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5. RAPPRESENTAZIONI QUOTIDIANE E INCONTRI SUL CAMPO

5.6 LA MOSCHEA BANGLA

La questione della professione libera della propria fede è fondamentale quando si parla della convivenza e dell'incontro tra differenti pratiche culturali. La fede comporta una serie di comportamenti quotidiani (interdizioni, rituali, prescrizioni) che sono il suo aspetto più visibile.

Alcuni bangali di Pieve, durante i colloqui, si posizionano come “moderati” cioè musulmani hanafiti, altri laici, altri osservanti. In Bangladesh la gran parte dei musulmani, circa il 91 per cento segue questa scuola, segue la più liberale tra le quattro Scuole Giuridiche Islamiche (Hanafita, Malikita, Shafiita e Hanbalita). La Scuola Hanafita è diffusa in Turchia, Egitto, India, Pakistan, Bangladesh e nei paesi dell’ex- URSS. Le invasioni turco-afghane nell'India settentrionale e soprattutto nei centri urbani portarono con sé, attorno al XIII° secolo, un islam hanafita e la diffusione di insegnamenti spirituali sūfī. Queste credenze furono inquadrate dalla letteratura etnografica del XIX° secolo e da quella scritturalista come “una corruzione del misticismo islamico” frutto dell'interazione tra l'islam e il mondo indù (Abenante e Giunchi, 2006: 91-113).

Come afferma Eickelman (2009: 13) l'area in cui si è diffuso l'islam è una regione vastissima sparsa in tre continenti (Africa, Asia, Europa) e viene intesa spesso in modo acritico col termine “Medio Oriente” indicandone una presunta omogeneità.

L'islam in realtà è una religione dotata di una grande forza creativa e ha prodotto una varietà tale di manifestazioni da rendere ardua la comprensione ai credenti e agli studiosi musulmani della diversità di forme assunte in contesti culturali profondamente diversi, come quelli di migrazione. Essi considerano alcune pratiche come contraddittorie, erronee ai principi centrali dell'islam ma le persone che usano queste pratiche si ritengono comunque musulmani nel senso più pieno del termine.

Come ho già scritto lo “scritturalismo”, fondato su un comune sentimento religioso islamico (Geertz, 1971: 60), è in fermento ma non significa che sia sempre stato così (Eickelman, 2003: 34).

Durante le mia intervista a Rahman nel mese di novembre 2009, emerge la questione moschea legata a fatti locali. Mi dice che i musulmani dal Bangladesh hanno sempre rassicurato la popolazione pievigina. Lui stesso fa da mediatore con le istituzioni quando ci sono dei problemi, delle incomprensioni dovute alla religione, dà delle spiegazioni ai migranti di questa provenienza che sono appena arrivati che non sanno come comportarsi nel contesto italiano.

A tal proposito riporto un caso inerente all'argomento trattato che è accaduto nel 2009 a Pieve di Soligo. La fonte utilizzata è un quotidiano locale, Oggi Treviso, della quale riporto i passi più salienti.

È successo che alcuni bengalesi hanno partecipato più volte alla preghiera islamica in un capannone della zona industriale con altri immigranti (dal Marocco, dal Pakistan, dal Senegal) i quali sono da tempo alla ricerca di un nuovo spazio per una moschea, alimentando in una parte dei pievigini la sensazione di “un certo irrigidimento dei costumi di tipo integralista”62che può aver prefigurare tutta una serie di paure non fondate. Non essendo stata concessa la moschea, subito dopo, molti musulmani tra i quali non c'era nessun bangali, si sono recati sulle sponde del fiume Piave a pregare e festeggiare il Ramzan. La reazione delle autorità politiche del capoluogo trevigiano è stata una istanza di sicurezza per la popolazione e il rispetto per le zone sacre italiane.

L'articolo del quotidiano rilancia un apparato simbolico di miti e rituali sull'identità veneta declinando in maniera discriminante la differenza religiosa attraverso la parola “stranieri”: “Il Piave mormorò: Non passa lo straniero! E fino a prova contraria i mussulmani sono stranieri”63 .

L'ossessione del territorio legata a certe politiche italiane sull'immigrazione sottolinea

62 Intervista sul campo, A., novembre 2009. 63 Oggi Treviso, 29.11.2009.

questa preoccupazione di un'invasione dei confini, della prossimità. La stessa designazione per etnonimi, sembra omologare tutte le differenze nella qualifica indifferenziata “musulmano” che diventa automaticamente sinonimo di “inassimilabilità” nelle società europee dei potenziali integralisti e terroristi nemici dell'Occidente.

Parafrasando l'antropologo Edward W. Salih, Annamaria Rivera scrive che “chi parlasse di “mentalità negra” o di “psicologia dell'ebreo” - oppure di “terrorismo cristiano” - non sarebbe preso minimamente sul serio da un pubblico còlto (e anche poco còlto), è invece preso sul serio chi parla di “carattere musulmano”, di “mentalità musulmana” o peggio di “ferocia islamica” (2005: 130-131).

Rahman non ha mai riscontrato problemi con la pratica religiosa, dice che il Comune finora ha concesso loro una sala per la cerimonia della fine del Ramadan e ritiene che i bangali non hanno risentito degli avvenimenti che sono seguiti agli eventi dell’11 settembre 2001.

A Treviso e fuori capoluogo, nel Quartier del Piave, non esiste attualmente un luogo di culto a disposizione dei musulmani dal Bangladesh, ma neanche per altre provenienze, dal Senegal, dal Marocco, dall'Albania. Essi praticano la preghiera in forma privata, talvolta più coinquilini o uomini si riuniscono per pregare insieme. La sede dell'associazione Bati è un luogo di incontro stabile, con solo cinque iscritti. Il comune pratica sempre dei controlli attraverso visite dei vigili urbani, anche nelle “associazioni asiatiche”64, ma non concede spazi, quindi ogni gruppo di fedeli si organizza in case private. Nel corso del 2008 anche la sua casa, come quella di altri immigranti viene perquisita senza tuttavia alcuna compromissione. Per questo ha ridotto il numero di fedeli che la frequentano e non ritiene più indispensabile una moschea per i bangali. Ciò che lo ha più colpito di queste vicende, è che la visione bangla della vita sia non molto diversa da quella veneta: lavoro, casa e chiesa, a dimostrazione che solo apparentemente sembrano esserci distanze incolmabili tra i due modi di comportarsi e che l'incontro è possibile.

Mi dice che appena arrivato la situazione era diversa, molto è cambiato dopo la guerra. Penso si riferisca all'Afganistan, all'Iraq e al Pakistan. Prima nessuno notava che i bangali fossero musulmani mentre ora ha l'impressione che la gente li guardi con timore, a come sono vestiti e soprattutto le donne, se portano il velo.

La pratica religiosa musulmana del Quartier del Piave appare agli italiani

prevalentemente maschile perché è più relazionata con l'esterno e legata all'ora di preghiera o digiuno nel luogo di lavoro. Qui, mi dice i bangali e i datori di lavoro sono riusciti a produrre buoni compromessi, evitando di rompere il digiuno saltando l'ora di pranzo durante il Ramzan, oppure privilegiando la priorità del lavoro rispetto ai propri obblighi religiosi.

Fattori come il tipo e l'orario di lavoro, la flessibilità e l'apertura dei datori di lavoro, lo sforzo fisico e psicologico richiesto per seguire certe interdizioni o obblighi, dimostrano che l'ortodossia è una variabile soggettiva e non si possono fare generalizzazioni sui comportamenti religiosi dei bangali.

A sostegno di quest'ultima affermazione vorrei considerare la rinuncia alla ricerca di un luogo per l'apertura di una moschea da parte dei musulmani dal Bangladesh di Pieve. Innanzitutto essi non sono tutti musulmani praticanti. Alcuni, come ho già detto si dicono buddisti, altri manifestano un credo che è un sincretismo indù-musulmano. Alcune donne provenienti dal distretto di Dhaka, con le quali ho relazionato al corso di lingua italiana (dicembre 2008), dicono di essere devote alla dea Durga. Nell'ottobre del 2011 esse hanno partecipato al rituale di immersione della statua della divinità nelle acque della laguna veneta. In Bangladesh frequentavano i templi indù della città di Calcutta. Il mito della Dea Madre, l'“inaccessibile”, è indiano.

Alcuni studiosi bengalesi, come Bawmik Dulal, vedono dietro questa auto- rappresentazione delle figure femminili la politica dei leaders e dei capi spirituali bangla che l'hanno riproposta dopo l'Indipendenza del 1971: essa è la custode della casa, della fissa differenziazione dei ruoli per genere e della purezza. Le donne sposate nel giocare il ruolo di moglie e di madre dovrebbero manifestare le seguenti qualità: obbedienza, pazienza, resistenza e sacrificio65.

Recentemente Rony Akter, il Presidente dell'Istituto Italiano di cultura bengalese (BCII) di Roma, massimo esponente e portavoce dei migranti dal Bangladesh in Italia ha organizzato nel 2010 il primo festival internazionale della cultura bengalese. Il Lalon

International Festival è dedicato alla figura del filosofo, musicista Baul e umanista

bengalese Lalon Shah. Egli nacque nel 1774 da una famiglia hindu di casta Ksatrya, in quella parte di Bengala che oggi costituisce il Bangladesh.

Lalon fu uno dei principali cantori mistici del continente indiano e la voce più radicale durante il dominio coloniale britannico. Ha celebrato con le sue liriche la libertà del corpo, dell’anima e della lingua da tutte le forze che reprimono e dividono gli uomini.

Rappresenta i Baul ai quali apparteneva: cantori poveri, illetterati, erranti, la cui saggezza non traeva origine da un addestramento accademico, ma dal contatto costante con una vita intensamente vissuta.

“Lalon cent'anni fa diceva che la casta non esiste – commenta Akther in un'intervista – perché siamo anzitutto umani. A lui si ispirarono i filosofi indiani Rabindranath Tagore e Mahatma Gandhi”66.

I Baul sono degli indù eterodossi – seguono opinioni discordanti da quelle comunemente accettate, specialmente in fatto di religione e politica – e ignorano riti di ogni sorta. Il loro credo è un sincretismo indù-musulmano, e incorpora alcuni aspetti del sufismo, del buddismo, delle pratiche yoga e del tantrismo. Rifiutano la separazione tra musulmani e indù e anche la differenza tra uomini e donne. Inoltre, venerano soltanto la divinità che ognuno ha dentro di sé: per loro il tempio indù o la moschea musulmana sono solo degli ostacoli sulla rotta di Dio67.

Tutti questi elementi presuppongono un comportamento religioso al di là dell'ortodossia indù e della “corretta pratica” islamica (adab), dibattito emerso in seno alla società indiana musulmana nella seconda metà del XIX° secolo (Abenante, 2006: 91) assieme all'impossibilità effettiva di imporre la sharī'a su una popolazione in maggioranza non musulmana e su territori estremamente vasti (Giunchi, 2006: 115-139), rendendo incerti i confini per una categorizzazione religiosa monolitica dei migranti italiani e di Pieve. Altre considerazioni interessanti si possono fare riguardo la costruzione mediatica dello “straniero” al quale si contrappone subito la propria identità caricandola di simboli come la sacralità del Piave. Si parla quindi di “perquisizioni” delle “associazioni asiatiche” per “un certo irrigidimento dei costumi di tipo integralista” riguardo la necessità di apertura di una moschea, che in breve tempo viene declinata da Rahman dopo i controlli dei vigili urbani. Questo prova che l'etnicità, in un contesto che ne favorisca la formazione, non è comunque una variabile generica.