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Le leggi razziali e la giurisprudenza del Consiglio di Stato

Nel documento L’ItaLIa aI tempI deL ventennIo fascIsta (pagine 124-129)

Alessandro Pajno

4. Le leggi razziali e la giurisprudenza del Consiglio di Stato

Veniamo adesso alle leggi razziali e alla loro interpretazione giurispru-denziale.

La Corte Costituzionale, ha, come è noto, affermato14 che le discrimina-zioni nei confronti degli ebrei, lesive dei diritti fondamentali e della digni-tà della persona, hanno assunto consistenza normativa con un complesso di provvedimenti che hanno toccato i diversi settori della vita sociale: dalla scuola (regio decreto legge 5 settembre 1938, n. 1390; regio decreto legge 15 novembre 1938, n. 1779), all’esercizio delle professioni (legge 29 giugno 1939, n. 1054); dalla materia matrimoniale (regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728), a quella delle persone, del nome e delle successioni (legge 13 luglio 1939, n. 1055); dall’interdizione all’esercizio di determinati uffi ci, alle limitazioni in materia patrimoniale e nelle attività economiche (ancora il regio decreto legge n. 1728 del 1938).

Secondo la Consulta «in questo contesto normativo, la discriminazione razziale si è manifestata con caratteristiche peculiari, sia per la generalità e sistematicità dell’attività persecutoria, rivolta contro un’intera comunità di minoranza, sia per la determinazione dei destinatari, individuati come ap-partenenti alla razza ebraica secondo criteri legislativamente stabiliti (art. 8 del regio decreto legge n. 1728 del 1938), sia per le fi nalità perseguite, del tutto peculiari e diverse da quelle che hanno caratterizzato gli atti di perse-cuzione politica: la legislazione antiebraica individua una comunità di mino-ranza, che colpisce con la “persecuzione dei diritti”, sulla quale si innesterà, poi, la “persecuzione delle vite”».15

La legislazione fascista permeò l’intero sistema ordinamentale determi-nando un grave vulnus alla tradizione e alla civiltà giuridica sino a quel mo-mento esistenti nel nostro Paese.

Dall’art. 1 del codice civile del 1865, ai sensi del quale «ogni cittadino gode dei diritti civili», si passò all’art. 1 del codice civile del 1942 – entrato però in vigore nel 1939 – ai sensi del quale «le limitazioni alla capacità giu-ridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali»16; dall’art. 3 del citato codice del 1865 secondo il quale «lo stra-niero è ammesso a godere dei diritti civili attribuiti ai cittadini» si passò alla previsione della condizione di reciprocità di cui all’art. 16 delle disposizioni sulla legge in generale del codice civile del 1942.

14. Corte cost., 17 luglio 1988, n. 268. 15. Corte cost., 17 luglio 1988, n. 268, cit.

16. Sull’impronta anti-egalitaria codifi cata con il primo libro del codice civile, approvato il 12 dicembre 1938 ed entrato in vigore il 1° luglio 1939 si veda, da ultimo, G. Alpa, Diritto civile italiano, cit., pp. 446 ss.; si veda, altresì, G. Cianferotti, Status e legislazione razziale – Francesco Santoro Passarelli esegeta dell’art. 1 del codice civile, in Le Carte e la Storia, 2013, pp. 21 ss.; nonché U. G. Zingales, La giurisprudenza sulle leggi razziali, cit., pp. 4 ss.

Le leggi razziali, pur se adottate rispettando il principio di legalità forma-le, rappresentarono una frattura rispetto all’ordinamento dello Stato liberale italiano e allo Statuto albertino il cui art. 24 enunciava il principio di egua-glianza dinanzi alla legge.

Anche la comunità dei giuristi prese parte, in qualche modo, attivamente, alla formazione ed alla applicazione delle leggi in difesa della razza, a quello che è stato talvolta chiamato il “razzismo giuridico” italiano17.

Un riferimento particolare va, come è stato esattamente affermato18, oltre alle ben note Razza e civiltà e La difesa della razza, alla rivista Il diritto razzista, che registrò l’adesione e la partecipazione di rappresentanti dell’ac-cademia, di avvocati ed anche di alti magistrati della Corte di cassazione, del Consiglio di Stato e della Corte dei conti19; si sviluppò, così, anche cultural-mente, un “diritto disuguale”20.

In questo quadro ordinamentale si trovarono ad operare i giudici civili, penali, amministrativi21.

Non sarebbe veritiero e sarebbe ingeneroso rispetto alle vicende tragiche accadute nel periodo dal 1938 al 1945 affermare che l’interpretazione che i giudici italiani hanno dato alle leggi fasciste e, in particolare, alle leggi razziali, abbia rappresentato una forma di “resistenza” nel senso autentico di questo termine.

E, infatti, l’ordine giudiziario è stato parte dello Stato fascista; peraltro, i giudici dell’epoca non avevano tutte le garanzie di indipendenza dal Governo e dal potere politico che la Costituzione, memore di ciò che accadde durante il fascismo, ha loro riconosciuto.

È d’altro canto utile esaminare la giurisprudenza di questo periodo per comprendere se e in quali modi i giudici abbiano voluto e potuto utilizzare gli strumenti interpretativi e processuali per temperare la portata normativa di leggi che partendo dalla «persecuzione dei diritti» sono giunte alla «perse-cuzione delle vite” delle persone di religione e di cultura ebraica e, purtrop-po, al loro annientamento.

In quel drammatico frangente storico chi esercitava la giurisdizione si trovò innanzi a un crocevia: scegliere di essere la mera bouche de la loi, cioè fungere da voce della legislazione fascista, ovvero rifarsi ai principi generali dell’ordinamento liberare e adottare interpretazioni che ridimensionassero

17. I conti dei giuristi, in particolare dei civilisti, con il fascismo sono ancora aperti sottolinea G. Alpa, Diritto civile italiano, p. 423. Sul problema dell’antisemitismo e sulla legislazione razziale si veda G. Alpa, Diritto civile italiano, pp. 432 ss.

18. G. Canzio, Le leggi antiebraiche e il ceto dei giuristi, in A. Meniconi e M. Pezzetti, Razza e inGiustizia, Roma, 2018, p. 42.

19. Si veda G. Alpa, Diritto civile italiano, cit., pp. 433 ss.

20. G. Canzio, Le leggi antiebraiche e il ceto dei giuristi, cit., pp. 42 ss.

21. Sui rapporti fra le magistrature, specie quelle superiori, ed il fascismo, si veda G. Melis, La macchina imperfetta, cit., pp. 342 ss.

la portata “rivoluzionaria” delle normative fasciste, riducendone il campo di applicazione.

Il dilemma è stato risolto in modo diverso da Corte a Corte, da giudice a giudice, da persona a persona e non può essere passato sotto silenzio che vi furono diverse sentenze “adesive” allo spirito di tali leggi.

Tuttavia si deve rilevare che l’interpretazione giurisprudenziale – specie di alcune Corti – ha comportato il riconoscimento della possibilità di una tutela giurisdizionale per i cittadini ebrei destinatari di provvedimenti lesivi dei loro diritti o interessi che non era in linea con la volontà espressa dal legislatore fascista.

Il legislatore del 1938 aveva perseguito un intento opposto, come risulta nell’art. 26 del R.D.L. n. 1728 del 1938, che riprende le statuizioni contenute nella Dichiarazione sulla razza del Gran Consiglio del Fascismo del 6-7 ot-tobre 1938, ai sensi del quale «le questioni relative all’applicazione del pre-sente decreto saranno risolte, caso per caso, dal Ministro per l’interno, sentiti i Ministri eventualmente interessati, e previo parere della Commissione da lui nominata. Il provvedimento non è soggetto ad alcun gravame, sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale».

In relazione a tale disposizione, che rivestiva un valore cruciale nell’eco-nomia generale delle leggi razziali, occorre ricordare come la IV Sezione del Consiglio di Stato non ritenne di attribuire carattere costituzionale al R.D.L. n. 1728 del 1938 in assenza dei requisiti prescritti per le leggi costituzionali dall’art. 2 del R.D. 24 settembre 1931 n. 1256, depotenziandone in tal modo la forza rispetto alle altre fonti dell’ordinamento22. Si è trattato, come è stato osservato, di un importante tentativo di depotenziamento delle leggi razziali, negandone la portata di norma costituzionale23.

D’altra parte, la Corte di Appello di Torino, alla quale si deve una giuri-sprudenza particolarmente illuminata, con una pronuncia del 5 maggio 1939 osservò che l’art. 26 non aveva la forza di derogare alla normativa comune, espressione di consolidati principi generali di tutela dei cittadini, affermando che «in mancanza di una manifesta e sicura deroga al diritto comune (art. 5 preleggi), avuto presente l’art. 2 della legge 20 marzo 1865, occorre rite-nere che restino incluse nella considerazione dell’art. 26 le sole questioni di natura amministrativa che possano insorgere nella pratica applicazione del decreto, ove si discuta di interessi protetti senza che siano dedotti diritti soggettivi delle parti, ma che vi siano escluse invece quelle che hanno per oggetto siffatti diritti»24.

22. Cons. Stato, IV, 31 luglio 1940, n. 438, in Foro It., 1941, III, c. 18 23. U.G. Zingales, La giurisprudenza sulle leggi razziali, cit., p. 8

24. Corte di appello di Torino, 5 maggio 1039, in Foro It., 1939, I, c. 215. Sulla sentenza del 1939 della Corte di appello di Torino, e sul ruolo particolare nel determinare l’indirizzo giurisprudenziale della Corte di appello di Torino svolto dal suo Presidente Peretti Griva, si veda G. Acerbi, Le leggi antiebraiche italiane ed il ceto dei giuristi, cit., pp. 116 ss. Signifi -cativamente G. Acerbi sottolinea la particolare accortezza della Corte torinese che, per

fon-In tal modo venne sottratta all’autorità amministrativa – per riservarla in questo caso all’autorità giudiziaria ordinaria – la conoscenza di questio-ni sull’appartenenza dei cittadiquestio-ni ad una determinata razza; tale sottrazione avviene attraverso un’opera interpretativa che riuscì, in qualche modo, a far-si strada, pur in un contesto giuridico, che riconosceva nell’appartenenza il presupposto per il godimento dei diritti civili e politici attinenti allo status della persona.

Tale linea interpretativa trovava ulteriori conferme nelle pronunce del Consiglio di Stato; quest’ultimo, nella sentenza della V Sezione, affermava, così, espressamente che «non bisogna dimenticare che il ricorso agli organi giurisdizionali costituisce garanzia fondamentale concessa dall’ordinamento giuridico ad ogni soggetto di diritto»25.

In qualche modo, pertanto, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato nel periodo dal 1938 al 1945 i cittadini ebrei hanno continuato ad essere “soggetti di diritto” meritevoli, in quanto tali, di tutela giurisdizionale, nono-stante la ratio della legislazione razziale fosse proprio quella di incidere sulla capacità giuridica degli ebrei per negare loro la possibilità di essere soggetti pleno iure.

Afferma, infatti il Consiglio di Stato che «giudicare sulle conseguenze ulteriori, specialmente di ordine patrimoniale, dell’appartenenza alla razza ebraica non implica valutazioni di ordine politico, ma l’applicazione, solo, di rigorose norme di diritto. Si arriverebbe, altrimenti, alla assurda conseguen-za che il Ministro per l’Interno potrebbe decidere ad libitum, senconseguen-za alcuna garanzia di procedura e senza possibilità di controllo giurisdizionale, con-troversie civili, in tema, ad esempio, di nullità del matrimonio, di privazione della patria potestà, di proprietà di beni immobili, e così via e controversie anche di natura penale, relative ai vari reati contemplati dalla legge per la difesa della razza»26.

dare la propria pronuncia, non fece riferimento al principio di eguaglianza stabilito dall’art. 24 dello Statuto albertino, derogabile dalle leggi ordinarie, come erano quelle antiebraiche, ma, da un lato, alle leggi di emancipazione degli ebrei emanate da Carlo Alberto nel 1848 e dall’altro, ad una legge del 1929, di complemento al concordato, nonché a norme del libro I del codice civile di prossima entrata in vigore (G. Acerbi, op. ult. cit., p. 117). Si veda anche S. Falconieri, Tra silenzio e “militanza”. La legislazione antiebraica nelle riviste giuridiche italiane (1938-1943), in Le leggi antiebraiche nell’ordinamento italiano, il Mulino Bologna, 2013, che sottolinea come, attraverso gli strumenti interpretativi, operasse «una sorta di neu-tralizzazione della legislazione antiebraica».

25. Cons. Stato, V, 11 luglio 1941, in Foro It., 194, III, p. 249. Sulla giurisprudenza del Consiglio di Stato sulle leggi razziali, si veda A. Patroni Griffi , Il Consiglio di Stato ed il regime fascista. Il Commento, in G. Pasquini e A. Sandulli (a cura di), Le grandi decisioni del Consiglio di Stato, Giuffrè Milano, 2001, p. 178; A. Patroni Griffi , Le leggi razziali e i giudici: considerazioni sugli spazi di ermeneutica giudiziaria nel regime fascista, in Le Carte e la Storia, XXII, 2016, n. 1, pp. 107 ss. Si vedano anche G. Melis, Fare lo Stato per fare gli italiani, cit., pp. 194 ss.; id., La macchina imperfetta, cit., pp. 560 ss.

Facendo leva sul principio di legalità, si pervenne quindi ad una let-tura delle leggi razziali come eccezioni straordinarie ai principi generali dell’ordinamento ancora vigenti, da interpretare in maniera esclusivamen-te restrittiva27.

L’attività sia giurisdizionale che consultiva del Consiglio di Stato negli anni che vanno dal 1938 a seguire (sino al 1945) in materia di leggi razziali ha mirato da un lato a delimitare la categoria degli atti politici e dall’altro a circoscrivere l’ammissibilità delle limitazioni agli strumenti di gravame stabiliti dalla legge, garantendo comunque l’esperibilità dei rimedi giustiziali in materia di provvedimenti sulla razza anche se riguardanti lo stesso status di ebreo.

Così, ad esempio, il Consiglio di Stato ritenne che le controversie patri-moniali in materia di licenziamenti per motivi di razza dovessero essere as-soggettate alle ordinarie garanzie procedimentali e processuali28; riconobbe allo straniero ebreo, privo dello status civitatis, la capacità e la legittimazione a ricorrere davanti a sé, in quanto anche gli ebrei non italiani «quando risie-dono nel regno sono ammessi a godere dei diritti civili»29; annullò la revoca dell’iscrizione all’anno accademico di uno studente tedesco di madre ebrea, considerando la revoca un potere eccezionale esercitabile solo in presenza di situazioni altrettanto eccezionali, non ravvisabili nel divieto vigente secondo le leggi tedesche30; elaborò un’interpretazione illuminata dei concetti di indi-pendenza e inamovibilità dei professori universitari, espressione e garanzia della libertà di insegnamento, riconoscendo ai professori ebrei dispensati dal servizio in forza delle leggi razziali un assegno calcolato sulla base dell’inte-ro trattamento economico, al pari degli altri colleghi “ariani”31.

Il giudice amministrativo anche in sede di applicazione delle leggi raz-ziali sembra quindi avere scelto la continuità, per quanto possibile, con l’ordinamento liberale e i suoi principi e con la sua funzione di tutela delle posizioni soggettive nei confronti dell’amministrazione, pur in presenza di uno Stato autoritario, di un impianto legislativo “nuovo” e “alieno” rispetto al previgente sistema di principi e di fronte a gravi sospensioni delle libertà fondamentali.

Si tratta di una scelta sicuramente non eroica, ma, come ha detto Carlo Arturo Jemolo, “dignitosa” perché operata in assenza delle garanzie costitu-zionali di indipendenza.

Una scelta che ha trovato anche riconoscimento in sede di Assemblea Costituente, quando nel dibattito sviluppatosi sull’opportunità di trasformare le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato in sezioni specializzate degli

27. A. Patroni Griffi , Il Consiglio di Stato e il regime fascista. Il Commento, cit., p. 178 ss. 28. A. Patroni Griffi , Il Commento, cit., p. 178.

29. Cons. Stato, V, 19 giugno 1940, n. 401. 30. Cons. Stato, IV, 2 giugno 1943, n. 181. 31. Cons. Stato, IV, 24 settembre 1941, n. 342.

organi ordinari di giurisdizione, l’onorevole Bozzi, per sottolineare l’oppor-tunità di mantenere la giurisdizione amministrativa, oltre a evidenziarne la specialità in quanto giurisdizione dominata dal criterio dell’interesse pubbli-co, ne rammentò le decisioni più importanti e coraggiose, «specie in materia di razza, di stampa e di insegnamento, prese anche nei periodi in cui il fasci-smo era più in auge»32.

Il che certo non signifi ca non ammettere che il Consiglio di Stato non si sottrasse alla logica complessiva del sistema, cioè del regime fascista, né che ne contestò i presupposti illiberali e l’evoluzione autoritaria dell’organizza-zione del potere.

Si deve, pertanto essere d’accordo con il giudizio quasi unanime degli studiosi sul fatto che «non si può defi nire resistenza» l’azione della magi-stratura e che le decisioni e gli orientamenti richiamati «non attenuano le re-sponsabilità di una nazione e di un popolo, a partire dalle sue classi dirigenti, di cui soprattutto gli alti gradi della magistratura erano espressione»; tuttavia non può disconoscersi che la giurisprudenza ha in qualche modo dato prova dell’“esistenza” o, per meglio dire, della “persistenza” della giurisdizione in Italia, non ridotta a mero simulacro dello Stato, come è avvenuto in altri regimi totalitari coevi.

Il quesito è tuttavia se, in certi momenti storici, la “persistenza” sia suffi -ciente: se, cioè la testimonianza silenziosa, anche se chiara, dell’esistenza di alcune regole di diritto, sia idonea ad evitare le conseguenze pregiudizievoli di leggi contrarie ad ogni valore della dignità umana. L’esperienza non sem-bra andare in questa direzione.

Nel documento L’ItaLIa aI tempI deL ventennIo fascIsta (pagine 124-129)