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5. RAPPRESENTAZIONI QUOTIDIANE E INCONTRI SUL CAMPO

6.12 IL CORSO DI CUCINA BANGLA

Il corso denominato “Chiacchiere interculturali in cucina” si è svolto il giorno 8 maggio a conclusione del corso di L2. L'iniziativa è nata tra le donne del Corso di lingua e l'associazione locale “Popoli amici”. L'obiettivo era quello di praticare la lingua italiana attraverso lo scambio linguistico tra i commensali.

La pubblicità del corso è stata distribuita in luoghi poco frequentati dagli immigranti di Pieve, completamente assenti all'incontro. Il volantino conteneva informazioni sul Bangladesh, comprese le ricette più comuni: biryani, tandori, vaggi, lasshi. La sede utilizzata gratuitamente è stata quella degli Alpini.

Questo spazio mi ha permesso di sviluppare alcune riflessioni sul rapporto pievigini e italiani e di osservare il comportamento di una coppia bangla in un ambito che viene immaginato esclusivamente al femminile: la cucina.

Oltre all'insegnamento dell'italiano, la scuola di L2 si proponeva di favorire, promuovendo iniziative diverse dalla classica lezione, un'“integrazione” delle partecipanti nel contesto in cui si trovano. La scarsa partecipazione di bangali ha evidenziato che, la composizione eterogenea della classe ha comportato non solo un difficile rapporto reciproco tra le studenti, ma anche forme di tensione, manifestatasi sulla questione del velo, che non si sono risolte poi in un clima più disteso.

Prima di iniziare la cena, mi reco in cucina per aiutare e conoscere i cuochi bangla, il signor Titas e la moglie Shirn che avevano portato con sé il figlio di nove anni, Takrim. Titas e Shrin, entrambe trentenni, sono in Italia da dieci anni, parlano bene l'italiano. Assieme a loro c'è la mediatrice e una giovane peruviana amica di Shrin. I coniugi provengono da Dhaka. Sono entrambe diplomati. La donna lavora in una fabbrica da molti anni come turnista, mentre Titas è rimasto da poco senza impiego. Anche lei ha la patente, infatti prima della conclusione della serata andrà a casa da sola perché il giorno dopo si sarebbe alzata per recarsi a lavoro. Abitano in centro in una palazzina, in un appartamento singolo. Shrin indossa uno shari rosa, ma non copre il capo con il dupatta, il marito veste all'occidentale. I due coniugi sono bene inseriti nel contesto pievigino, infatti hanno relazioni lavorative con altri immigranti e amicali con italiani tramite la scuola del figlio e grazie all'associazione Popoli Amici che frequentano. Essi non sono iscritti all'associazione Bati e preferiscono non parlarne. I commensali sono quasi tutti italiani, un gruppo minimo costituito da coppie di pensionati e alcuni volontari dell'associazione. Shrin parla piacevolmente con tutti gli invitati. Il lavoro tra marito e moglie è molto coordinato, mentre lui abilmente prepara e taglia tutte le verdure e le carni, lei cucina il riso e riscalda i cibi. Quando mi propongo come aiutante subito Titas mi lascia tagliare le verdure e si dedica al pollo. Shrin vigila anche sulla cottura dei cibi, Titas si occupa dei mestieri più faticosi cioè del forno e delle pesanti teglie. Il marito mi dice che è meglio che sia l'uomo a portare quei grossi pesi in cucina. Spesso, ma soprattutto ora che è disoccupato, prepara lui i pranzi e le cene e si dedica al figlio: lo veste al mattino, lo porta a scuola, lo va a prendere e lo segue nei compiti. La domenica è dedicata alla famiglia. Nonostante si trovino bene in Italia, dichiarano di preferire un altro spostamento per trovare lavoro. Qui sono sempre stati precari e hanno svolto lavori pesanti. Vogliono raggiungere la sorella di Shrin in Belgio, dove sembra più facile vivere per gli stranieri.

La relazione con la sorella di Shrin è telefonica, ma lo scambio d'informazioni che s'instaura, fa dell'esperienza migratoria un vissuto e un immaginario strategico per le scelte migratorie. L'immagine di benessere, pienezza, liberà, ricchezza, pulizia, ordine dell'Occidente, costruita anticipatamente mediante l'insieme di informazioni che provengono dai media, dalle notizie dai giornali, dalle conversazioni con chi è altrove, contrasta con quella dell'Italia come luogo della “precarietà”, entrando in collisione con dei progetti migratori a lungo termine.

Questi coniugi nell'organizzare la famiglia evidenziano un alto grado di complementarità che l'antropologa Elizabeth Bott definisce “ruoli congiunti” cioè quella relazione in cui marito e moglie svolgono molte attività assieme, con un minimo di differenziazione dei compiti domestici che a volte si scambiano e comunanza di interessi (1995: 79-114). In questo caso, non appaiono ruoli segregati tra i due coniugi. Da questo punto di vista le relazioni sociali esterne della famiglia possono essere associate a una rete a maglia larga, che secondo l'ipotesi formulata dalla Bott, è proporzionale al grado di segregazione dei ruoli coniugali tra marito e moglie: quanto meno la rete è compatta, tanto più basso è il grado di segregazione. Qui, come scrive l'antropologa Michelle Rosaldo “l'impegno comune e complementare di uomini e donne nelle attività domestiche promuove un senso di eguaglianza. Un ethos egualitario sembra possibile nella misura in cui gli uomini si fanno carico di un ruolo domestico” (1979: 53).

La casa, vissuta nei ritmi di un contesto migratorio, può denaturalizzare i destini biologici dei sessi, con la conseguenza di rendere mutabili e mobili le gerarchie e le identità domestiche, a tutto vantaggio di chi vi abita a tempo pieno, come le donne, le cui vite, scrive l'antropologa Carla Pasquinelli, “sono venute a coincidere per secoli con i confini materiali e simbolici di quel mini-universo concentrazionario che sono le loro case” (2004: 94).

Tutti gli ingredienti usati provengono dal Bangladesh tramite i bazar del centro. Solamente i dolci sono stati acquistati già pronti, infatti dice Shrin, ci vorrebbero troppi ingredienti introvabili e anche molto tempo libero. Solo il chapati, “pane indiano fatto con farina integrale e cotto sulla piastra” (Divakaruni, 2006: 282) è stato fatto da Shrin per l'occasione. Sebbene ancora caldo e gradevole non è stato apprezzato dai commensali, che deridendone la consistenza, il sapore e la forma, hanno preferito mangiare del pane comune, a loro dire, “più buono”.

La difficoltà di reperire gli ingredienti per preparare i cibi della cucina bangla è l'altro ostacolo più difficile da superare. Se la realtà recente della grande distribuzione è distante dal passato, quando anche nei centri più sviluppati era costoso acquistare prodotti di provenienza asiatica, il mercato ha però favorito l'accesso solo a quei prodotti che incontrano il gusto degli europei, per cui gli alimenti impopolari nelle tavole occidentali, sia dal punto di vista del gusto sia della pratica alimentare, rischiano di venire demonizzati, come direbbe l'antropologo Claude Lévi-Strauss, nell'espressione “non buono da mangiare” (1990).

Un messaggio tanto semplice quanto disarmante, perché parallelamente a questa scelta alimentare avviene lo svilimento della società che l'ha prodotta. Per esempio alcuni tipi di pane, come il pane non lievitato, risultano poco appetibili anche perché prodotti dalle donne in casa interferendo così con le norme di pulizia, subiscono un processo di identificazione del tipo Noi/pane/buono-da mangiare/cultura occidentale contro, e migliore di, Altro/chapati/cattivo-da-mangiare/cultura araba.

La cultura attraverso il cibo può acquistare i toni spregiudicatamente razziali e nella sua visione etnocentrica non favorisce un processo di avvicinamento o compenetrazione di elementi da una cultura all'altra bensì un confine, in questo caso, alimentare. Il chapati in tal caso diviene l'alimento simbolo dell'immigrante dal Bangladesh ed è utilizzato in maniera negativizzante.

I cibi presentati hanno un alto valore evocativo perché attraverso i sapori, gli odori, i colori e gli ingredienti, nonché i modi di preparazione, richiamano fortemente il Bangladesh.

L'antropologo Teti nota che i canoni da osservare in materia di cibo sono assimilabili al linguaggio: “Il mangiare – il cibo, i gesti e la ritualità connessi al consumo degli alimenti - costituisce una lingua che non si può occultare e che riaffiora, nelle situazioni più diverse, in maniera impensata, quasi misteriosa” (1999: 84).

All'inizio, nella distribuzione del cibo, non ho notato nessuna partizione spaziale, perché ognuno si serviva individualmente da un unico carrello che Shrin aveva portato in sala. Il gesto mi è sembrato analogo al condividere in maniera egualitaria il cibo in uno stesso piatto. Successivamente le volontarie dell'associazione hanno cominciano a servire le vivande partendo dagli ospiti maschi italiani e più anziani.

Nella cultura europea in cui il capofamiglia viene servito prima, con porzioni solitamente più abbondanti, sembrano persistere ancora delle differenze sociali all'interno della famiglia che ho notato anche in questa occasione da parte delle volontarie italiane (Angelini, 1996: 33). Il modo in cui si consuma il pasto è il riflesso della cultura al quale esso appartiene. Con ciò non si vuole sostenere che la cultura alimentare bangla sia esente da disuguaglianze104.

A tal proposito la tavola del Maghreb, paese islamico, scrive Riccardo Pravettoni è in realtà “condizionata fortemente dalle differenze di genere che impediscono alle donne di sedere alla stessa mensa degli uomini, di mangiare negli stessi momenti, di condividere

104In altri momenti sul campo ho notato una divisione degli spazi maschili e femminili. Per esempio durante il Capodanno bangla di fronte al palco degli spettacoli le donne sedevano a destra e gli uomini a sinistra.

il cibo dallo stesso piatto...l'esclusione delle donne arabe dalla mensa rispecchia la loro estraneità alla sfera pubblica della società” (2010: 27).

Durante la cena, io mi siedo di fronte alla famiglia bangla. Ma fin dall'inizio, quando i coniugi attingono il cibo dal piatto con le mani, senza l'ausilio delle posate, i commensali, dopo essersi sporcati le mani imitandone il gesto, ridono e pongono domande imbarazzanti sull'igiene. Dicono inoltre che è più difficile che usare le bacchette cinesi. Noto che i bangali pur continuando a mangiare in questo modo, sono a disagio. Takrim che comincia a mangiare con le mani, utilizza poi le posate, visto che a scuola, mi dice, comunque lo deve fare per motivi di igiene e perché i compagni lo deridono continuamente. Shrin e Titas lo riprendono più volte ma subito egli si alza e spazientito va a giocare.

La mano che porta il cibo alla bocca è esclusivamente la destra, avendo l'accortezza di compattare la porzione in modo che non cada durante il movimento (Rebora, 1998). Anche in questo modo appare la natura culturale del cibo che manifesta una scelta di appartenenza (Barth, 1994: 39). Barth osserva che ogni gruppo etnico mostra segni e segnali manifesti cioè quei caratteri diacritici che le persone cercano ed esibiscono per mostrare la loro diversità.

La visibilità del gruppo passa anche attraverso l'alimentazione, che “costituisce pertanto uno straordinario veicolo di auto-rappresentazione e di comunicazione” (Montanari, 2004: 7).

I ristoranti “indiani” del Bangladesh sono frequentati anche dai pievigini. Qui, da ciò che ho potuto osservare, alcuni aspetti dell'arredamento, oltreché la presenza delle posate e di pane comune, dimostrano che c'è una tendenza all'apertura.

Takrim è maturato tra due culture alimentari diverse e lo dimostra proprio nella maniera in cui mangia il cibo. L'attenzione delle istituzioni verso l'aspetto alimentare nei confronti dei figli degli immigranti si sta intensificando anche in una città come Pieve di Soligo, dove l'introduzione dei menù differenziati all'interno del circuito della refezione scolastica è una realtà recente. Ma questo sembra non bastare perché mangiare non comprende solo il cibo ma anche i gesti che lo accompagnano i quali andrebbero chiariti a tutti gli alunni.

Il cibo ha dunque una natura simbolica, può favorire l'incontro tra culture ma creare anche dei confini, perché non dobbiamo dimenticare che esso può essere liberamente consumato seguendo i dettami della propria cultura, oppure utilizzando metodi e schemi propri di quella di adozione se non vuole diventare un ulteriore strumento di discriminazione.