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Roberto Maiocchi

Nel documento L’ItaLIa aI tempI deL ventennIo fascIsta (pagine 131-139)

Le vicende del razzismo nella prima metà del Novecento, soprattutto quelle tedesche e italiane, sono considerate, del tutto giustamente, la mani-festazione di una eclissi della ragione, di un ritorno a una barbarie spavento-sa, di una perdita di senso della storia. Gli scienziati, che avrebbero dovuto essere i rappresentanti “uffi ciali”, istituzionali, i depositari della razionalità, quale ruolo hanno svolto in un processo che appare agli antipodi di ogni forma di ragionevolezza?

Questa questione è stata ampiamente studiata nel caso della Germania, mentre per l’Italia gli studi sono stati pochissimi. Nella storiografi a corrente il problema del ruolo svolto dagli scienziati italiani viene o accantonato o risolto con uno schema assolutamente facile: prima del 1938, anno di con-versione uffi ciale del fascismo al razzismo, non vi furono in Italia sostenitori del razzismo; la conversione al razzismo avvenne per adeguarsi alla politi-ca di Mussolini. Fu però una conversione opportunistipoliti-ca, del tutto priva di connotazioni teoriche, che non aveva nessun piano d’appoggio nella cultura precedente.

Io invece sostengo che, ancor prima del 1938, nella cultura scientifi ca ita-liana circolavano idee che servirono a presentare il razzismo uffi ciale fascista come fi glio di un’ideologia precedente il Manifesto della razza.

Un primo ambiente scientifi co in cui maturarono concetti di cui il fasci-smo fece buon uso fu quello dei medici. È ben noto che in Germania vi fu una connessione diretta tra la medicina – e in particolare l’eugenica – e le più virulente forme di razzismo. L’eugenica fu un movimento sorto a cavallo del 1900 in Germania, Inghilterra, Svezia, Stati Uniti. Partendo dalla teoria dell’evoluzione darwiniana, essa mirava a migliorare il genere umano, senza inizialmente avere alcuna connotazione razzista. L’idea di fondo era quella di attuare tutte quelle pratiche che potevano favorire il miglioramento della specie umana, incentivando i fattori che apportano migliorie agli esseri uma-ni e impedendo il presentarsi di fenomeuma-ni negativi.

In Italia si cominciò a parlare abbastanza presto di eugenica. Non fu un processo in cui emerse una concezione teoretica unitaria, ma fu piuttosto un movimento molto composito, di cui fecero parte non solo medici, ma anche demografi , sociologi, fi losofi , psicologi ed economisti. Volendo individuare un qualche elemento di unitarietà, si deve sicuramente parlare della distin-zione tra eugenica “positiva” e eugenica “negativa”. Per eugenica “negativa” si intende una serie di misure “morbide”, come il certifi cato prematrimoniale o una politica di controllo delle nascite. L’eugenica “positiva”, invece, com-prendeva misure drastiche, inumane, come la castrazione di minorati mentali e delinquenti. Da noi vi fu una quasi unanime condanna della prassi propria dell’eugenica “positiva”, considerata inaccettabile dal punto di vista della “sensibilità latina”, che non poteva ammettere una dottrina che veniva dal nord protestante.

La polemica fu diffusa, costante ed estremamente decisa. I comporta-menti degli eugenisti positivi furono condannati con durezza crescente, fi no a lasciar sussistere come unica misura adottabile solo il controllo delle na-scite. Anche questo venne lasciato cadere nel 1927, quando Mussolini, nel cosiddetto discorso dell’Ascensione lanciò lo slogan «il numero è potenza»: la potenza economica e militare di una nazione dipende dalla sua numerosità. Sono quindi da condannare tutte quelle pratiche che spingono nella direzione di una diminuzione del numero dei componenti di una nazione, ivi compre-so il controllo delle nascite. Lo slogan lanciava una prospettiva imperialista entro la quale il popolo italiano appariva destinato a divenire un popolo pro-tagonista della storia, capace di conquistare territori e ricchezze a spese di popoli a lui inferiori.

Nel corso degli anni Trenta questa posizione fu mantenuta e posta espli-citamente in opposizione all’eugenica “nordica”. Dopo la presa del potere da parte di Hitler la polemica contro l’eugenica “nordica” divenne dichiarata-mente una polemica contro il razzismo tedesco.

I medici fecero la loro parte, sostenendo in opposizione al razzismo na-zista una versione all’italiana del razzismo, incentrata sul tema della dife-sa della razza. Essi accompagnarono tutta la politica dife-sanitaria del fascismo, sottolineando ogni misura della politica di Mussolini in questo ambito con entusiastiche esaltazioni. Tutte le iniziative del governo erano presentate come componenti di una politica di difesa della razza. Negli anni Venti si parlava indifferentemente di “difesa della stirpe” o “difesa della razza”, poi il termine “stirpe” fu abbandonato. Tutto, dalle colonie marine per i bambini poveri alla distribuzione del chinino contro la malaria, dalla lotta contro il cretinismo degli insediamenti montani alla chiusura delle osterie, alle cam-pagne per l’uva, ecc., tutte queste misure furono presentate dai medici come strumenti per la difesa della razza. In questo modo si venne alla creazione di un ambiente in cui difendere la razza era comportamento giusto, lodevole e patriottico. Dopo il 1938 sarà facile inserire le misure di discriminazione razziale in una politica generale di difesa della razza.

Questa adesione al regime non fu mero opportunismo, ma fu sostenuta con atteggiamenti scientifi ci che avevano una certa autonomia e che, addi-rittura, pretendevano di essere capaci di guidare il mondo della politica. Il capofi la di questa corrente fu Nicola Pende, fi gura di altissimo livello scienti-fi co, che sostenne la tesi secondo cui non vi può essere subordinazione della medicina alla politica, ma deve essere proprio il contrario: è la medicina che ha il ruolo di indirizzare la politica, di essere una “biologia politica”.

Come la gran parte dei medici, anche Pende sostenne una polemica con-tro le idee del razzismo tedesco, in particolare concon-tro l’idea che si possa par-lare di razze pure all’interno delle varie nazioni. A questo proposito Pende studiò la distribuzione dei tipi biologici in Italia, arrivando a concludere che nel nostro Paese non è assolutamente presente una razza pura. Se di razza italica si vuol parlare, occorre far riferimento ai caratteri “spirituali” delle varie genti che compongono il mosaico di popolazioni attualmente presenti in Italia. È stata Roma, crogiuolo delle genti, a unifi care sul piano spirituale la molteplicità delle genti italiche.

Un secondo gruppo di scienziati che merita attenzione fu quello dei de-mografi , studiosi che noi defi niremmo “statistici”, perché si occupavano di questioni anche assai diverse dalla demografi a vera e propria. La fi gura più rappresentativa tra di loro fu Corrado Gini. In qualità di presidente dell’I-stituto Nazionale di Statistica, Gini ebbe una frequentazione assidua con Mussolini, a cui presentò con continuità dati sull’andamento della popola-zione italiana, che a Mussolini interessavano molto in rapporto alla politica di potenza, la quale, come detto prima, doveva essere incentrata sullo slo-gan “numero è potenza”. Gini aveva il compito di esplorare quali fossero le misure che potevano essere attuate per favorire lo sviluppo quantitativo degli italiani. Gini non era d’accordo sull’idea di poter sviluppare sempre e comunque una popolazione: la sua visione della storia comprendeva la co-stante presenza di popoli in espansione, giovani, e di popoli senescenti che venivano sconfi tti dai popoli giovani. La diminuzione della prolifi cità era una legge di natura. Al massimo Gini poteva concedere che si potesse rallentare il processo di senescenza. Pur nutrendo forti dubbi circa la possibilità effet-tiva di una espansione indotta da misure politiche, Gini si presentò in pub-blico come scienziato noto internazionalmente che veniva a dare supporto alla politica demografi ca del fascismo. Egli si prestò a una rappresentazione pubblica nella quale le misure apparentemente più sciocche del regime ve-nivano presentate come iniziative assolutamente razionali. Sotto la direzione di Gini si sviluppò una “scuola italiana” di demografi a che lavorò in pole-mica con il pensiero demografi co straniero, il quale era orientato alla ricerca di un Optimum della popolazione che coincidesse con il massimo reddito possibile. Al programma non italiano Gini e i suoi contrapposero lo slogan optimum=maximum,. L’ottimo di una popolazione è il massimo possibile, senza limiti di nessun genere, se non quelli imposti dalla natura. La quantità deve prevalere sulla qualità, perché il numero è potenza.

Un altro demografo su cui vale la pena di soffermarsi è Livio Livi. Questi nel 1919 pubblicò due volumi dal titolo Gli ebrei italiani alla luce della sta-tistica. In questi due volumi, pubblicati quando a livello internazionale era forte la propaganda dell’antisemitismo, trovano giustifi cazione, supportata da una grande mole di dati scientifi ci, alcune tesi che avranno in seguito vasta accoglienza negli ambienti antisemiti. Una prima tesi sostiene che gli ebrei italiani abbiano caratteristiche razziali specifi che, non si sono assimilati nel corso dei secoli e hanno un grande livello di omogeneità razziale. Inoltre, era vero che gli ebrei italiani avevano un peso sproporzionato rispetto alla loro consistenza numerica nelle alte sfere, quali la magistratura, l’università, le forze armate. Si confermava così l’idea della seconda tesi, ossia che gli ebrei stessero compiendo una scalata capillare ai vertici della società italiana. Na-turalmente Livi non poteva supporre che le sue analisi rigorose sarebbero poi servite a dare una coloritura scientifi ca a luoghi comuni da sempre circolanti, quali l’idea che gli ebrei siano una razza pura e che stessero cercando di dare la scalata al potere mondiale.

Alla costruzione di una costellazione di concetti ampiamente usata dal Regime collaborò un altro demografo, Marcello Boldrini. Anch’egli, come i due precedenti, era una persona di grande autorevolezza. Boldrini sviluppò l’idea che vi sia una correlazione in una persona tra aspetto fi sico e quali-tà intellettuali. Aveva cominciato a studiare le caratteristiche fi siche delle persone che si erano suicidate buttandosi nel Tevere (che si suppone fosse-ro piuttosto tristi), arrivando a scoprire che la maggioranza dei suicidi era longilinea. Vi era quindi una correlazione tra aspetto fi sico e psiche. Da qui Boldrini partì per elaborare una sorta di fi losofi a della storia, secondo la qua-le qua-le grandi svolte nel corso dello sviluppo dell’umanità sono determinate dalle caratteristiche psichiche dei protagonisti della storia, i quali hanno avu-to comportamenti dipendenti dai loro tratti corporei. Con Boldrini si veniva così affermando l’idea che vi sia una stretta correlazione tra caratteri fi sici e caratteri psichici, la quale è uno dei pilastri essenziali del razzismo. Veniva così rivalutato e presentato come scientifi co il luogo comune secondo cui dall’aspetto esteriore di una persona dipendono le sue caratteristiche psichi-che. Il naso degli ebrei e l’odor giudaico venivano così elevati, al di là della volontà dell’autore, ad affermazione scientifi ca.

Vi furono poi studiosi che si occupavano in modo specialistico di questio-ni razziali, cioè studiosi dei gruppi umaquestio-ni viventi (antropologi ed etnologi), e gli studiosi delle origini delle razze (paleontologi, archeologi, antichisti, glottologi). Nell’antropologia italiana non ebbe mai molto spazio una vi-sione biologista delle razze che pretendesse di ricondurre ai caratteri soma-tici le peculiarità intellettuali e caratteriali. Già Paolo Mantegazza, maestro dell’antropologia italica nell’Ottocento, concepiva la nozione di razza non come possibile schema esplicativo, ma, più modestamente, come semplice strumento intellettuale ordinatore. Lo stesso Lombroso, la cui posizione più di ogni altra in Italia anticipò il razzismo biologico, studiando le attitudini

intellettuali degli italiani in campo artistico e letterario le collegò a infl uenze sociali e ambientali, senza dare rilievo ai fattori razziali.

Per la verità, uno dei grandi patriarchi degli studi antropologici italia-ni, Giuseppe Sergi, era stato propenso a ricondurre all’antropologia fi sica le attitudini intellettuali e ad associare alle varie razze differenti propensioni mentali. Tuttavia, quando Sergi si trovò di fronte al problema della razza italiana, per conciliare l’indubbia presenza nella penisola di popolazioni molto differenti tra di loro per caratteri fi sici con la nozione di un popolo italiano, dovette ricorrere a caratteristiche mentali, spirituali: gli italiani sono differenti per quanto riguarda il corpo, ma sono simili per quanto riguarda la mente. Questa di Sergi fu una posizione largamente obbligata per gli an-tropologi italiani: le genti italiche mostravano una straordinaria varietà dal punto di vista somatico, e nessuno studioso poteva sostenere che le caratte-ristiche somatiche determinassero rigidamente quelle intellettuali e morali, senza per questo mettere in discussione che l’Italia fosse una nazione, che il popolo italiano fosse uno. La carità di patria imponeva di ammettere che la sfera spirituale potesse essere una forza unifi catrice capace di andare oltre le differenze esteriori. Questa era la conclusione più evidente dell’opera più importante della prima metà del Novecento sull’antropologia delle genti ita-liche, i quattro volumi comparsi nel 1927 con titolo Italia. Genti e favelle, di Francesco Pullè. Propenso in generale a dare ampio spazio ai caratteri fi sici, Pullè si rifugiava in un approccio spiritualista, idealista di fronte al problema della razza italiana.

All’affermazione di una prospettiva non biologizzante contribuì con for-za l’antropologia cattolica sotto la guida di Wilhelm Schmidt. Il fondatore della scuola storico-culturale si fece assertore di una rigida separazione tra antropologia (fi sica) e etnologia (culturale), non riconducibili l’una all’altra.

Schmidt, in particolare, molto scrisse per contestare l’identifi cazione tra razza e nazione fatta dal razzismo tedesco. La storia dimostra che il concetto di nazione (culturale) è profondamente differente da quello di razza (biolo-gico). Una nazione è una mescolanza di razze differenti, mai è fondata sulla purezza razziale. Questa posizione trovò ampia accoglienza al di fuori del pensiero cattolico. Ad esempio nella Dottrina uffi ciale del fascismo di Carlo Costamagna, pubblicato nel dicembre del 1937, il nazionalismo razziale era indicato come «il più grave pericolo per le sorti della civiltà europea».

Il razzismo tedesco appariva agli antropologi italiani inconciliabile con la geografi ca antropologica dell’Italia.

Questo razzismo “spiritualista” non poteva accettare il razzismo biolo-gico proprio del nazismo e ben si comprendono tutte le puntate polemiche contro Hitler che erano presenti in pubblicazioni di vario genere. Se proprio di razza italiana si voleva parlare, lo si doveva fare intendendola come “raz-za storica” o “raz“raz-za spirituale” o “raz“raz-za sintesi”. Certamente nel razzismo italiano l’impiego di simili parole sarà dettato dopo il 1938 anche da motiva-zioni di opportunismo politico, ma questa considerazione non è suffi ciente

a comprendere quanto avvenne. La questione di come fosse possibile conci-liare la molteplicità razziale con l’unità politica fu un problema reale nella cultura antropologica precedente il 1938, e le risposte che ad esso furono date nel più drammatico periodo non possono pertanto essere giudicate sem-plicisticamente quali vuoti e inconsistenti verbalismi propagandistici, creati per rispondere a una questione artifi ciale e contingente fatta nascere da una scelta politica di Mussolini, così come non si può sostenere che il concetto di “razza spirituale” e similari siano stati inventati dai nostri intellettuali per non appiattirsi troppo smaccatamente sulle posizioni dei tedeschi, sempre per la volontà politica di Mussolini di non apparire succube di Hitler. In real-tà, ben prima del 1938 era presente nella nostra cultura il problema di come fosse possibile defi nire una “razza italica” e la soluzione appariva rinviare inevitabilmente al rifi uto del biologismo.

Il concetto di “razza italica”, pur con le sue diffi coltà, fu al centro della costellazione di concetti che formò il nucleo del razzismo italiano. Esso ri-ceveva particolare forza evocativa e retorica dalla sua connessione con i con-cetti di “impero” e di “romanità”. L’ideologia e la propaganda del razzismo fascista fecero perno sull’asserita esistenza di stirpi italiche di elevatissime capacità biologiche, intellettuali ed etiche, che si manifestarono nella sto-ria del mondo con la formazione e il dominio dell’impero romano e, ma in sott’ordine, con il Rinascimento.

Per divenire completamente suadente, idea-forza trainante a livello di massa, questa tesi doveva concretizzarsi storicamente con la dimostrazio-ne “scientifi ca” dei modi secondo i quali quelle genti italiche superiori si erano formate e si erano poi imposte quale faro di civiltà. Questo fu il compito culturale che svolsero gli studiosi della storia antica e della prei-storia d’Italia.

Dal punto di vista della circolazione delle idee, e soprattutto dei luoghi della retorica, inni e salmi all’antico valore delle genti italiche non facevano certo novità. Quel che di nuovo e di signifi cativo dal nostro punto di vista avvenne durante il fascismo fu il formarsi di un intreccio non occasionale ed estrinseco tra il mito della romanità e concrete ricerche scientifi che che sembravano confi gurare una nuova alleanza tra il desiderio, sempre presente, di rappresentare un’origine e un passato particolarmente nobili degli italiani e le più recenti scoperte della scienza.

Gli studi sull’Italia preistorica e preromana tra le due guerre cambiarono radicalmente la prospettiva storiografi ca dominante all’inizio del secolo, in una direzione che presentava le primitive genti della Penisola capaci di svi-luppare autonomamente forme di civiltà elevate, senza eccessivi debiti verso i popoli invasori, in modo tale da accreditare degli italiani una immagine di genti dalle origini autoctone antichissime e ricche di civiltà. Il mito del primato italico, in questo modo, usciva rafforzato, assumeva veste di robusta teoria scientifi ca e poteva con maggior forza essere impiegato nella propa-ganda, e gli storici furono i primi a rendersene conto.

Nei primi decenni del secolo aveva avuto molta fortuna la teoria di Luigi Pigorini sulle origini delle popolazioni italiche. Per Pigorini i primi abitanti della penisola erano selvaggi privi di elementi culturali signifi cativi prove-nienti dall’Africa. La civiltà del neolitico, della pietra levigata e delle sto-viglie di ceramica fu importata completa da un popolo venuto dalle sponde del Baltico. Oltre a questi uomini, valicarono le Alpi altre genti provenienti dall’Europa centro-orientale, i palafi tticoli, gli arii, conoscitori del bronzo. Questi scesero dalla valle dell’Adige e si espansero nella pianura padana, si spinsero a sud del Po, salirono sull’Appennino, arrivarono al mar Ionio. Fu questo il popolo cui si deve l’alba della civiltà italica.

Dal punto di vista ideologico questo visione non si prestava a facili utiliz-zi nautiliz-zionalistico-patriottardi, poiché gli italici della prima ora non facevano una gran fi gura e i mediterranei apparivano razza inferiore rispetto agli ariani e ai nordici. Negli anni del fascismo questo schema fu rovesciato e sostituito da un altro che rivalutava di molto il valore e il ruolo culturale delle primitive genti italiche e consentiva una visione della “razza italica” ben diversa, più fascinosa, più esaltante, più consona ai miti del razzismo fascista. Le ricer-che paleontologiricer-che e arricer-cheologiricer-che portarono alla luce nuove informazioni che mettevano in discussione il modello di Pigorini da vari punti di vista. Fu spostata molto all’indietro la datazione della prima presenza dell’uomo in Italia, si rivelò la presenza nel quaternario superiore di culture prodotte da stirpi mediterranee che Pigorini riteneva assenti, furono scoperte industrie del ferro e del bronzo la cui origine e diffusione erano assolutamente indi-pendenti da infl ussi nordici, prese piede l’ipotesi che la civiltà palafi tticola non fosse dovuta alle genti che avevano attraversato le Alpi, ma agli etruschi che avevano attraversato l’Appennino. Criticare Pigorini signifi cava opporsi alle teorie “nordiche” e rivendicare i meriti antichi dei mediterranei.

La nuova prospettiva storica fu subito associata a una poderosa azione di propaganda. Emblematica a questo riguardo è l’opera di Ugo Rellini, succes-sore di Pigorini nel 1925 nella cattedra romana di paleo-etnologia. Al centro

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