Potere negativo del tribuno della plebe e diritto di sciopero: i limiti Rileggendo Giuseppe Grosso dopo 60 ann
2. Costituzionalizzazione di strumenti di lotta
Gli anni in cui Giuseppe Grosso coglieva ed utilizzava il parallelismo tra l’organizzazione sindacale e il diritto di sciopero da un lato e tribunato della plebe e l’intercessio dall’altro erano quelli successivi all’entrata in vigore della nostra Costituzione, la quale prevede, agli artt. 396 e 407, rispettiva-
mente il sindacato e il diritto di sciopero.
L’introduzione e la formulazione di questi articoli fu molto discussa. Tra i vari interventi all’Assemblea Costituente ritengo siano da sottolineare quelli del romanista Giorgio La Pira, che emergono dai resoconti sommari dei lavori della I Sottocommissione nei giorni dell’11 e 15 ottobre 1946. In tale sede, egli aveva affermato che i lavoratori non dovessero più essere considerati «atomisticamente», che la qualifica di lavoratore fosse uno stato giuridico8, che il diritto di sciopero fosse un diritto della persona e che non si
può ben mettere in risalto la notevole differenza; differenza nella posizione e negli obiettivi dei termini della lotta; differenza nella struttura e nel contenuto del mezzo e nei titolari della legittimazione all’uso di questo».
5 Ho sfogliato i numeri del 1949 e 1950 dei quotidiani “Il popolo nuovo” e “La Gazzetta
del Popolo” e molto frequenti sono gli articoli dedicati allo sciopero e al ricorso a questo
strumento di lotta.
6 Art. 39 Cost. L’organizzazione sindacale è libera.
Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge.
È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica.
I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.
7 Art. 40 Cost. Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano. 8 g. la Pira, Intervento, Commissione per la Costituzione, III Sottocommissione,
Resoconto sommario della seduta di venerdì 11 ottobre 1946, 225: «Poiché si sta facendo
una Costituzione alla quale non si vuole dare il vecchio volto liberale o liberista, ma un volto nuovo, è bene che un principio che esprima quest’altro volto venga espresso in questa Costituzione. Mentre la concezione liberale considera i lavoratori atomisticamente, nella nuova concezione organica del lavoro la qualifica di “lavoratore” è uno stato giuridico al quale si ricollegano diritti privati, diritti pubblici, conseguenze giuridiche»; 229 «La Pira
potesse “concretamente” sempre distinguere tra sciopero economico e scio- pero politico9.
Negli anni in cui Giuseppe Grosso rifletteva sul parallelismo tra interces-
sio e diritto di sciopero il ricorso a quest’ultimo era particolarmente intenso.
Per averne la percezione basta leggere tra i tanti il titolo con cui il quotidiano “Il popolo nuovo”10 riportava il dato dell’Istituto nazionale di statistica sugli
scioperi nel 1949, e cioè: “Gli scioperi nel 1949 sono costati alla Nazione
oltre centotrenta milioni di ore lavorative”.
Forte era quindi il timore per le conseguenze della costituzionalizzazione del diritto di sciopero, strumento di lotta economica e in definitiva anche politica11, fino al punto che ne veniva messa in discussione la compatibilità
con un ordine democratico12.
Negava tale compatibilità Corrado Barbagallo, il quale, in particola- re nell’articolo “Scioperi e democrazia” pubblicato sul n. 5 della Nuova
Gazzetta del Popolo del 6 gennaio 1950, utilizzava parole dure rispetto alla
riafferma il principio che l’associazione sindacale non è una qualsiasi associazione, ma diventa, nella concezione moderna dello Stato, un elemento strutturale dell’ordinamento sociale».
9 Commissione per la Costituzione, III Sottocommissione cit., 236: «La Pira è del parere che effettivamente il diritto di sciopero è un diritto della persona, e che quindi esso vada affermato in maniera più assoluta di quanto non faccia la formula proposta dal Presidente. Dichiara, però, divergendo dall’onorevole Togliatti, di ritenere che il diritto di sciopero vada in qualche modo limitato. Ricorda che tutte le Costituzioni moderne pongono dei limiti a questo diritto. Il primo progetto francese, per esempio, diceva: “Il diritto di sciopero è rico- nosciuto a tutti nell’ambito delle leggi che lo disciplinano”. Inoltre se si considera uno Stato socialista, in esso lo sciopero automaticamente sparisce. Togliatti, Relatore, osserva che spa- risce come fatto. La Pira replica che lo sciopero resta come diritto, ma non viene menzionato nella Costituzione. Lo sciopero è atto di rivendicazione, non soltanto economica, ma politica. Man mano che si costruisce uno Stato adeguato alle esigenze della classe lavoratrice, dando ad essa il posto che le spetta, si attenua l’esercizio del diritto di sciopero in certi settori dove è più vitale l’interesse pubblico». Su sciopero economico e sciopero politico in La Pira cfr. P. caTalano, Sovranità della multitudo e potere negativo: un aggiornamento, in Studi in ono-
re di G. Ferrara, vol. I, Torino 2005, 650, m. Vari, Alcuni principi costituzionali secondo
Giuseppe Grosso. Antologia, in Tradizione romanistica e Costituzione (diretto da L. Labruna
e a cura di C. Cascione – M.P. Baccari), vol. I, Napoli 2006, 271. 10 Si tratta del n. 91 del 1950.
11 g. grosso, Il diritto cit., 272, sottolinea come non si possa semplicemente distinguere
tra sciopero economico e sciopero politico, anche in considerazione del fatto che non sem- pre si possa escludere un fine politico dal fine economico e sociale.
12 c. barbagallo, Autonomia sindacale, in Nuova Gazzetta del Popolo, n. 9 del 11 gen-
naio 1949, 1 e id., Scioperi e democrazia, in Nuova Gazzetta del Popolo, n. 5 del 6 gennaio
democraticità dello sciopero, e quindi in merito alla scelta di costituziona- lizzare quest’arma di lotta.
Scriveva Barbagallo: «scioperando, si mette periodicamente alla tor- tura un’intera nazione, ossia gli avversari, gli amici, se stessi» e ancora: «Checché se ne dica, la società è un corpo organico (se così non fosse non avrebbe ragione di esistere!), e, se uno dei suoi ingranaggi vitali cessa di funzionare, la sofferenza si propaga a tutti gli altri organi, e in misura più grave ai più delicati tra essi»13.
13 c. barbagallo, Scioperi cit., 1, rispondendo alle affermazioni della Confederazione
Generale del Lavoro e «dei partiti di estrema sinistra» che sostenevano la democraticità del- lo sciopero, osservava: «allorché quei competentissimi si esprimono in tal senso, non deb- bono certo riferirsi alle “democrazie progressive” o “popolari”, giacché così fatte democra- zie non concepiscono, non ammettono il diritto di sciopero, e agli imprudenti che tentassero di risuscitarlo, sogliono far pagare tanta audacia con la forca. Ma essi debbono riferirsi a quell’altra democrazia senza aggettivi, a quella democrazia borghese, da cui, com’è natura- le, aborrono, ma che in singolari occasioni si compiacciono di invocare appassionatamente. … lo sciopero non colpirebbe tanto la classe degli “sfruttatori”, contro cui esso è rivolto, quanto l’intero corpo sociale e gli stessi suoi promotori. Se, invero, scioperano i tranvieri, gli “sfruttatori” si affrettano ad andare in macchina, ma i poveri diavoli debbono andare a piedi. … Checché se ne dica, la società è un corpo organico (se così non fosse non avrebbe ragione di esistere!), e, se uno dei suoi ingranaggi vitali cessa di funzionare, la sofferenza si propaga a tutti gli altri organi, e in misura più grave ai più delicati tra essi. ... se lo sciopero danneggia tutti, e assai più quelli che noi diciamo popolo, esso, come avverte anche l’etimo- logia della parola, risulta sicuramente antidemocratico. … Ogni regime democratico … ri- fugge dall’attuare violentemente riforme, che giovano soltanto ad alcuni, e danneggiamento seriamente altri. Esso, per sua natura ammette, richiede, anzi, che tutte le parti espongano al pubblico, e nelle apposite sedi legislative, le loro opinioni, illustrino i loro speciali interessi, facendo rilevare le ripercussioni, favorevoli o contrarie, che vi esercita ogni riforma, ogni legge, ogni istituto sociale. Per questo fatto le democrazie non consumano colpi di mano, non praticano azioni extralegali, non vagheggiano regimi dittatoriali, siano esercitati dal basso o dall’alto, ma lavorano a far sì che ogni spostamento di rapporti sociali avvenga con la minor violenza di scosse, con la minore quantità di danni possibile, con tutta la lentez- za che il suo processo richiede, affinché possa perdere per via le punte più irritanti e più dolorose. Da tali precauzioni appunto deriva il carattere, scrupolosamente legale, che ogni rivolgimento deve avere in democrazia. Or bene la pratica dello sciopero agisce in senso perfettamente contrario. Movendo dalla grossolana constatazione dei bisogni di una parte, anche se infinitesima, della società, essa non esita a strappare con violenza la trama deli- catissima dei rapporti sociali, a infliggere agli altri, o a tutti, danni in certi casi irreparabili, purché i bisogni di alcuni siano soddisfatti. Scioperare è, quindi, un atto di violenza, è la insurrezione, è la rivolta cieca ed armata, anche se in apparenza pacifica; non può essere, perciò, istituto proprio della democrazia, nonostante che le costituzioni democratiche, in momenti climaterici, per opportunità o per imprevidenza, ne abbiano formulato il diritto in qualcuno dei loro articoli». Si trattava di un monito non solo per i comunisti o filocomunisti
Barbagallo sosteneva l’antidemocraticità dello sciopero, perché esso dan- neggia tutti, e soprattutto -affermava- «quelli che noi diciamo popolo», pro- prio per questo sarebbe stato antidemocratico. Riteneva lo «studioso di cep- po socialista»14 che il diritto di sciopero non sarebbe stato proprio né delle
democrazie progressive né di quelle popolari, ma piuttosto della democrazia senza aggettivi, della democrazia borghese. Affermava ancora che i regimi democratici non attuano violentemente riforme che possono avvantaggiare di poco alcuni e danneggiare molto altri, ma piuttosto fanno in modo che cia- scuna parte esponga al pubblico e nelle sedi legislative, le proprie opinioni e i propri interessi.
Giuseppe Grosso rispondeva prontamente a queste affermazioni, dando vita a quella che Grosso stesso definì una «polemica giornalistica»15. Il gior-
no successivo, infatti, il 7 gennaio 1950, usciva sul n. 6 del quotidiano Il
popolo nuovo un articolo di Grosso intitolato Diritto di sciopero. In questo
articolo egli utilizzava, anticipando in parte il contenuto del saggio Il diritto
di sciopero e l’intercessio dei tribuni della plebe, il parallelo con il tribunato
della plebe e con l’intercessio per mostrare come l’organizzazione sindacale e lo sciopero non fossero in contraddizione, né in una posizione di assoluta incompatibilità con un ordine democratico.
Le obiezioni di Giuseppe Grosso erano puntuali e precise. Egli osservava che i sindacati, gli scioperi sono «realtà dei rapporti sociali del mondo in cui viviamo»16, che «la forza di un ordine, e la democrazia è l’ordine per
eccellenza, sta nel comprendere, non nel negare, le forze reali che attraverso il contrasto e la lotta promuovono lo sviluppo della vita»17. Conflittualità che
promuove lo sviluppo, punto importante sul quale mi soffermerò a breve. E riportava immediatamente il parallelismo con il tribunato della plebe e l’in-
tercessio tribunizia. Il tribunato della plebe era -osservava Grosso- una ma-
gistratura rivoluzionaria costituzionalizzata con il suo carattere rivoluziona- rio, che le avrebbe potuto permettere di paralizzare la vita della res publica18.
ma anche per i liberali e i democratici.
14 Così lo indica g. grosso, Il diritto cit., 268.
15 g. grosso, Il diritto cit., 268.
16 g. grosso, Diritto di sciopero, in Il popolo nuovo, n. 6 del 7 gennaio 1950, 1.
17 g. grosso, Diritto cit., 1.
18 g. grosso, Diritto cit., 1, precisamente osservava: «Roma ha mantenuto per secoli, nel-
la sua stessa costituzione, una magistratura rivoluzionaria, costituzionalizzata nel suo stesso carattere rivoluzionario, che le permetteva addirittura di arrestare la vita dello stato, il tribu- nato della plebe; quando la repubblica è entrata in una vasta crisi, la ragione di questa crisi non stava certo nell’esistenza del tribunato (e chi, come Silla, ha cercato di limitarlo ha fatto un buco nell’acqua), ma in tutto un complesso di fattori che hanno travolto e sommerso».
In modo simile al tribunato, l’organizzazione sindacale sarebbe la «forza poderosa» compresa nella Costituzione, espressione della lotta di classe e, in modo simile all’intercessio, lo sciopero sarebbe «l’arma formidabile che questa [l’organizzazione sindacale] ha nelle mani». La costituzionalizzazio- ne di questo strumento di lotta, osservava Grosso, in polemico contrasto con Barbagallo, è «la forza e la vitalità» dell’ordine democratico19. La cura per
l’uso insano che talvolta viene fatto di questo strumento non è per Grosso la sua abolizione20, ma, come ha precisato Andrea Trisciuoglio21, la definizione
di limiti.
L’intercessio tribunizia, evidenziava Grosso, aveva una «diretta funzio- ne paralizzatrice», ma questa funzione non aveva impedito lo sviluppo di Roma, perché come egli stesso precisava «fu proprio attraverso questa lotta che si raggiunse l’assetto interno di una società in piena espansione».
Il tribunato, infatti, caratterizzantesi essenzialmente come un potere ne- gativo, ha portato al raggiungimento di difficili obiettivi; si pensi al pareg- giamento tra patrizi e plebei. Lo scontro con l’imperium (e con lo ius) avreb- be potuto essere sterile e paralizzante, invece condusse spesso -sebbene in alcuni casi con lentezza- verso importanti risultati.
Ci potremmo chiedere, a partire dall’affermazione di Grosso, per quale motivo, in che modo, il tribunato non abbia frenato lo sviluppo di Roma, ma piuttosto abbia contribuito a darle «l’assetto interno di una società in piena espansione».
Per cercare di rispondere è utile richiamare brevemente il tribunato della plebe e i suoi caratteri.
Per g. grosso, Lezioni di storia del diritto romano5, Torino 1965, 86 ss., la legalizzazione
all’interno della civitas della organizzazione rivoluzionaria plebea era avvenuta con un foe-
dus «sia pure con una certa elasticità, così che i tribuni venivano accolti, nella loro posizio-
ne singolare di difensori della plebe, colla qualifica di sacrosancti, cioè dell’inviolabilità» (p. 87).
19 g. grosso, Diritto cit., 1, più precisamente scriveva: «La società moderna, retta in for-
me costituzionali, comprende dentro di sé una forza poderosa, che è soprattutto espressione di lotta delle classi che si affermano, l’organizzazione sindacale; lo sciopero è l’arma for- midabile che questa ha nelle mani. Legalizzarla nell’ordine democratico significa esprimere la forza e la vitalità di questo; è almeno per esso condizione di vita. E ciò del resto è chiaro nei paesi a salda tradizione democratica».
20 g. grosso, Diritto cit., 1, paragonava i rischi dell’abolizione del diritto di sciopero
all’amputazione di un organo vitale: «Se una gamba minaccia la cancrena la si può ampu- tare, ma non si può ad un organismo amputare un organo vitale. Abolite il diritto sciopero, paralizzate la libertà sindacale, e l’ordine democratico sarà inesorabilmente leso, perché sarà colpita una realtà che esso non può negare, ma deve comprendere».
I caratteri fondamentali del tribunato -che ne hanno determinato la forza e quindi l’efficacia- sono da individuare oltre che nell’elezione da parte dei
concilia tributa plebis, nel potere dei tribuni e nel modo in cui questa magi-
stratura si relazionava, interagiva, con l’imperium.
I tribuni della plebe, che dovevano essere plebei22, erano eletti dai conci-
lia tributa plebis. In realtà, molti sono i dubbi e le ipotesi avanzate dalla sto-
riografia sulle modalità di elezione dei tribuni, almeno fino al 471 a.C., anno in cui il tribuno Publilio Volerone propose un plebiscito per regolamentarne l’elezione23. Il plebiscito Volerone prevedeva che l’elezione dei tribuni della
plebe avvenisse nelle assemblee plebee ordinate per tribù, i concilia tributa
plebis24.
I singoli poteri dei tribuni sono espressione della sacrosancta potestas25
22 F. sTella maranca, Il tribunato della plebe dalla ‘lex Hortensia’ alla ‘lex Cornelia’,
Lanciano 1901, rist. Napoli 1982, 92; g. lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano
1982, 137.
23 Su ciò, si veda e. cocchia, Il tribunato della plebe e la sua autorità giudiziaria studiata
in rapporto colla procedura civile. Contributo illustrativo alle legis actiones e alle origini storiche dell’editto pretorio, Napoli 1917, ed. anast. Roma 1971, 30 ss.; g. niccolini, Il
tribunato della plebe, Milano 1932, 26 ss., 33 ss.; g. grosso, Lezioni cit., 89, anche nt. 1;
F. de marTino, Storia della Costituzione romana2, vol. I, Napoli 1972, 342 ss., secondo il
quale, prima del plebiscito Publilio, probabilmente la plebe si sarebbe radunata in proprie assemblee, senza ordinamento stabile, forse fuori della città. È possibile -egli ritiene- che a queste assemblee partecipassero clienti e sottoposti dei patrizi per cercare di concentrare i loro voti su candidati più accomodanti (pp. 348-349); j.c. richard, Les origines de la
plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, Rome 1978, 552 ss.;
s. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, vol. I, Milano 1981, 175 ss.
24 L’importanza di questa innovazione proposta da Volerone era stata ben sottolineata da Liv. II,56,3: Haud parva res sub titulo prima specie minime atroci ferebatur, sed quae
patriciis omnem potestatem per clientium suffragia creandi quos vellent tribunos auferret.
Su questa iniziativa, si veda anche e. Von herzog, Geschichte und System der römischen
Staatsverfassung, vol. I.1, rist. dell’ed. Leipzig 1884, Aalen 1965, 159, il quale manifesta
la difficoltà a controllare l’esattezza o meno di questa motivazione; e. cocchia, Il tribuna-
to cit., 30 ss.; g. niccolini, Il tribunato cit., 37, sottolinea che l’intervento del plebiscito
Volerone «limitava il diritto di voto a coloro che stavano alla dipendenza dei patrizi e assi- curava la prevalenza ai plebei rurali, conferiva alla plebe una maggiore potenza e dignità». F. de marTino, Storia cit., vol. I, 349, «Il plebiscito di Publilius Volero sottrasse l’elezione
dei tribuni alla plebe non possidente, riservandola solo ai tribules, cioè a coloro che erano iscritti nelle tribù e vi avevano la sede e il fondo».
25 g. lobrano, Il potere cit., 123 ss., contrappone la sacrosanctitas «fondamento e com-
petenza del potere dei plebei magistratus» agli auspicia «fondamento e competenza del potere dei patricii magistratus» (p. 124); P. caTalano – g. lobrano, Promemoria storico
e sono finalizzati a difendere i plebei contro l’arbitrio dei magistrati patrizi (auxilii latio adversus consules); in modo più specifico essi si concretizzano nell’intercessio, nella coercitio e nello ius agendi cum plebe.
Il tribuno era sacrosanctus26. Infatti, chiunque lo avesse offeso sarebbe
incorso nella sacertas. L’inviolabilità trova il proprio fondamento, dappri- ma, nel giuramento (iusiurandum) collettivo della plebe, avvenuto nel 494 a.C. sul Monte Sacro27, e nel successivo giuramento, prestato da patrizi e
plebei insieme, durante le caerimoniae sacrificali28; in seguito, all’inviolabi-
plebe al Monte Sacro, § I.4, secondo i quali «La sacrosancta potestas dei tribuni plebis è
garante della libertà dei singoli cives dinnanzi al potere di governo dei magistrati patrizi e, al contempo e indissolubilmente, è garante della obbedienza dei magistrati patrizi alla volontà del popolo (leges publicae)».
26 Th. mommsen, Römisches Staatsrecht, vol. II.1, rist. anast. della terza ed. (1887), Graz
1952, 301 ss.; c. gioFFredi, Il fondamento della “tribunicia potestas” e i procedimenti
normativi dell’ordine plebeo, in SDHI 11, 1945, 63 ss.; F. de marTino, Storia cit., vol. I,
358-359; F. serrao, Legge (Diritto romano), in Enc. Dir., vol. XXIII, Milano 1973, 803 ss.
(= [da cui si cita in seguito] in Classi partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974, 27 ss.); g. lobrano, Il potere cit., 121 ss. Si è soliti ritenere che solo con la lex Valeria Horatia
del 449 a.C. vi sarebbe stato il riconoscimento da parte della res publica delle prerogative plebee. Tuttavia Lobrano, anche sulla base di Liv. III,55,6 ss., osserva: «Semplicemente, pure con l’intervento della lex publica post-decemvirale, è la sacrosanctitas fondata sul
vetus ius iurandum plebis (si noti plebis) del 494 a.C. che assegna al tribunato la propria
collocazione istituzionale nel sistema religioso-giuridico repubblicano romano secondo gli
iuris interpretes. I quali, evidentemente, non erano sensibili a quella esigenza di logica
giuridica che imponeva invece al Mommsen di limitare la sua trattazione della magistratura tribunizia esclusivamente ai diritti concessi alla plebs “von der Gemeinde”. Il valore della
sacrosanctitas sarebbe, quindi, probabilmente meglio colto anche dai moderni se il ‘pregiu-
dizio statualista’ non facesse velo. … Da una parte si ha la sacrosanctitas, fondamento e competenza del potere dei plebei magistratus che erano i tribuni della plebe e, dall’altra, gli
auspicia, fondamento e competenza del potere dei patricii magistratus. E se i tribuni plebis
mai auspicato creantur, mai i patricii magistratus sono ritenuti sacrosancti. … Piuttosto, si tratta di una contrapposizione tra ‘specializzazioni’ di un medesimo (del populus Romanus) patrimonio religioso-giuridico: il sacer-sanctus e l’augurium-auspicium». Su ciò, cfr. anche r. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa,
Napoli 1996, 297 ss.; l. garoFalo, Sulla condizione di homo sacer in età arcaica, in SDHI
56, 1990, 237 ss. (= in Studi sulla sacertà, Padova 2005, 28 ss.); id. Biopolitica e diritto,
Napoli 2009, 49 ss.; e. Tassi scandone, Leges Valeriae de provocatione. Repressione cri-
minale e garanzie costituzionali, Napoli 2008, 267 ss.
27 Liv. II,33,3: Sunt qui duos tantum in Sacro monte creatos tribunos esse dicant, ibique