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Il sovvertimento dei principi

Lorenza Carlassare

2. Il sovvertimento dei principi

Profondo e pervasivo, è il sovvertimento dei principi su cui si fondava l’ordinamento statutario; nulla rimane invariato.

Dichiarato è il ripudio dello stato di diritto: nei suoi obiettivi, la tutela di libertà e diritti; nella sua struttura, la divisione dei poteri; nei suoi presuppo-sti, la preminenza dell’individuo sullo Stato. Il sistema di rapporti fra libertà e potere è travolto, l’ottica è rovesciata. «Alla formula delle dottrine liberali, democratiche e socialiste: la società per l’individuo, il fascismo sostituisce l’altra: l’individuo per la società»; al centro è posto saldamente lo Stato, l’individuo non è che uno strumento i cui diritti sono sacrifi cabili4 e subito, infatti, saranno sacrifi cati. La libertà di stampa innanzitutto: un decreto del 1924 consente ai prefetti di sopprimere quotidiani e periodici attraverso il potere di ‘diffi dare’ i gerenti e di negare il riconoscimento dopo due diffi de; successivamente, agli stessi prefetti è data la facoltà di sequestrare quotidia-ni e periodici anche senza diffi da.

All’inizio furono colpiti giornali socialisti e comunisti, poi tutta la stampa d’opposizione. I grandi quotidiani nazionali, a cominciare dai maggiori – la Stampa e il Corriere – furono indotti a cambiare linea politica e

diretto-2. Alterati i principi e valori fondamentali dell’ordinamento albertino, sembrerebbe do-versi concludere per la discontinuità seguendo la nota teoria di C. Mortati, La costituzione materiale, Giuffrè Milano, 1940.

3. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (trad. it.), Ed. scientifi che italiane Milano, 1954.

4. A. Rocco, Scritti e discorsi politici, vol. III (La formazione dello Stato fascista), Giuffré Milano, 1938, p. 1101.

re e, infi ne, a cambiare proprietà: il sen. Frassati, in parte proprietario del quotidiano torinese, dopo la sospensione ordinata dal prefetto fu costretto dapprima a lasciare la direzione, poi venne liquidato così la Stampa divenne proprietà esclusiva della Fiat (ossia della famiglia Agnelli). Analogamente, Luigi Albertini perse la direzione del Corriere e la sua parte di proprietà di cui rimase interamente proprietaria la famiglia Crespi: operazioni rese pos-sibili dalla compiacenza di alcuni industriali e gruppi fi nanziari disposti ad assecondare il regime nel timore (fondato) di ritorsioni pesanti.

Imbavagliare la libera stampa per manipolare l’opinione pubblica è stata sempre, ed è tuttora, la massima aspirazione di chi vuol dominare lo Stato. Il fascismo, compresa appieno l’importanza di disporre dei mezzi d’infor-mazione, non si limitò ad interventi repressivi e censori, ma volle utilizzarli tutti (compresi i nuovi: radio, cinema, cinegiornali) a fi ni d’indottrinamento e propaganda politica e creò, persino, un apposito «Ministero della cultu-ra popolare» (minculpop). Con le leggi di pubblica sicurezza furono vietati spettacoli o trattenimenti che portassero al turbamento dell’ordine pubblico, della morale o del buon costume. Il controllo sul pensiero divenne totale.

Anche la libertà di associazione venne di fatto soppressa, sempre attra-verso i prefetti: il potere, attribuito dal testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, di sciogliere associazioni, enti o istituti che svolgessero «attività contraria all’ordine nazionale dello stato», ossia del regime, portò allo scio-glimento di tutti i partiti politici.

Eversiva di un principio cardine dello stato liberale fu l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato (1926): formato da uffi ciali della milizia e delle forze armate, decideva in base a prove fornite dall’Ovra (la polizia politica) e contro le sue sentenze non era ammesso ricorso.

Pesante fu la rottura del principio di eguaglianza, la rottura più sottoline-ata trattandosi di uno dei pilastri del sistema statutario: alle discriminazioni politiche (tra iscritti e non iscritti al partito fascista con conseguenze sul l’ac-quisto e mantenimento degli impieghi), alle discriminazioni contro le donne (alle quali, fra l’altro, non era consentito insegnare fi losofi a nei licei!), alle discriminazioni contro i celibi (colpevoli di non concorrere all’incremento demografi co), seguirono le discriminazioni razziali, le più gravi e dolorose. Nel 1938, seguendo l’esempio della Germania nazista, contro gli ebrei fu-rono introdotte limitazioni e divieti che coinvolgevano non soltanto la sfera pubblica ma persino la sfera più intima e personale: il divieto dei matrimoni misti si aggiunge alla crudele esclusione dei bambini ebrei dalle scuole, che spezzava legami e abitudini consuete. Ma il discorso della ‘razza’, rivolto contro altri, era iniziato già prima, al momento della conquista dell’Impero5.

5. Mussolini nel discorso di Trieste (18 sett. 1938) ricorda che il problema razziale non è scoppiato «all’improvviso ma in relazione alla conquista dell’Impero». E – sottolinea – gli Imperi si conquistano con le armi, e «si tengono con il prestigio e per il prestigio occorre una chiara severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto differenza, ma superiorità netta. Nonostante la nostra politica – dice ancora – l’ebraismo mondiale è stato un nemico».

3. (Segue). Il ripudio della democrazia

Radicale fu il ripudio della democrazia; quando si arrivò all’istituzione della lista unica (1928) non esistono più voci dell’opposizione alla Camera, poi, dal 1939, anche quella parvenza di elezione fi nisce: la Camera dei de-putati è sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni, i diritti politici sono soppressi anche formalmente.

Il ripudio della sovranità popolare da parte del regime è immediato e espli-cito: la partecipazione dei cittadini è sostituita dalla mobilitazione delle mas-se. Poiché la massa era intesa come un’unità indistinta incapace di formare spontaneamente una propria volontà e di procedere a una scelta di uomini, la designazione dei candidati fu affi data al Gran Consiglio del fascismo. Ed è con questa designazione che «l’elezione del deputato può dirsi compiuta salva la condizione della ratifi ca del corpo elettorale» che non è chiamato a scegliere, ma solo ad approvare la scelta; l’elezione «è ridotta perciò ad una semplice espressione di consenso o dissenso nei confronto di un sistema del governo»6. Il corpo elettorale è chiamato, senza alcuna possibilità di scelta, ad approvare una lista unica di quattrocento nomi scelti dal Gran Consiglio del fascismo, organo del Partito nazionale fascista che diviene organo dello Stato investito di compiti rilevanti.

Democrazia plebiscitaria dunque? Assolutamente no, nemmeno questo. Alfredo Rocco lo dice chiaramente «la formula di apparenza plebiscitaria non deve trarre in inganno sul reale carattere dell’istituzione: non è in omag-gio ad una supposta sovranità dell’elettore che si chiede il suo consenso, ma per saggiare il suo stato d’animo, per mantenere cioè meglio il contatto fra Stato e masse»7. Una sorta di sondaggio, dunque?

Anche quella parvenza di elezione scompare nel 1939 con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni che conclude il percorso contro la democrazia iniziato subito dal fascismo il cui primo atto fu mettere le mani sulla legge elettorale in modo gravissimo e defi nitivo senza trovare l’opposi-zione severa in quel momento ancora possibile8. Perché avvenne?

Il fatto meno comprensibile infatti è l’approvazione della legge Acerbo da parte di una Camera che, prima delle elezioni del 1924 (effettuate secondo le sue norme) non era ancora fascistizzata: quali considerazioni spinsero i diversi partiti ad approvare una legge che consentiva al fascismo di impa-dronirsi dello Stato? Oltre agli argomenti addotti – che purtroppo si ripetono tuttora – la velocità della decisione, la governabilità – ha certamente gio-cato la situazione del Paese e i timori che lo traversavano. La prima guer-ra mondiale (1915-1918) aveva lasciato l’Italia in una situazione di gguer-rave

6. A. Rocco, Scritti e discorsi politici, cit., pp. 932 ss. 7. A. Rocco, Scritti e discorsi politici, cit., p. 939.

8. Infatti il Parlamento non era ancora fascistizzato, ma diversi partiti votarono a favore (infra § 4).

disagio economico e sociale, gli scioperi nelle fabbriche, nelle campagne e nei servizi pubblici allarmavano molti, tanto più che col suffragio universale (maschile), appena introdotto, nelle elezioni politiche del 1919 (effettuate col sistema proporzionale) l’assetto precedente è sconvolto: crolla il partito liberale, vincono il partito socialista (156 seggi) e il partito popolare (100) con grande allarme delle forze conservatrici e moderate che temevano un ri-volgimento dei valori e delle gerarchie sociali. Alcuni ceti economici videro nel fascismo (che intensifi cava l’azione intimidatrice delle squadre) lo stru-mento per stroncare la minaccia agli equilibri sociali esistenti. La monarchia fece la sua scelta conferendo a Mussolini, esponente di un partito che aveva una scarsissima rappresentanza alla Camera, l’incarico di formare il governo contro la regola del sistema parlamentare. Non va dimenticato che il governo Mussolini, presentatosi alla Camera, ottenne la fi ducia con 306 voti favore-voli contro 116 contrari.

L’ampio consenso si spiega innanzitutto con il timore del socialismo, ma anche con un doppio errore di valutazione politica: la ‘pericolosità’ della sinistra sopravvalutata, sottovalutata invece la pericolosità del fa-scismo che Giolitti e gli altri s’illudevano di utilizzare. Per questo parte-ciparono al primo governo Mussolini, composto inizialmente di due soli fascisti sicuri, di nazionalisti, di qualche tecnico, di esponenti liberali e del partito popolare: una volta accettato di far parte della compagine go-vernativa è logico che al momento della fi ducia abbiano votato a favore. L’illusione durò poco; ben presto il fascismo li travolse, insieme alle istitu-zioni dell’ordinamento albertino. I membri del partito popolare furono allon-tanati dal gabinetto nell’aprile 1923; i liberali (a parte quelli che aderirono al regime) resteranno al governo fi no alla fi ne del 1924.