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Costrutti culturali nel linguaggio: ancora una disuguaglianza di genere

CAPITOLO 2. La riflessione di genere sul linguaggio

3. Linguaggio e genere: un nodo da sciogliere

3.1 Costrutti culturali nel linguaggio: ancora una disuguaglianza di genere

La prima questione che emerge quando si voglia studiare il linguaggio secondo una prospetti- va di genere riguarda la misura in cui la disuguaglianza sociale fra il maschile e il femminile si riflette nel linguaggio ma anche il fenomenale potere del linguaggio di perpetuarla o, even- tualmente, correggerla.

Il fenomeno più vistoso di asimmetria di genere che si concretizza nella lingua italiana è il cosiddetto maschile inclusivo, ovvero l’uso di un maschile universale che include dentro di sé il femminile: “l’utente” per riferirsi indifferentemente a un utente o a un’utente, “lo studente” che indica tanto lo studente quanto la studentessa, pronomi e aggettivi che, in mancanza di esplicite informazioni, si declinano al maschile… E, ancora, “l’uomo” per intendere l’essere

umano, o l’umanità in generale. Si nota poi l’uso di espressioni che indicano la persona di sesso femminile facendo riferimento ad attributi fisici (“una bionda”, “una stangona”), a le- gami con altre persone (“la moglie di…”) oppure che si riferiscono allo stato civile (“signora” e “signorina”: termini che, a differenza di “signore”, sottolineano nel modo in cui vengono usati la maggiore importanza che la società conferisce allo stato civile femminile rispetto a quello maschile). Come ben sintetizza Alma Sabatini:

La lingua italiana, come molte altre, è basata su un principio androcentrico: l’uomo è il parame- tro, intorno a cui ruota e si organizza l'universo linguistico. Esempio paradigmatico: la stessa parola “uomo” ha una doppia valenza, perché può riferirsi sia al “maschio della specie” sia alla “specie stessa”, mentre la parola “donna” si riferisce soltanto alla “femmina della specie”. Non si può non sentire il peso dell’ambiguità di massime come “l’uomo è la misura di tutte le cose” in una società patriarcale che ha sempre considerato la donna come “altro”, come “diverso” (Saba- tini 1987, p. 20).

L’insieme di queste abitudini ormai radicate ha la conseguenza di far sparire le donne dal 56 discorso, di renderle invisibili, tanto che Alma Sabatini dichiara che «il maschile neutro occul- ta la presenza delle donne così come ne occulta l’assenza» (Sabatini 1987, p. 22).

Poiché le parole presentano connotazioni più o meno positive o negative a seconda del contesto in cui si inseriscono, l’esclusione del femminile attraverso il maschile inclusivo, così come la sola declinazione al maschile dei ruoli professionali di prestigio, risultano particolar- mente discriminanti. Puntualizza Cecilia Robustelli:

Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli isti- tuzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche. […] Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effetti- va presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e par- tecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per at- tuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale

Ricorda Francesco Sabatini: «Nella lingua non sono depositati intrinseci principî di verità ma semplice

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mente le nostre “opinioni”: […] fondamentalmente quelle sedimentate attraverso i secoli nella comunità alla quale apparteniamo» (Sabatini 1987, p. 10).

a valorizzare la soggettività femminile? (http://www.accademiadellacrusca.it/it/tema-del-mese/ infermiera-s-ingegnera).

A questo riguardo, è stato recentemente osservato che l’ingresso delle donne in aree di 57 prestigio, storico appannaggio maschile, le ha spesso indotte ad adottare un linguaggio rical- cato su quello mascolino, utilizzato come strumento di legittimazione della nuova posizione sociale acquisita. Questo viene letto come un tentativo femminile di esibire capacità di adat- tamento al nuovo ruolo, nonché di saper “parlare la stessa lingua” e di possedere le competen- ze per partecipare alla logica dominante che le aveva escluse. Ma una simile metamorfosi si rivela, in verità, un mezzo inconsistente che garantisce un’inclusione solo apparente, in cui la prospettiva di genere è annichilita, messa a tacere da parte delle stesse donne che tenderebbe- ro a preferire definizioni al maschile piuttosto che le declinazioni al femminile: a “ministra”, “avvocata” o “ingegnera” vengono preferiti “ministro”, “avvocato” e “ingegnere”. L’utilizzo del termine professionale al femminile è percepito come diminutivo del livello di importanza:

Le parole che indicano categorie sociali svantaggiate [sono] soggette ad una “china peggiorativa” che parte da una connotazione a volte addirittura positiva, passa ad una connotazione neutra che poi si trasforma in connotazione negativa, prima di essere abbandonate per un altro termine che ha molte probabilità di sottostare allo stesso tipo di cambiamento semantico. Vedremo che questo accade in tutte le lingue del mondo e che l’italiano presenta casi di questo tipo anche in riferi- mento a persone di genere femminile (Giusti 2009, p. 4).

Queste riflessioni hanno condotto la filosofa Adriana Cavarero, nel suo saggio Per una teo- ria della differenza sessuale (1987), alla conclusione che il linguaggio – in particolare quello della filosofia e della scienza – è falsamente neutro e universale, in realtà esprime la prospet- tiva di «un soggetto di sesso maschile che assume se stesso ad universale» (Cavarero 1987, p. 44) e quindi la donna non è in condizione di rappresentarsi in prima persona ma deve parlare di sé attraverso il punto di vista dell’uomo. Prova ne è che certi termini inerenti questioni che non prendono corpo se non attraverso l’esperienza femminile, come “genere” e “sessismo”, o anche “molestie sessuali”, erano addirittura assenti dal linguaggio prima dell’affermarsi del movimento femminista.

Cfr. anche Orletti 2009.

Il carattere “sessuato” maschile del linguaggio induce Cavarero a riflettere che la lingua materna, per essere più precisi, dovrebbe essere, quindi, definita “lingua paterna” proprio per sottolineare le sue origini e la sua distanza rispetto alle donne:

La donna non ha un linguaggio suo, ma piuttosto utilizza il linguaggio dell’altro. Essa non si autorappresenta nel linguaggio, ma accoglie con questo le rappresentazioni di lei prodotte dal- l’uomo. Così la donna parla e pensa, si parla e si pensa, ma non a partire da sé.

La lingua materna nella quale abbiamo imparato a parlare e a pensare è in effetti la lingua del padre. Non c’è una lingua materna poiché non c’è una lingua della donna (Cavarero 1987, p. 52).

È così dunque che il linguaggio tradizionale si caratterizza come uno dei luoghi principali dell’oppressione maschile sulla donna, e benché sia inimmaginabile sostituirlo con un lin- guaggio “delle donne” – in quanto le esperienze femminili sono in realtà estremamente varie- gate in relazione a cultura, etnia, orientamento sessuale, classe socioeconomica – un interven- to correttivo è senz’altro debito. Le alternative possono non essere immediatamente soddisfa- centi, o prive di tratti contraddittori: per esempio l’utilizzo di termini come “avvocata”, “mini- stra”, “assessora” eccetera, a soppiantare il maschile neutro, benché riesca senza dubbio nello scopo di assegnare visibilità alle donne nel linguaggio, rimanda implicitamente al presupposto di una norma enunciata al maschile. Il cammino verso una parità è dunque difficoltoso; le ri- flessioni femministe e le proposte di riforma sono state talvolta ignorate, o ridicolizzate, o ad- dirittura additate come censorie; la maggior parte delle persone è conservatrice e diffidente nei confronti dei cambiamenti linguistici: «Toccare la lingua è come toccare la persona stes- sa» (Sabatini 1987, p. 97). E tuttavia, è doveroso non smettere di impegnarsi per diffondere la consapevolezza di queste tematiche: «Oggi […] la parità di diritti passa per il riconoscimento – anche attraverso l’uso della lingua! – della differenza di genere» (Robustelli 2014, p. 23-24).

Non possiamo infine non ricordare l’osservazione di Pierre Bourdieu, autore del saggio La domination masculine (1988), secondo cui il linguaggio è il campo nel quale la dominazione si esercita nella maniera più tipica e visibile: un tipo di dominazione stabilita non già attraver- so un’imposizione esplicita ma per mezzo di una violenza subdola – che il sociologo francese chiama violence symbolique – che giunge a manipolare in maniera sotterranea le categorie mentali e risulta per questo motivo estremamente difficile da eradicare. Di fatto, Bourdieu ag-

giunge, in tutte le società le donne occupano una posizione di sottomissione e proprio la do- minazione che esse subiscono illustra in maniera esemplare il concetto di violenza simbolica.