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La negazione degli arabi di Palestina “Il modello del mito di conquista”

2. Cos’è la Palestina?

Sovente i viaggiatori provenienti da Occidente, arcipelago britannico in primis, si rapportavano alla Palestina come fosse una semplice ‘espressione geografica’: una sorta

accettati dai nuovi immigrati) optarono per l’esclusione e quindi la non integrazione con la popolazione araba locale – i gruppi menzionati si andarono quasi subito a integrare con gli autoctoni.

615 L’area del Bilād al-Shām comprendeva le attuali Siria, Giordania, Libano, Israele, territori palestinesi e

porzioni sudorientali della Turchia. Bilād al-Shām deriva da Bilād al-Shāmāl – che in arabo sta per regione a “sinistra” o “nord” – ed indica, avendo gli occhi diretti verso il sole, la dislocazione dell’area in rapporto alla penisola arabica. Il lato a sud è rappresentato da al-Yaman (“La Destra”), lo Yemen.

616 A. M

di Siberia del Mediterraneo Orientale. “Espressione geografica” (“geographischer Begriff”) fu peraltro anche la formula con la quale il cancelliere austriaco Metternich (1773-1859) apostrofò l’Italia nel 1847.617

Una tale attitudine venne in seguito ulteriormente rafforzata dall’influenza di alcune delle correnti più estreme del sionismo, le quali accostarono l’idea della Palestina a un concetto astratto, giustificando tale approccio con il fatto che essa non avesse mai avuto frontiere, bensì solo confini amministrativi. Era questa tuttavia una predisposizione – sostenuta nel corso dei decenni da diversi autorevoli studiosi618

– che per molti versi non trovava riscontri nei sentimenti degli ‘interni’.

Un editoriale pubblicato su Filastīn del 2/15 febbraio 1913 ammonì che “non è più il tempo dell’Impero ottomano. È il nostro tempo [...] organizzeremo un esercito speciale per proteggere la Palestina”.619

Un numero speciale pubblicato l’anno successivo sul medesimo giornale commentava con le seguenti parole il tentativo di chiudere il giornale da parte del governo ottomano: “Cari lettori, a giudizio del governo centrale sembra che abbiamo commesso un atto grave nell’allertare la nazione palestinese [al-umma al- filistiniyya] contro il pericolo che la minaccia da parte della corrente sionista. […] siamo una nazione che è minacciata di scomparire di fronte a questa corrente sionista in questa terra di Palestina [fi hathihi al-bilad al-filistiniyya]”.620

Di esempi simili a quelli appena citati se ne possono rintracciare a profusione: tanto tra le masse contadine quanto, ancor di più, tra le élite urbane.621

Nei diciannove giornali

617 Metternich, 2 ago. 1847. Cfr. A. GERCEN, Briefe aus Italien und Frankreich: (1848- 1849), Hoffmann,

Amburgo 1850, p. 56. Secondo Metternich “la parola Italia è una espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono ad imprimerle”.

618 Scrive Lewis: “The word [Palestine] survived briefly in the early Arab Empire, and then disappeared”.

B. LEWIS, From Babel to Dragomans, Phoenix, Londra 2005, p. 191. Scrive Assaf Likhovski: “Prior to 1917, Palestine [...] was merely a geographical term”. A. LIKHOVSKI, Law and Identity in Mandate

Palestine, Univ. Of North Carolina Press, Chapel Hill 2006, p. 10.

619 MDC – “Filastīn”, 2/15 feb. 1913. Due mesi dopo il medesimo giornale mise in guardia i lettori circa il

pericolo che la Palestina potesse trasformarsi in un paese “interamente ebraico”. MDC – “Filastīn”, 19 apr. 1913. Editoriali dello stesso tenore sono presenti su grande parte dei giornali dell’epoca: “Per quanto tempo ancora l’avvoltoio [le organizzazione sioniste] mangerà il cuore del nostro paese? Se perdiamo il nostro paese che viviamo a fare?”. MDC – “al-Karmil”, 27 nov. 1912.

620 Cit. in K

HALIDI, Identità palestinese cit., p. 241.

621 Sebbene la gran parte dei giornali palestinesi riuscissero a stampare solo poche centinaia di copie

ciascuno (“al-Quds” ne stampava tuttavia circa 1500 prima del 1914), la maggior parte di essi erano presenti nei luoghi pubblici e in alcune biblioteche aperte al pubblico; inoltre non di rado essi venivano

fondati in Palestina tra il 1908 e il 1914, non a caso gli unici sei anni in cui la stampa locale fu libera,622

i riferimenti a una peculiare “umma palestinese” erano infatti la norma. Se rispetto ad altri contesti questo sentimento era cresciuto in modo più repentino ciò era in gran parte riconducibile a due fattori già evidenziati: un tangibile e crescente pericolo esterno, nonchè un livello di autoidentificazione relativamente già ben sviluppato. al- Karmil, al-Quds, Filastīn, al-Munadi, al-Dustur,623

solo per citare i giornali maggiori, rappresentavano in questo senso uno specchio sul quale proiettare l’amore per la propria terra, nonchè i timori che si prefiguravano all’orizzonte: “La terra [palestinese] – ammonì un editoriale pubblicato su Filastīn il 6/9 aprile 1913 - iniziò a essere soggetta all’attenzione del sionismo e fino ad oggi ci sono in Palestina 100.000 ebrei [...] come è possibile essere certi che questi 100.000 non diventino 200.000 e che essi non raggiungano una forma di autorità autonoma [...]”.624

Ma non sono solo i mezzi di comunicazione del tempo – che di certo favorirono il processo di sviluppo di una “self-conscious [Palestinian] community”625

– a testimoniarci l’autopercezione che gli autoctoni, all’inizio del XX secolo, sulla scia dei primi effetti in loco del nazionalismo, avevano della loro terra. È possibile infatti affidarsi anche a numerosi documenti, lettere ufficiali e diari privati che facevano esplicito riferimento a una terra di Palestina con confini che possono essere definiti relativamente precisi. In tal

inviati gratuitamente al mukhtar (capovillaggio) di diversi centri abitati. J. YEHOSHUA, Tarikh al-sihafa al- ‘Arabiyyah fi Filastin fi al-‘ahd al-‘Uthmani, 1909-1918 [La storia della stampa araba in Palestina durante l’era Ottomana, 1908-1918], Matba’at al-Ma’arif, Gerusalemme 1974, pp. 17-18 e 44.

622 Il 1908 fu l’anno della nuova costituzione (la seconda dopo quella del 1876) concessa da Abdul Hamid

II (1842-1918). Il nuovo clima portò a una diminuzione delle restrizioni imposte dalla censura ottomana e la conseguente proliferazione di nuovi organi d’informazione. Questa breve fase fu interrotta dall’avvio della Prima guerra mondiale, quando la Porta mise il bavaglio a tutti gli organi di stampa. Al termine della guerra i giornali locali cominciarono a riorganizzarsi; già dal 1919/20 iniziò una nuova fase, quella della censura imposta dal governo di Sua Maestà. Quasi vent’anni dopo (feb. ‘37) le autorità britanniche registrarono in Palestina la presenza di otto quotidiani annoverabili come “political press”. Quattro (“al Liwa”, “Filastīn”, “al-Difa’a”, “al-Jamia al-Islamiya”) erano arabi e quattro (“The Palestine Post”, “Haboker”, “Ha’aretz”, “Davar”) ebraici. In concomitanza con i primi mesi della Grande rivolta araba del 1936-39, i “Arab newspapers were suspended on thirty-four occasions and Hebrew papers on thirteen occasions”. TNA CO 733/346/10. Rapporto annuale prodotto dalle autorità britanniche nel 1936.

623 “al-Karmil” venne fondato nel 1908 nel distretto di Haifa da Najib Nassar. Rimase in attività fino al

1944. “al-Quds” venne stampato la prima volta a Gerusalemme nel 1908, per poi essere chiuso nel 1917, in concomitanza con la caduta dell’Impero ottomano. “al-Munadi” venne pubblicato nel 1912; rimase in attività fino al 1914. “Filastīn” fu fondato da Yūsuf (1870-1948) e Issa Daoud El-Issa (1878-1950); risultò il più longevo dei quattro giornali, rimanendo in stampa dal 1911 al 1948. “al-Dustur” venne stampato da Khalīl Sakānīnī (1878-1939) tra il 1910 e il 1913, per poi essere ceduto a Jamīl al-Khālidī. Y. KHŪRī, al- Sahafa al-‘Arabyya fi Filastīn [La stampa araba in Palestina], Institute for Palestine Studies, Beirut 1976.

senso è esemplare il documento di protesta che il 3 febbraio 1919 i partecipanti al congresso arabo palestinese che prese vita a Gerusalemme inviarono alla Conferenza di pace: “Tutti i residenti musulmani e cristiani della Palestina, che è formata dalle regioni di Gerusalemme, di Nablus e dell’Araba San Giovanni d’Acri [...]”.626

Per la sua ampia maggioranza musulmana Filastīn, un termine ricollegabile a quella stessa “Palashtu” a cui fece riferimento il re assiro Sargon II (?-705a.C) e che in seguito ritroviamo nella cultura greca dei tempi di Erodoto (484-425a.C.),627

era in realtà già da molti secoli una terra facilmente circoscrivibile. Ciò era dovuto alla sua acclarata unicità. Un ampio numero di fonti islamiche classiche628 la indicava come Al ‘Arḍ al Muqaddasa

(“La Terra Santa”), un appellativo peraltro presente anche in un passo del Corano: “Ya qawm, udkhulu Al ‘Arḍ al Muqaddasa [Oh popolo entra nella Terra Santa]”.629 La

consapevolezza e la percezione di una Palestina, che, in quanto Al ‘Arḍ al Muqaddasa, fosse un’area speciale e perciò distinta dalla Siria e dal Libano, si suppone presente da sempre nella coscienza araba: “La Terra Santa [Al ‘Arḍ al Muqaddasa] – scrisse nel 1663 il filosofo marocchino Abū Sālim Al-῾Ayyāshī (1628–1679) – è il luogo più vicino al paradiso che ci sia al mondo”.630

Per una percentuale minoritaria di studiosi tale unicità era palese al punto da poter addirittura competere con il ruolo della Mecca e Medina, le 625 A. A

YALON, Reading Palestine, Univ. of Texas Press, Austin 2004, p. 64.

626 Cit. in J. H

ILAL, I. PAPPE, Parlare con il nemico, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 159.

627 La Palestina prende il suo nome dai pelishtim (filistei), una tribù annoverata tra i “popoli del mare” che

nel XII a.C. si stanziarono nell’area costiera meridionale della regione (tra le odierne Tel Aviv e Gaza). L’origine dei filistei è dibattuta. Erodoto usò i termini Palaistinê Syria (“Siria-Palestina”) riferendosi a un’area più ampia rispetto a quanto indicato nell’ebraico biblico con Pəlésheth. Nel VII libro delle Historìai (“Storie”), intitolato Polinnia, è scritto: “[...] questa parte della Siria, con tutto il paese, che fino all’Egitto si esistende, chiamasi Palestina [Palaistinê]”. G. DESIDERJ, Erodoto Alicarnasseo, v. II, n.d., Roma 1789, p. 153. Per una trattazione sul riferimento fatto da Erodoto a proposito degli abitanti circoncisi della “Palaistinê” (pratica diffusa tra le antiche popolazioni semite; è rintracciabile nell’Antico Egitto la più antica prova riguardante la circoncisione) cfr. J. BRUNSCHWIG, G.E.R. LLOYD (eds.), Greek Thought, Harvard UP, Cambridge (MA) 2000, p. 871. Anche Aristotele (384-322 a.C.), basandosi su informazioni di seconda mano, usò il termine Palestina. Il fatto che anche in questo caso il termine non indicasse un’area precisamente delimitata non sminuisce l’importanza della citazione: “Se esiste in Palestina, come narrano alcuni, un lago [Mar Morto] tale che se qualcuno ci getta dentro un uomo o un animale legati esso galleggia e non annega [...]”. ARISTOTELE, Metereology, Kessinger, Whitefish 2004, p. 39.

628 Un caso esemplare è rappresentato dalle tafsīr (esegesi) coraniche prodotte da Tabarī (838–923).

TABARĪ, Jāmi‘ al-bayān ‘an ta’wīl al-Qurān [La raccolta evidente circa l’interpretazione del Corano], Ed.

Sīdqī Jamīl al-‘Attār, 15 volumi, Beirut 2001. Per una fonte successiva cfr. MUJĪR AL-DĪN, al-Uns al-Jalil bi-tarikh al-Quds wa’l-Khalīl [La gloriosa storia di Gerusalemme ed Hebron], v. I, al-Haydariyya, Najaf 1968, pp. 65, 66, 71, 94, 101.

629 Sura 5:21 (Mosè comunica al suo popolo la promessa di Dio). 630 A.S. A

L-῾AYYĀSHĪ, al riḥla Al-῾Ayyāshīa [Il viaggio di al-῾Ayyāshī], v. 2., Dār al-Essouaidī, Abu Dhabi 2006, p. 189.

prime due città sacre dell’Islam: “The Qur’ān – precisò Amir Ali (1937-2005), fondatore dell’Institute of Islamic Information & Education – calls only Palestine ‘holy’ or muqaddasah. We have three ‘harams’ but only one holy land. I have never found in the Qur’an or Hadith the word muqaddas being used for Makkah or Madina”.631

Una conferma di tale specificità era peraltro riscontrabile, con riferimenti geografici ancora più circoscritti, in un numero cospicuo di fonti prodotte nel corso di un vasto lasso temporale. Un testo islamico dell’VIII secolo attribuito allo studioso medievale Abū Khālid Thawr Ibn Yazīd al-Kalā‘ī (764–854), un fiero sostenitore dell’idea che le donne dovessero avere la facoltà di servire come imām (“Guida spirituale”), argomentava che “il luogo più sacro [al-quds] della terra è la Siria; il luogo più sacro in Siria è la Palestina; il luogo più sacro in Palestina è Gerusalemme [Bayt al-maqdis]”.632

Cenni circostanziati alla Palestina, non necessariamente di carattere strettamente religioso, li ritroviamo nel Kitāb al-Buldān (“Il libro dei Paesi”) dello storico sciita Al-Ya‘qūbī (?-897)633

e nel

Kitāb al-masālik wa al-mamālik (“Libro delle vie e dei regni”) del geografo persiano al- Istakhri (?-957): “Filastīn – scrisse al-Istakhri – è la più fertile delle provincia siriane […] Nella provincia di Filastīn, a dispetto della sua ristretta estensione, ci sono circa venti moschee […] Al massimo della sua lunghezza [Filastīn va] da Rafh [odierna Rafah] fino al confine di Al Lajjûn (Legio), a un viaggiatore occorrerebbero due giorni per transitarla; e [questo è] il tempo veromilmente [necessario] per attraversare la provincia nella sua larghezza da Yâfâ (Jaffa) a Rîhâ (Jericho) […]”.634

Contenuti simili sono presenti anche nel Kitāb Ṣūrat al-’Arḍ (“Il libro della configurazione della Terra”)635 del mercante

631 L’argomento è affrontato in A. FAHĪM GABR, Al ‘Arḍ al Muqaddasa [La Terra Santa], An-Najah Univ.,

Nablus 1983.

632 Cit. in J.

VAN ESS, “Abd al-Malik and the Dome of the Rock. An Analysis of Some Texts” in J. RABY, J. JOHNS (eds.), Bayt Al-Maqdis, v. I, Oxford UP, Oxford 1992, pp. 89-90. La frase citata riprendeva, come accade in parti consistenti della teologia islamica, concetti già presenti nella tradizione ebraica (anche la tradizione greca ebbe un impatto evidente). Nel corso dei secoli, nei campi dell’astronomia, della logica, della matematica e della giurisprudenza, l’influenza fu invece all’insegna della reciprocità.

633 Cfr. A

L-YA‘QŪBĪ, M.J. DE GOEJE (ed.), Kitāb al-Buldān [Il libro dei Paesi], Bibliotheca Geographorum Arabicorum, v. II, Brill, Leiden 1892, p. 330. Trad. in francese in G. WIET, Les Pays, Institut Français d'Archéologie Orientale, Il Cairo 1937.

634 Cit. in G. L

ESTRANGE, Palestine Under the Moslems: A Description of Syria and the Holy Land from

A.D. 650 to 1500, Watt, Londra 1890, p. 28. Le traduzioni dell’orientalista inglese Guy Le Strange (1854- 1933) relative ai geografi islamici del Basso Medioevo sono ancora oggi una sorgente ineguagliabile di informazioni sul tema.

635 I

BN HAWQAL, Kitāb Sūrat al-’Arḍ [Il libro della configurazione della Terra], Brill, Leida 1967, trad. in francese in J.H. KRAMERS, G. WIET (eds.), Configuration de la terre, 2 v., Maisonneuve et Larose, Parigi- Beirut 1964.

bagdatense Ibn Ḥawqal (X sec.), nella Ahsan at-Taqasim fi Ma’rifat il-Aqalim (“La migliore divisione per la conoscenza delle regioni”) del geografo gerosolimitano Al- Muqaddasi (946-1000)636

e più in generale in ampi settori della letteratura araba del Basso Medioevo. Esemplare a questo riguardo il genere letterario dei “Meriti di Gerusalemme” (Faḍā‘il al-Quds), composto a metà dell’XI secolo e contenente molti materiali riconducibili al VII e all’VIII secolo. Nei Faḍā‘il al-Quds, ancora una volta, venivano descritte in tono esaltatorio le bellezze di al-Quds (Gerusalemme) e delle località più sacre ed importanti del paese.637

In virtù di tali considerazioni non stupisce che anche in un’epoca più tarda ci fosse tra i suoi abitanti una percezione più o meno definita della Palestina. Un’analisi dettagliata dei testi del muftì Khayr al-Dīn al-Ramlī (1585-1671), influente giurista islamico nella Palestina ottomana del XVII secolo, nato e morto nella città da cui trae origine il suo cognome (appunto Ramla), conferma ad esempio che il concetto di Filastīn, da lui indicata come “bilādunā” (“il nostro paese”),638

fosse molto più di un’idea astratta. Si tratta di un sentire comune peraltro confermato anche da quello che è considerato uno dei più noti classici della storia gerosolimitana del Medioevo: al-Uns al-Jalil bi-tarikh al- Quds wa’l-Khalil (“La gloriosa storia di Gerusalemme ed Hebron”). Nelle pagine del manoscritto, composto intorno al 1495, il suo autore, il qadi di Gerusalemme Mujīr al- Dīn al-‘Ulaymī (1456–1522), fece un uso sistematico (22 citazioni) del termine

636 Di seguito uno dei tanti passaggi scritti sulla Palestina da Al-Muqaddasi (“Il Gerosolimitano”): “Il

commercio dalla Palestina include olive, fichi secchi, uva passa, e il frutto della carruba, anche tessuti mischiati da cotone e seta”. LESTRANGE, Palestine Under the Moslems cit., p. 18.

637

AL-MAQDISĪ, O. LIVNE-KAFRI (ed.), Fada‘il Bayt al-Maqdis wa-al-Khalil wa-Fada’il al-Sham [Meriti di Gerusalemme ed Hebron e meriti della Siria], Aimashreq, Shefa-‘Amr 1995. Come suggerisce il titolo dell’opera, tale lavoro incluse anche sezioni dedicate a Hebron e alla regione siriana. La diretta associazione tra Hebron e Gerusalemme è una delle caratteristiche del testo. Per un’analisi della letteratura dei Faḍā’il al-Quds in rapporto all’emergenza della coscienza della Palestina come paese a sè cfr. A. SCHÖLCH, Palestine in transformation, 1856-1882, Institute for Palestine Studies, Washington 1992.

638

AL-RAMLĪ, Al-fatāwā al-Khayriyya li-naf al-bariyya [Risposte legali consolatorie a beneficio della Creazione], v. II, Dār al-Ma‘rifa, Il Cairo n.d., pp. 151-160. Haim Gerber ha notato che “little used sources from the 17th and 18th centuries indicate some remarkable traces of awarness of territorial consciousness that deserve closer scrutiny. […] While I am fully aware that some may claim that such territorial concepts may simply refer to one’s native home, place of birth, a close reading of [Khayr al-Din] al-Ramli may suggest that there is something more to it, and that we are in fact looking at something that can only be called embryonic territorial awarness, though the referente is to social awarness rather than to a political one”. Cfr. H. GERBER, “‘Palestine’ and other territorial concepts in the 17th century”, in “International Journal of Middle East Studies”, v. XXX, n. 4, nov. 1998, p. 563.

“Filastīn”,639 alternato sovente con Al ‘Arḍ al Muqaddasa. L’indicazione “Siria meridionale”, per contro, non fu mai menzionata.

Ancora una volta non dovrebbe dunque sorprendere che “Arz-i Filistin” (la “Terra di Palestina”), coincidente all’area posta a occidente del fiume Giordano, fosse la denominazione che le autorità ottomane usavano nel XIX secolo nella corrispondenza ufficiale per indicare la Palestina. Essa, la “Arz-i Filistin”, non rappresentava un’area politicamente autonoma, anche se manteneva, tanto nell’uso popolare quanto in quello ufficiale, un’accezione peculiare non trascurabile.640 Non a caso la formula “Arz-i Filistin

ve Suriye” (la “Terra di Palestina e la Siria”) era utilizzata di frequente nella corrispondenza ufficiale ottomana,641 così come nelle mappe stampate a Istanbul nel 1729

dal tipografo del sultano Ibrahim Müteferrika (1674–1745).642 Non è dunque una coincidenza, come ha notato Beshara Doumani, che il governo centrale ottomano “established an administrative entity with borders practically identical to those of Mandate Palestine in three brief occasions during the nineteenth century: 1830, 1840, and 1872”.643

Proprio il 1872 è peraltro l’anno in cui il console Noel Temple Moore scrisse un dispaccio a commento della “recent erection of Palestine into a separate Eyalet” (una decisione accolta con giubilo dalla popolazione locale), sottolineando che “many British travellers and explores visit the country east of the Jordan [corsivo aggiunto]”.644

È nel quadro appena delineato che è forse possibile comprendere per quale ragione tanto gli ottomani, quanto i missionari protestanti, gli arabi e i primi sionisti, benchè nessuno dei quattro avesse la stessa percezione del perimetro esatto della Palestina, usassero tale termine (Palestina) per riferirsi a quella specifica area del mondo. Una riunione della LJS, presieduta da G.H. Rose e avvenuta a Londra il 4 maggio 1838, auspicò ad esempio “the diffusion of the Holy Scriptures and of the knowledge of the Gospel throughout the

639 M

UJĪR AL-DĪN, al-Uns al-Jalil bi-tarikh, v. II, cit., pp. 66-73. In numerosi casi il termine “Filastīn” fu utilizzato da Mujīr al-Dīn in riferimento al presente, dunque in relazione alla fase storica in cui egli viveva.

640 In un suo studio sull’argomento Biger ha tralasciato le fonti che potessero ricondurre a un’idea meno

astratta di Palestina. Per contro, secondo l’autore, “the Jewish concept [of ‘Eretz Israel’] was basically historical, referring to the borders of the Promised Land […]”. G. BIGER, An Empire in the Holy Land, The Magnes Press, Gerusalemme 1994, p. 40.

641 BOA I.HUS 140/43. 12 feb. 1906.

642 Per la riproduzione della mappa si veda N. M

ATAR, Turks, Moors, and Englishmen in the Age of Discovery, Columbia UP, New York 1999, p. 134.

643 B. D

OUMANI, “Rediscovering Ottoman Palestine”, in “Journal of Palestine studies”, v. 21, Washington 1992, pp. 9-10.

whole of Palestine and the adjacent countries [corsivo aggiunto]”.645

Allo stesso tempo il programma del movimento sionista adottato nel 1897 “parlava (in tedesco) di una casa ‘in Palestina’ per il popolo ebraico”; senza contare che “la prima istituzione sionista creata nel Paese fu la ‘Anglo-Palestine Company’”.646

A dispetto di quanto appena sottolineato è opportuno segnalare l’esistenza di diversi documenti che sembrerebbero provare una tesi opposta. Ad esempio nel 1840, appena due anni dopo la riunione della LJS pocanzi citata, la Convenzione di Londra (cfr. cap. II) si riferì all’area di Acri indicandola come “the southern part of Syria”.647

L’Encyclopaedia Britannica pubblicata nel 1911 chiarì che la Palestina “may be said generally to denote the southern third of the province of Syria”.648

Di più, gli stessi ventotto delegati palestinesi che tra il 27 gennaio e il 9 febbraio 1919 parteciparono a Gerusalemme al primo Mu’tamar al-‘Arabī al-Filastīnī (“Congresso Arabo-Palestinese”) rilasciarono una dichiarazione definendo la Palestina come parte della Siria. Suriyya al- Janubiyya (“Siria meridionale”) fu peraltro anche il titolo di un giornale pubblicato a Gerusalemme a partire dal settembre del 1919.

Tuttavia gli esempi citati, così come altri ad essi simili, non contraddicono quanto finora sostenuto. Il fatto che in Europa ci si riferisse all’area in oggetto identificandola, a seconda dei casi, come Palestina o come “Siria meridionale” non ha infatti un particolare rilievo. Diverso sarebbe invece il discorso se gli autoctoni, come nel caso dei delegati palestinesi citati, si autoidentificassero come individui originari della “Siria meridionale”. Non era questo il caso. Fatti salvi alcuni isolati episodi riconducibili a espliciti calcoli politici,649

non c’è alcun documento prodotto dalla popolazione locale prima del 1918 o dopo il 1920 che ‘annullasse’ la Palestina e tutto ciò che essa rappresentava in favore del