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I DIRITTI DELLE DONNE E IL PLURALISMO CULTURALE

5. RAPPRESENTAZIONI QUOTIDIANE E INCONTRI SUL CAMPO

6.10 I DIRITTI DELLE DONNE E IL PLURALISMO CULTURALE

La questione della conflittualità tra diritti e pluralismo delle differenze culturali, generati dal tema del velo, mettono in luce molti problemi della società italiana che si relaziona o scontra con le altre culture generando stereotipi, pregiudizi, paure,

insicurezza, etnocentrismo e razzismo, fino ad evocare i fantasmi della stregoneria. La rappresentazione della donna come “tradizione” e come essenza dell'Oriente si concretizza nelle narrazioni coloniali nell'importanza e urgenza di “svelare” le donne stesse (Salih, 2008: 19).

Le diverse aspettative e desideri delle donne musulmane, smontano invece le pretese assolutistiche del liberalismo occidentale, quale portavoce finale del bene e di tutti i valori morali, associato a impertinenti e paternalistiche pretese di emancipazione all'occidentale100.

Questo capo di abbigliamento, che le donne bangla definiscono in questi termini, “hijab

is a different definition of beauty” cioè un valore morale ed estetico, si rivela, scrive

l'antropologo Francesco Remotti, “l'elemento decisivo dell'ideale estetico di femminilità culturalmente prodotto: i corpi delle donne prendono forma nella loro bellezza anche attraverso operazioni del velare e del nascondere” (2000: 109-119).

Questo capo di abbigliamento assume dunque un valore in sé che, nonostante le somiglianze con le moderne pratiche occidentali di chirurgia estetica101, rivela uno squilibrio di potere che il discorso umanitario introduce sui diritti e le libertà femminili: introduce un “noi” e un “loro” e non suggerisce “la necessità che ognuno/a debba farsi carico del discorso critico su di sé, senza essere invaso/a dagli effetti normativi del giudizio dell'altro/a (Franca Bimbi, 2011: 9).

Lo scopo principale del velo è quello di segnalare le differenze sociali, indica ciò che deve essere rispettato, ciò che rappresenta un valore. In questo senso voglio riportare una pagina del mio diario sul campo, che appare più come una riflessione personale e lirica sull'uso del velo piuttosto che un giudizio su di esso. Lo scritto è di una giovane ventenne musulmana praticante del Marocco, che non è sposata, vive con la famiglia. La donna, che parla bene l'italiano e il francese ed è un'allieva del corso di L2, si è sentita molto coinvolta in questa vicenda, ma è intervenuta tempo dopo e in maniera autonoma:

100Molte donne avevano già attaccato Taslima Nasreen, una femminista bangla, affermando che non era criticando la religione, i valori e la cultura che si facevano evolvere le cose. Erano naturalmente e giustamente contro la sua condanna a morte, ma allo stesso tempo prendevano le distanze dai suoi discorsi riduttivi e totalmente occidentalizzati. Esse pensano che le cose si possano modificare meglio dall'interno che tramite questa specie di lotta, percepita come l'unica “progressista” in Occidente, che per essere legittimata e riconosciuta spinge i suoi partigiani a gettare tutto, il bene e il male.

101Nonostante le somiglianze tra le pratiche sul corpo e il mescolamento tra desiderio di sé (bellezza e piacere) e desiderabilità sociale (“solo così posso valere per lui”) sembra che le donne occidentali e le immigranti rimangano comunque due portatrici di libertà su sé stesse differenti.

Io sono libera dagli occhi curiosi. Sono libera dal mondo esterno, nessuno si cura più di come mi vesto, qual'è la moda che seguo e se si adatta a me o no. Sono libera da pettegoli grazie ad Allah che mi rassicura. Non c'è bisogno di sprecare il mio tempo tutto il giorno di fronte a uno specchio, non importa quanto io non sia soddisfatta, subito i miei occhi seguono un'altra bellezza. Io sono libera dall'argomento interiore della mia mente “avrei dovuto indossarlo in questo modo oppure il contrario”. Io sono libera di sentirmi imbarazzata. Mi sento più sicura, perché conosco le persone che sono con me per la mia bellezza e quelli che sono con me per tutte le buone qualità che possiedo. Mi sento orgogliosa di camminare completamente coperta assieme ai miei cari sapendo che sono una gemma preziosa per loro. Mi sento orgogliosa di sentirmi dire che sono musulmana con il mio hijab. Ora sono una donna libera di proteggere i miei diritti da coloro che cercano di regolarmi costringendomi ad indossare la loro moda, ad usare i loro cosmetici...più che altro mi sento libera di comunicare con il mio Dio, per affrontare l'Onnipotente, alla legge del quale io ubbidisco senza dubbio!102 (2009).

I termini eurocentrici, scrive Okin, di “sopravvivenza culturale, tradizione, arretratezza culturale, emancipazione, invitano ad una ricerca di nozioni più sfumate e complesse. Con uno zelo non diverso dalla missione civilizzatrice coloniale il liberalismo fallisce sul piano pratico, perché non sa tradurre le politiche di genere della città nella migrazione, e un appello veramente femminista in favore di una riforma nei paesi musulmani o tra gli immigranti musulmani deve rispettare i loro sentimenti religiosi e culturali riconoscendo il carattere sacro dei primi e la flessibilità dei secondi” (1999: 44).

Per le norme che veicolano, scrive l'antropologa Raffaella Cucciniello, i capelli oggi “rappresentano uno dei primi elementi scelti dalle donne bangla per segnalare la loro volontà di emancipazione. Nei villaggi, le donne che vagano da sole, con i capelli in libertà, sono considerate preda del cattivo batash, il vento che scompiglia le chiome facendo perdere la testa nella pazzia. Le prostitute si espongono nello spazio pubblico con le chiome sciolte, utilizzandole come potente richiamo erotico in direzione maschile, mentre le studentesse universitarie e le intellettuali che vivono in città hanno l'abitudine di tagliarli corti, alla “maschio”103.

102La traduzione dal francese è personale. Il testo scritto in lingua francese è il seguente: “Je suis libre

de tout regard indiscret. Je suis libre à partir du monde extérieur, personne ne se soucie plus de savoir comment je m'habille, ce que c'est la mode que je suis, et si elle me convient ou pas. Je suis libre grâce à Allah qui me rassure. Il n'est pas nécessaire de perdre mon temps tous les jours en face d'un miroir, peu importe combien je ne suis pas satisfait, immédiatement mes yeux suivent une autre beauté. Je suis libre d'intérieur de ce doute “je le devrais porter cette façon ou de l'autre manière. Je suis libre de me sentir gênée. Je me sens plus confiant, car je connais des gens qui sont avec moi pour ma beauté et ceux qui sont avec moi pour toutes les bonnes qualités que je possède. Je suis fier de marcher complètement couvert avec mes proches parce qu'ils savent que je suis une pierre précieuse pour eux. Je suis fière de dire que je suis, avec mon hijab, musulmane. Je suis maintenant une femme libre de protéger mes droits par ceux qui cherchent à me gouverner en me forçant à porter à leur façon, d'utiliser leurs produits cosmétiques ... plus qu'autre chose je me sens libre de communiquer avec mon Dieu, à l'adresse du Tout-Puissant, j'obéis à la loi sans aucun doute!”

6.11 IL CIBO COME ELEMENTO DI APPARTENENZA CULTURALE NEL PROCESSO MIGRATORIO

Il cibo può essere considerato un elemento culturale per la relazione che intercorre tra esso, come simbolo, e l'identità. Nel corso dell'evolversi delle vicende umane ha assunto una sempre più forte connotazione culturale perché ha implicato una progressiva differenziazione sociale, economica, politica e religiosa. Ora, la differenziazione implica identificazione: la propria cultura è tale perché in opposizione ad un'altra, perché differente, non c'è identità senza alterità (Remotti, 1990).

Il cibo, soggetto e oggetto del divenire culturale, si garantisce uno status indipendente da altre categorie culturali, accanto alla lingua e alla religione (Pravettoni, 2010).

Le prime migrazioni sono avvenute per motivi strettamente legati al cibo e alla sua disponibilità. La natura delle migrazioni nel contesto attuale ha, invece, un orientamento economico-sociale e politico.

Nel caso dei migranti dal Bangladesh a far intraprendere il viaggio, fisico e simbolico, sono comunque la volontà di approdare a realtà che permettano di migliorare le condizioni di vita per sé e la propria famiglia ed ha i risvolti di una soluzione estrema. Questa scelta implica un periodo di adattamento determinato dall'abbandono delle proprie categorie culturali per l'inserimento in un nuovo contesto fatto di relazioni sociali ed elementi sconosciuti all'esperienza, pertanto problematici perché difficili da accettare immediatamente.

Tra queste componenti è fondamentale la posizione occupata dalle differenze dei regimi alimentari.

Lo scopo di questo capitolo è di illustrare, attraverso l'esperienza del corso di cucina bangla, a cui ho partecipato alla fine corso di lingua italiana, come il cibo favorisca il processo di avvicinamento culturale ma possa anche creare degli spazi di frattura tra i migranti e la società in cui si sono insediati.