1. Mi limiterò qui a qualche rifl essione condotta, per così dire, da cit-tadino più che da giurista, alla ricerca del senso ultimo, della più profonda matrice ideologica e culturale di una legislazione che, riletta a distanza di ottant’anni può apparire perfi no, da un certo punto di vista, e al di là della tra-gicità delle sue conseguenze, ridicola e inspiegabile: un impianto ideologico che contiene, come vedremo, anche delle evidenti contraddizioni.
Dobbiamo rifarci ai testi, non solo quelli legislativi, perché prima delle leggi ci sono i due documenti che sono già stati ricordati: il cosiddetto “Ma-nifesto degli scienziati razzisti”, cosiddetto perché non è il prodotto di una rifl essione scientifi ca, però come tale si presenta; e poi il documento politico che apre la stagione della legislazione razziale, cioè la “Dichiarazione sulla razza” votata dal Gran Consiglio del fascismo il 6 ottobre 1938: documento, questo, schiettamente politico.
Il razzismo fascista non è una questione che si inscriva in una controversia scientifi ca sull’esistenza o meno di diverse razze umane. Di recente qualcuno ha sostenuto che si dovrebbe togliere la parola “razza” dalla Costituzione (dall’art. 3, che afferma il principio di eguaglianza, fra l’altro, «senza distin-zione di razza»), perché la scienza ha dimostrato che le razze non esistono, smentendo così la proposizione con cui esordiva il manifesto degli scienziati fascisti («Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi»). Ma non si tratta di una controver-sia scientifi ca, bensì di una radice ideologica: l’affermazione della diversità delle razze era solo la premessa o il pretesto dell’ideologia razzista.
Quali conseguenze, infatti, venivano tratte dall’affermazione dell’esisten-za delle razze?
Il “Manifesto”, sempre nel primo punto, aggiungeva: «Dire che esistono le razze umane non vuol dire a priori che esistono razze umane superiori o inferiori, ma soltanto che esistono razze umane differenti». E, al punto 3,
ribadiva che «il concetto di razza è concetto puramente biologico», a diffe-renza dei concetti di popolo e di nazione, «fondati essenzialmente su consi-derazioni storiche, linguistiche, religiose». Sembrerebbe, dunque, che non si ponessero le premesse di un “orgoglio” razziale o di un intento persecutorio nei confronti degli appartenenti a “razze” diverse.
Il medesimo testo precisava poi che esistono «grandi razze» e «picco-le razze»: «picco-le prime, comunemente chiamate razze, costituirebbero i «gruppi sistematici maggiori», «individualizzati solo da alcuni caratteri» (e qui si allude alla «razza ariana» e a quelle non ariane, anche se poi si preferisce parlare di popolazioni di «origine ariana» e di «civiltà ariana»). Le «piccole razze» sarebbero i gruppi sistematici minori, «individualizzati da un maggior numero di caratteri comuni», e sarebbero questi «dal punto di vista biologico le vere razze, la esistenza delle quali è una verità evidente» (punto 2).
Quindi, continuava il “Manifesto”, anche se il concetto di razza è diver-so da quello di popolo e nazione, «alla base delle differenze di popolo e di nazione stanno delle differenze di razza»: «se gli Italiani sono differenti dai Francesi, dai Tedeschi, dai Turchi, dai Greci, ecc., non è solo perché essi hanno una lingua diversa e una storia diversa, ma perché la costituzione razziale di questi popoli è diversa» (punto 3).
Sarebbe «una leggenda» l’apporto, in Italia, di «masse ingenti di uomini in tempi storici»; per l’Italia «nelle sue grandi linee, la composizione razzia-le di oggi è la stessa di quella che era milrazzia-le anni fa» (punto 5). Dunque, ecco la conclusione, «esiste ormai una pura “razza italiana”», e questo enunciato si basa «sulla purissima parentela di sangue che unisce gli Italiani di oggi alle generazioni che da millenni popolano l’Italia. Questa antica purezza di sangue è il più grande titolo di nobiltà della Nazione italiana» (punto 6).
Dunque, anche se si parte dalla premessa della differenza fra il “concetto biologico di razza” e il “concetto storico-linguistico di popolo e di nazione”, poi però si fa della “razza” e della “purezza” della razza l’elemento distintivo della nazione; si dice che «è tempo che gli Italiani si proclamino franca-mente razzisti», che «tutta l’opera che fi nora ha fatto il Regime [fascista] in Italia è in fondo del razzismo», che «la questione del razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista puramente biologico, senza intenzioni fi losofi che o religiose», che «la concezione del razzismo in Italia deve essere essenzialmente italiana e l’indirizzo ariano-nordico»; e infi ne che si «vuole soltanto additare agli Italiani un modello fi sico e soprattutto psicologico di razza umana [signifi cativo questo inserimento di aspetti “psicologici” nel concetto “puramente biologico” di razza] che per i suoi caratteri puramente europei si stacca completamente da tutte le razze extra-europee, questo vuol dire elevare l’Italiano ad un ideale di superiore coscienza di se stesso e di maggiore responsabilità» (punto 7).
Al di là delle evidenti confusioni tra concetti che pur si afferma di volere tenere distinti, e di forzature storiche come quelle secondo cui «dopo l’inva-sione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di
popoli capaci di infl uenzare la fi sionomia razziale della nazione» (punto 5), o quelle per cui sono «da considerarsi pericolose le teorie che sostengono l’o-rigine africana di alcuni popoli europei e comprendono in una comune razza mediterranea anche le popolazioni semitiche e camitiche stabilendo relazioni e simpatie ideologiche [!] assolutamente inammissibili» (punto 8), ciò che emerge soprattutto è dunque la sostanziale identifi cazione della nazione con la pretesa “razza” italiana e dell’orgoglio nazionale con un “orgoglio razziale”.
Poi c’è, certo, il problema degli ebrei e dell’antisemitismo. Questo viene risolto affermando che «gli ebrei non appartengono alla razza italiana», che «dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della no-stra Patria nulla in generale è rimasto», perché «anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome»; e «del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo», mentre «gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani» (punto 9).
Dove va a parare questo miscuglio di teorie “biologiche” e di sciovinismo nazionalistico?
L’ultimo punto del “manifesto” lo rende chiaro, sia pure solo fi no a un certo punto. Poiché «i caratteri fi sici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo», «l’unione è ammissi-bile solo nell’ambito delle razze europee», mentre «il carattere puramente europeo degli Italiani viene alterato dall’incrocio con qualsiasi razza extra-europea e portatrice di una civiltà diversa dalla millenaria civiltà degli aria-ni» (punto 10). Ciò che si vuole prima di tutto non è tanto un processo di allontanamento o di esclusione degli appartenenti a una “razza” che si reputa diversa, ma scongiurare la “contaminazione”.
2. Tutto ciò risulta più chiaro se si porta l’attenzione sull’altro documento di base del razzismo fascista: la “Dichiarazione sulla razza” votata dal Gran Consiglio del Fascismo il 6 ottobre 1938.
Questo è un documento senza pretese scientifi che, ma schiettamente po-litico. Esso esordiva affermando «l’attualità urgente dei problemi razziali» e «la necessità di una coscienza razziale». Rivendicava al fascismo di avere svolto e di svolgere «un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitati-vo e qualitatiquantitati-vo della razza italiana» – sembra di sentir parlare un produttore preoccupato della selezione e del miglioramento di animali da allevamento – e affermava che tale miglioramento «potrebbe essere gravemente compro-messo, con conseguenze politiche [politiche, si noti] incalcolabili, da incroci e imbastardimenti». Ciò che preoccupava è dunque la difesa della “purezza” della “razza”!
Poi compare il problema ebraico, ma, signifi cativamente, presentato solo come «l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale».
Ed ecco ciò che il Gran Consiglio “stabilisce”, dettando le direttive per la legislazione del regime: «a. il divieto di matrimoni di italiani e italiane con
elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane; b. il divieto per i dipendenti dello Stato e da Enti pubblici – personale civile e militare – di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza [in questo caso, chissà perché, non è previsto il divieto per le italiane di sposare uomini stranieri]; c. il matrimonio di italiani e italiane con stranieri, anche di razze ariane, dovrà avere il preventivo consenso del Ministero dell’Inter-no; d. dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio [?] della razza nei territori dell’Impero».
L’obiettivo fondamentale è dunque la prevenzione di ogni “contaminazio-ne” della “razza italiana”: in primis gli “incroci” con persone appartenenti alle razze extraeuropee, ma anche con “razze” diverse dalla “piccola razza” italiana di cui parlava il manifesto degli scienziati, dunque una difesa della “nazionalità” italiana.
Un razzismo, quello fascista, che in realtà è una forma esasperata di na-zionalismo, che pretende di difendere una “identità nazionale” cui si “presta-no” pretesi caratteri “fi sici e psicologici” riferiti alla presunta “razza italia-na”. Sono davvero tanto diverse certe forme di razzismo odierno, pur certo assai più blande, quando si sostiene l’esigenza di salvaguardare l’identità degli “italiani” dal “pericolo” di invasioni di stranieri?
Anche la dichiarazione del Gran Consiglio, naturalmente, arriva al “blema ebraico”: ed è molto signifi cativo il taglio con cui l’affronta. Il pro-blema vero non è la differenza di “razza” degli ebrei, ma quello che viene considerato il ruolo politico dell’“ebraismo mondiale”. Questo, afferma la “Dichiarazione”, «– specie dopo l’abolizione della massoneria [dunque si introduce un elemento cultural-politico del tutto estraneo al “problema” raz-ziale] – è stato l’animatore dell’antifascismo»; «l’ebraismo estero o italiano fuoriuscito» è stato in certi periodi (si ricorda la guerra etiopica) «unani-memente ostile al Fascismo»; l’immigrazione di stranieri «ha peggiorato lo stato d’animo degli ebrei italiani nei confronti del Regime, non accettato sinceramente, poiché antitetico a quella che è la psicologia, la politica e l’internazionalismo d’Israele»; «tutte le forze antifasciste fanno capo ad ele-menti ebrei». Come si vede, la questione “razziale” cede apertamente il cam-po alla questione cam-politica: gli ebrei andavano espulsi, segregati o limitati nei loro diritti non tanto perché di razza “non ariana”, quanto perché antifascisti: “razzismo politico” allo stato puro.
Da queste premesse prendono le mosse le direttive del regime sul divieto di ingresso nel Regno degli ebrei stranieri e sulla «indispensabile» espulsio-ne degli «indesiderabili» (termiespulsio-ne, quest’ultimo, che si afferma «messo in voga e applicato dalle grandi democrazie»).
Tutto ciò poneva però il problema del rapporto fra appartenenza alla “raz-za ebraica” e cittadinan“raz-za italiana, e quello della identifi cazione degli appar-tenenti a quella “razza”.
Sul primo tema, non potendosi evidentemente pensare ad una espulsione di massa di cittadini italiani, ci si limitava a prevedere il divieto di entrata e
l’espulsione per gli ebrei stranieri, con limitate eccezioni per gli ultrasessan-tacinquenni e per coloro che fossero sposati con persone non ebree prima del 1° ottobre 1938.
Sul tema, più diffi cile, di stabilire “chi fosse ebreo”, anche fra i cittadini italiani, il Gran Consiglio indicava minuziosi criteri che smentiscono cla-morosamente il presupposto “biologico-razziale” affermato dal “Manifesto degli scienziati”, secondo cui gli ebrei sarebbero l’unica popolazione mai assimilata in Italia perché «costituita da elementi razziali non europei».
Infatti si stabiliva nella dichiarazione, a proposito degli ebrei di cittadi-nanza italiana: «a. è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei» (mentre, come si sa, nella tradizione ebraica si considera ebreo chi nasce da madre ebrea); «b. è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera» (torna, applicato agli ebrei, il tema della difesa della “razza italiana”; i fi gli di padre ebreo e di madre ita-liana, a differenza di quelli di madre straniera, non sono considerati di “razza ebraica” ma di “razza italiana”); «c. è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica» (ed ecco che si introduce un altro elemento discriminante, per nulla “biologico”, attinente alla religione professata); «d. non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori di quella ebraica», ma «alla data del 1° ottobre 1938»! Si teme-vano evidentemente “conversioni” di comodo.
Si prevedevano poi le norme limitatrici dei diritti per i cittadini italia-ni «appartenenti alla razza ebraica». Queste norme – «nell’attesa di una nuova legge concernente l’acquisto della cittadinanza italiana» riguardano il divieto di: «a. essere iscritti al Partito Nazionale Fascista; b. essere pos-sessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone; c. essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno; d. prestare servizio militare in pace e in guerra». Infi ne «l’esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti». Dunque tipici diritti politici legati alla cittadinanza (nel sistema antidemocratico proprio del regime, al diritto di voto si sostituisce il diritto di iscriversi al partito di regime: e d’altra parte l’appartenenza al pubblico impiego era condizionata all’iscrizione al parti-to), ma anche diritti economici. Ai cittadini ebrei si precludevano la grande proprietà terriera e la proprietà o la conduzione in qualità di dirigenti di gran-di aziende. È ciò che si troverà normato e specifi cato nelle leggi che gran-diedero seguito alla “Dichiarazione”.
Tuttavia anche a questo proposito si introducono delle eccezioni che nuo-vamente e clamorosamente contraddicono il criterio “razziale” in favore di un criterio “politico” di discriminazione. Infatti si escludeva l’applicazione di ogni “discriminazione” (veniva proprio usato questo termine), «quando non abbiano per altri motivi demeritato», agli appartenenti a famiglie conside-rate benemerite del regime: famiglie di caduti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola; di combattenti in tali guerre insigniti della croce al
me-rito di guerra; di «Caduti per la Causa fascista»; dei mutilati, invalidi, feriti «della Causa fascista»; di «Fascisti iscritti al Partito negli anni 1919, 1920, 1921, 1922 e nel secondo semestre del 1924», e di «legionari fi umani» (si noti il pignolo riferimento addirittura ad uno specifi co semestre di iscrizione al partito), nonché alle «famiglie aventi eccezionali benemerenze che saranno accertate da apposita commissione». A tale assenza di discriminazione (o “discriminazione” positiva) si faceva un’unica eccezione, che a sua volta non aveva nulla a che fare con la “razza”: anche a questi ebrei di cittadinanza ita-liana “discriminati” in senso favorevole, sarebbe rimasto precluso «l’insegna-mento nelle scuole di ogni ordine e grado», in nome, evidentemente, di una ragione di ordine culturale ed “educativo”, per non “scandalizzare”, cioè, gli alunni italiani con la presenza di insegnanti ebrei! (nelle leggi si aggiungerà il divieto di adottare nelle scuole libri di testi di autori ebrei).
La “Dichiarazione” proseguiva con alcune “concessioni” (riconoscimen-to della pensione agli impiegati pubblici allontanati in quan(riconoscimen-to ebrei; repres-sione rigorosa di «ogni forma di presrepres-sione sugli ebrei, per ottenere abiure»; nessuna innovazione «per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l’at-tività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti»), e con un’apertura («non si esclude») verso la «possibilità di concedere, anche per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia», con l’avvertenza tuttavia che «questa eventuale e le altre condizioni fatte agli ebrei, potranno essere annullate o aggravate a seconda dell’atteggiamento che l’ebraismo assumerà nei ri-guardi dell’Italia fascista». È signifi cativa l’insistenza nella identifi cazione degli ebrei non con una religione o con una “razza”, ma con un “ebraismo” in cui si vedeva essenzialmente un nemico politico.
La conclusione della dichiarazione era un elogio alla istituzione di cat-tedre universitarie di “studi sulla razza” e l’annuncio che «alle direttive del Gran Consiglio devono ispirarsi le leggi che saranno sollecitamente prepa-rate dai singoli Ministri».
3. È dunque palese, tornando al discorso delle “radici”, che il fascismo ha adottato ed espresso una ideologia in cui la “razza” come elemento pre-tesamente “biologico” era poco più che un pretesto, e cedeva il passo ad una concezione ultra-nazionalista di difesa della diversità e della “purezza” della nazione (chi poteva credere davvero all’esistenza di una “razza italiana”?), e quindi alla affermata necessità di evitare “incroci e imbastardimenti” (anche le parole sono molto signifi cative).
L’ideologia nazionalista ha il suo fondamento in un malinteso “orgoglio nazionale” e ha un nemico: lo straniero. Il rischio è quello della “contamina-zione” e della perdita dei “caratteri nazionali”.
Si comprende allora forse non solo perché il fascismo abbia maturato questa ideologia, predicando «l’attualità urgente dei problemi razziali» e la «necessità di una coscienza razziale» intesa come coscienza nazionale; ma anche perché questa visione abbia potuto essere accettata da un popolo come
quello italiano di per sé non incline allo sciovinismo nazionale (in Italia non ha mai abitato un’idea di grandeur alla francese). Il fascismo si è presentato e ha agito come interprete della nazione, e si è quindi alimentato della reto-rica e dei miti che nella stagione della costruzione dell’Italia risorgimentale – che pure ha visto come protagoniste forze, dai liberali ai mazziniani ai garibaldini, tutt’altro che reazionarie e “suprematiste”, e che si è avvalsa, dalle guerre di indipendenza ottocentesche alla prima guerra mondiale, di appoggi e di alleanze ben al di là dei confi ni nazionali – hanno nutrito la cultura “uffi ciale”.
Gli ebrei a loro volta sono “nemici” perché visti come espressione di un ebraismo considerato come forza antifascista. Non so quanto si possa dire che l’ebraismo italiano esprimesse di per sé una cultura antifascista: forse una cultura aliena dall’assimilarsi più o meno forzatamente all’idea fascista di nazione. Lascio agli storici il compito di approfondire se e in che misura l’ebraismo italiano dagli anni Venti in poi abbia costituito un “luogo” di re-sistenza antifascista. Ma è certo che il fascismo lo ha considerato un nemico politico più che una forza estranea alla nazione: come confermano anche le esenzioni che il fascismo riconosceva agli ebrei che avessero meriti “fasci-sti”, tanto da escluderli dalle discriminazioni antiebraiche.
4. Questa ideologia e questi “programmi” politici trovano puntuale rea-lizzazione nelle leggi varate dal regime dal 1938 al 1943. All’epoca dell’ap-provazione della “Dichiarazione” del Gran Consiglio erano già entrati in vigore due provvedimenti rilevanti in materia. Il primo è il RDL 7 settembre 1938, n. 1381, pubblicato ed entrato in vigore il 12 settembre 1938, recan-te “Provvedimenti nei confronti degli ebrei stranieri”, che vietava loro di «fi ssare stabile dimora nel Regno, in Libia e nei Possedimenti dell’Egeo» (art. 1); prevedeva che fosse considerato ebreo «colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica» (art. 2); disponeva la revoca delle concessioni di cittadinanza fatte a ebrei stranieri dopo il 1° gennaio 1919 (art. 3), e stabiliva che coloro che si trovassero nel territorio nazionale e avessero iniziato a soggiornarvi dopo il 1° gennaio 1919 dovessero lasciarlo entro sei mesi, pena l’espulsione dal Regno ai sensi dell’art. 150 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (sull’espulsione degli stranieri per condanna penale o per motivi di ordine pubblico), previa l’applicazione delle pene stabilite dalla legge (art. 4). L’art. 5 demandava la risoluzione delle controversie sull’applicazione del decreto legge ad un provvedimento del Ministro dell’Interno di concerto con i Mi-nistri eventualmente interessati, non soggetto «ad alcun gravame né in via amministrativa, né in via giurisdizionale».
Il secondo provvedimento è il RDL 5 settembre 1938, n. 1390, pubblicato ed entrato in vigore il 13 settembre, e intitolato “Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista”. Anche questo era dedicato non alla “razza italiana”, ma al tema degli ebrei. Con esso si vietava nelle scuole statali, parastatali e riconosciute di ogni ordine e grado la presenza di insegnati «di