteristiche appariva indubbiamente di “sini-stra” e sulla stessa posizione doveva quindi essere annoverato, come con-seguenza logica, il movimento che del suddetto programma si faceva por-tavoce. In realtà la situazione era più complessa e da essa emergevano le contraddizioni che caratterizzavano l’iniziale fascismo. Alla “coloratura” di sinistra del programma, facevano peraltro riscontro alcune posizioni del movimento che andavano in direzione opposta, in particolare l’antibolsce-vismo, che serviva come elemento catalizzatore nella lotta contro il Partito socialista, le rivendicazioni relative a Fiume e ai territori della Dalmazia e l’insistenza sul tema generale della “vittoria mutilata”. A ciò si aggiunga che certe posizioni espresse da Mussolini sul suo giornale in merito al mondo del lavoro e al ruolo del sindacalismo diffi cilmente avrebbero potuto essere condivise a sinistra.

Per comprendere meglio la situazione occorre anche evidenziare che il programma fascista fu elaborato materialmente dal Fascio di Milano, aspetto non sempre sottolineato in modo adeguato. Anche se il fascismo tentò, fi n dall’inizio, di espandersi su base nazionale, esso di fatto concentrò la propria attività soprattutto a Milano, che sarà l’unica circoscrizione elettorale in cui presenterà una lista propria alle prime elezioni politiche del dopoguerra. Il capoluogo lombardo tuttavia era in quel periodo un’autentica “roccaforte” del socialismo. Per poter quindi attirare nelle proprie fi le non solo i combat-tenti, gli interventisti di “sinistra” e coloro che professavano idee di stampo democratico e progressista e che erano rimasti delusi dalla politica del Psi, ma anche una parte dei lavoratori, il Fascio milanese riteneva necessario che

il programma avesse una “coloratura” di sinistra. Inizialmente “marcata”, essa diventerà successivamente, in vista delle elezioni, molto “sbiadita”. L’ambiguità fi nisce così per essere la chiave di volta interpretativa del fasci-smo diciannovista

La clamorosa sconfi tta elettorale subita a Milano nel novembre 1919 (4795 voti fascisti contro i 170.305 dei socialisti) dimostrò che i Fasci erano una forza assolutamente trascurabile nel panorama politico del paese e pose in dubbio l’esistenza stessa del movimento, che, per sopravvivere, muterà radicalmente la propria la propria linea di condotta. Nel gennaio del 1920 il fascismo condannò gli scioperi nazionali dei ferrovieri e dei postelegrafonici e spostò defi nitivamente a destra le proprie posizioni, cambiamento approva-to poi uffi cialmente a maggio dal secondo congresso. La “svolta” non fu solo ideologica, ma riguardò anche i dirigenti locali dei fasci e gli stessi militanti. Dal carteggio tra il Comitato centrale dei Fasci e le singole sezioni è infatti possibile verifi care che nel 1920 molti dirigenti “diciannovisti” vennero so-stituiti da altri più vicini alle nuove posizioni. Parecchi dei dirigenti originari sparirono defi nitivamente dalla scena politica, ma, paradossalmente, alcuni di loro aderiranno, a più di vent’anni di distanza, alla Repubblica sociale, trovando in essa il modello per l’attuazione di quel fascismo diciannovista, populista e di sinistra, che, messo in disparte all’inizio degli anni Venti, si prendeva ora la sua rivalsa.

Malgrado il mutamento di prospettiva, nel 1920 il fascismo continuò a rimanere un fenomeno nel complesso trascurabile. A capovolgere la situa-zione fu il fallimento, nel settembre 1920, dell’occupasitua-zione delle fabbriche. L’avvenimento è stato considerato a lungo come una possibile occasione ri-voluzionaria, ma tale ipotesi, ad anni di distanza da interpretazioni di vario genere, politiche e storiografi che, andrebbe rivista e riconsiderata, tenendo conto che, sul piano generale, non esistevano sostanzialmente le condizioni per dare origine a un movimento rivoluzionario. Per contro l’occupazione delle fabbriche mise a nudo le defi cienze dei socialisti, soprattutto dei mas-simalisti, sostenitori, a parole, della rivoluzione e incapaci invece di predi-sporre un’organizzazione in grado di tradurre in termini concreti i concetti rivoluzionari. Essa dunque fece comprendere ai ceti borghesi, detentori del potere politico ed economico, che, per l’incapacità del Psi, la rivoluzione in Italia non aveva nessuna possibilità di essere realizzata. I primi a ren-dersi conto della novità, e a muoversi di conseguenza, furono i proprietari terrieri, che mirarono ad abbattere quel movimento contadino al quale, nel timore della “rivoluzione” e dell’“occupazione delle terre”, avevano fatto ampie concessioni economiche e sociali nel biennio successivo alla guerra. In tale ottica essi puntarono pertanto sul fascismo, al quale diedero generosi contributi fi nanziari. A sua volta il fascismo, per realizzare gli obiettivi de-gli agrari e per sconfi ggere il movimento contadino, si servì della sua arma vincente, lo squadrismo, che già nel 1920 aveva svolto azioni intimidatorie nelle campagne. Così il fascismo, sorto come movimento politico “urbano”,

si trasformò in “agrario” e diventò «un crudele e implacabile movimento di interessi rivolto a fi ni ben precisati»1.

All’inizio del 1921 il rapido cambiamento di rotta del fascismo, passato da “urbano” ad “agrario”, fu quindi determinante per la sua affermazione. In tal modo il fascismo si apriva la strada alla conquista del potere. La vittoria mussoliniana fu però dovuta, in maniera consistente, anche alle scelte della classe politica e all’incapacità dei socialisti di capire cosa fosse realmente il fascismo e quindi di opporsi in modo effi cace. I liberali videro nel fascismo una “giovane forza” destinata a rinnovare e rinvigorire il liberalismo in stato di crisi. Mirando a tale obiettivo, Giolitti appoggiò, in vista delle elezioni del maggio 1921, la formazione dei Blocchi coi fascisti. Così facendo però «lo statista di Dronero giudicò il nuovo movimento ed il suo capo col semplici-smo proprio della sua mentalità, cioè come un materiale politico suscettibile di facile assorbimento2.

L’errata prospettiva sarà determinante. Il fascismo infatti non aveva nes-suna intenzione di farsi assorbire dal “sistema”, né di rinunciare ai suoi aspetti eversivi e all’uso della violenza. Un errore analogo a quello di Giolitti venne fatto da un altro liberale di notevole caratura, Luigi Albertini, diret-tore del Corriere della Sera, che, pur diffi dente nei confronti del fascismo, appoggiò il Blocco in chiave antisocialista, contribuendo così all’affermazio-ne del movimento. Secondo Albertini, il fascismo poteva essere considerato «l’espressione più esasperata della coscienza nazionale risorta» e «i suoi ec-cessi» dovevano sicuramente «essere deplorati». I fascisti però erano anche «l’ala estrema di un grande partito nazionale», che non voleva che l’Italia perisse «soffocata da una stolida e, presso le genti più civili, ormai superata utopia», quella cioè socialista3. Al momento poi della presentazione della lista Albertini non ammise alternative: «La lista non si commenta: si vota. È naturale che, scorrendo l’elenco dei nomi, lo spirito critico, svegliando simpatie e antipatie, dissoci. Ma il blocco è fatto per associare [...] Per ora non c’è che da accettare con lealtà e da collaborare con zelo [...] La lista, così com’è, è una “posizione” da cui bisogna battere il nemico comune»4. Al successo del fascismo diede il suo apporto anche la massoneria, la cui posi-zione «non si differenziava gran che da quella della grande maggioranza dei gruppi politici e della opinione pubblica liberaldemocratica; ne condivideva le preoccupazioni, ma riteneva ormai necessario far partecipare il fascismo al potere, sia per costituzionalizzarlo, sia per far uscire il paese dallo stato di precaria incertezza in cui si dibatteva»5. La parte liberaldemocratica del

1. A. Lanzillo, Le rivoluzioni del dopoguerra. Critiche e diagnosi, Il Solco Città di Ca-stello, 1922, p. 227.

2. C. Rossi, Mussolini com’era, Ruffolo Editore Roma, 1947, p. 98. 3. L’appello al paese, in Corriere della Sera, 8 aprile 1921. 4. I candidati del Blocco, in Corriere della Sera, 23 aprile 1921.

5. R. De Felice, Mussolini il fascista. I. La conquista del potere, Einaudi Torino, 1966, p. 351.

paese, in tutte le sue accezioni e le sue componenti, aveva fatto la scelta a fa-vore del fascismo, senza capire, probabilmente, a quali conseguenze sarebbe andata incontro con tale scelta.

Per quel che riguardava i socialisti, la loro analisi del fascismo era inade-guata e troppo semplicistica. Essi ritenevano infatti che il fascismo rappre-sentasse l’estremo tentativo messo in atto dalla società borghese e capitalista, di cui lo stato era l’espressione, per evitare la propria fi ne di fronte all’avan-zata delle masse popolari. Quando la rivoluzione avrebbe abbattuto lo stato e instaurato la dittatura del proletariato, anche il movimento mussoliniano avrebbe cessato di esistere. Questa linea, portata avanti dalla maggioranza massimalista, non subì mutamenti neppure di fronte all’importanza sempre maggiore che il fascismo andava assumendo. Appare quindi grottesco che nell’aprile del 1922, quando il fascismo era ormai diventato una realtà di rilie-vo, il movimento contadino era stato praticamente sconfi tto dallo squadrismo e il movimento operaio, che pure, in gran parte, era ostile alle posizioni mus-soliniane, cominciava a sua volta a mostrare qualche segno di scoraggiamento e di cedimento, il leader massimalista Serrati potesse fare un’affermazione di tal genere: «Il fascismo, funzione naturale della reazione borghese e perciò necessario, oggi va disgregandosi. A questo disgregamento va succedendo un irrobustirsi della classe lavoratrice, di cui si sente la necessità della rinascita»6. La sottovalutazione del fascismo risultava dunque evidente. Non solo il Psi era incapace di fare la rivoluzione, ma non sapeva neppure opporsi all’a-vanzata fascista né con un’azione di concerto con altre forze politiche, né facendo ricorso, a sua volta, a squadre armate che difendessero le istituzio-ni “rosse”. Grande fu quindi la responsabilità dei socialisti nell’avvento del fascismo. Il rilievo tuttavia non riguarda solo la componente massimalista, legata in modo irrazionale all’intransigenza ideologica, ma anche quella ri-formista, che fu incapace, in nome di un’unità socialista ormai solamente di facciata, di abbandonare il partito, di staccarsi dai massimalisti e di sceglie-re strade diffesceglie-renti, arrivando a quella collaborazione governativa che forse avrebbe ancora potuto bloccare l’offensiva fascista. La nascita del Partito socialista unifi cato, in cui confl uirono i riformisti espulsi dal Psi al congresso di Roma, svoltosi all’inizio di ottobre del 1922, sarà tardiva ai fi ni dell’elabo-razione di una concreta strategia antifascista.

Il 1921 risulta quindi l’anno cruciale per il fascismo, anno in cui vi fu anche la trasformazione, in seguito alla crisi dell’estate, dovuta al patto di pa-cifi cazione coi socialisti, che vide contrapposti Mussolini e i ras provinciali legati agli agrari, del movimento in partito. Il partito, che, politicamente, era, tutto sommato, il frutto di un compromesso, aveva sostanzialmente la struttu-ra di quelli di integstruttu-razione di massa, ma, gstruttu-razie all’apporto dello squadrismo e al sistematico uso della violenza, fi niva, di fatto, per avere una forma del tutto nuova, con caratteristiche diverse che diventeranno fondamentali. A tale

6. L’assemblea della Sezione socialista per l’unità, per la disciplina, per l’intransigenza, in Avanti!, 20 aprile 1922.

proposito uno studioso del calibro di Emilio Gentile sostiene che la nascita del fascismo «come fenomeno dominante nel periodo fra le due guerre non avvenne nel 1919», anno in cui non c’era ancora «l’embrione del fascismo di massa», ma appunto nel 1921 e più precisamente «l’11 novembre 1921, quando il movimento dei Fasci di combattimento, divenuto un movimento di massa profondamente diverso dal fascismo del 1919, si costituì in Partito na-zionale fascista, assumendo la struttura organizzativa originale e inedita del partito milizia, il primo nella storia dei partiti europei, e il primo a conqui-stare il potere in un paese europeo alla fi ne di ottobre del 1922»7. La “vera” nascita del fascismo andrebbe quindi postdata di due anni, cosa che compor-terebbe anche una revisione del ruolo, dell’evoluzione degli aspetti, seppur frammentari, dell’ideologia e della tattica del movimento “diciannovista”, nonché del suo effettivo legame con il fascismo degli anni successivi. In tali direzioni dovrà muoversi in futuro, per verifi care ulteriormente la tesi, quella storiografi a sulla crisi dello stato liberale che, come si è già sottolineato, al momento sembra avere perduto stimoli per un ulteriore approfondimento.

Nell’ottobre 1922, a meno di un anno dalla trasformazione del movimen-to in partimovimen-to, che segna il defi nitivo consolidamenmovimen-to della forza politica mus-soliniana, il fascismo arrivò, con la marcia su Roma, al potere. Per la con-quista del potere fu determinante l’atteggiamento del re, Vittorio Emanuele III, che si rifi utò di fi rmare il decreto, sottopostogli dall’allora presidente del consiglio Facta, di proclamazione dello stato d’assedio, fi nendo così, invece di far rispettare l’ordinamento e la prassi costituzionale, per cedere alle pres-sioni di una minoranza eversiva. Da parte di diversi studiosi si è equiparato l’atteggiamento del re a una sorta di colpo di stato. L’assenza di un’adeguata documentazione non consente di spiegare le motivazioni del comportamento del re, motivazioni da lui mai chiarite e su cui sono state formulate svariate ipotesi, che però tali sono sempre rimaste. Resta comunque il fatto che il re, chiamando Mussolini al governo, non fece altro che adeguarsi alla volontà non solo, come si è visto, di larga parte della classe politica liberale e della massoneria, ma anche degli apparati dello stato – esercito, forze dell’ordine, magistratura – da tempo favorevoli, in chiave antisocialista, a un ruolo più incisivo del fascismo nelle istituzioni e nella società.

Al momento della presa di potere, la base del fascismo era costituita, ol-tre che dalle masse contadine, cosol-trette, per evitare la violenza squadrista, a entrare nei sindacati fascisti e ad aderire al fascismo tout court, dal ceto medio. Secondo Agostino Lanzillo, in un’analisi fatta nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma, nelle città i fasci erano formati «in maggioranza gran-dissima, di impiegati, di piccoli rentiers, di studenti, di professionisti piccoli e medi. E quel che è più importante si è che i soci di simile organizzazione sono, nel maggior numero, uomini nuovi alla attività politica». Nel fascismo era confl uita dunque la «gente nuova», quella «folla che prima della guerra

assisteva indifferente od apatica alle vicende politiche e che ora è entrata nel-la contesa. Il fascismo ha mobilitato le sue forze nelnel-la zona grigia delnel-la vita politica, e da qui deriva la violenza scapigliata e l’esuberanza giovanile della sua condotta». Nel movimento mussoliniano, che si confi gurava quindi come «lo strumento politico della media borghesia»8, il cui ruolo determinante era rivestito da quegli “uomini nuovi” che, portati sulla ribalta politica dalla guerra e provenienti da quell’ambito comunemente chiamato “zona grigia”, avrebbero poi avuto una funzione di rilievo nell’instaurazione, come risulta in modo preciso dall’analisi di Hannah Arendt, dei totalitarismi. Successiva-mente il fascismo allargherà la propria base anche ad altri ceti sociali, trovan-do peraltro resistenze di vario tipo ad espandersi nel movimento operaio, che, sostanzialmente, resterà in buona misura “refrattario” all’assorbimento da parte del regime, ma continuerà a caratterizzarsi in chiave piccolo borghese.

Nel 1975 Renzo De Felice, nell’ambito della distinzione storiografi ca tra fascismo “regime” e fascismo “movimento”, sostenne che quest’ultimo era stato «in gran parte l’espressione di ceti medi emergenti», i quali cercavano di acquistare «partecipazione» e «potere politico» e che si ponevano come una «classe» mirante «ad affermarsi in quanto tale, e ad affermare la propria funzione, la propria cultura e il proprio potere politico contro la borghesia e il proletariato». Anche De Felice sottolineava che era stata la prima guerra mondiale a mobilitare «tutta una parte della società italiana», che, «restata sino allora in disparte» ed esclusa dal «potere effettivo» e dalla «partecipazione», avrebbe poi puntato, «attraverso il fascismo, a rivendicare, ad acquistare una sua funzione»9. Le tesi di De Felice furono all’epoca oggetto di forti critiche e suscitarono polemiche di vario genere, spesso strumentali, che proseguirono nel tempo. Ad anni di distanza risulta però evidente che il concetto di De Feli-ce di «Feli-ceti emergenti», sebbene formulato in modo diverso e basato, a poste-riori, su un quadro ormai delineato e su una miglior defi nizione dell’esperien-za fascista, era assimilabile a quello di «gente nuova», che già Lanzillo aveva sottolineato e che costituiva l’elemento chiave per lo sviluppo del fascismo, in cui avrebbe trovato un ruolo preciso e ben defi nito. Va peraltro rilevato che, al di là di certi riferimenti generali, manca ancora una storia complessiva dei ceti