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CAPITOLO 2. La riflessione di genere sul linguaggio

1. Il sessismo nella lingua italiana e francese

Il linguaggio – talvolta a torto considerato come strumento neutro di etichettatura della realtà – influenza al contrario significativamente i contesti culturali dei parlanti e ne è a sua volta influenzato, in un reciproco condizionamento che contribuisce a determinare le rappresenta- zioni culturali e gli stessi comportamenti sociali. Se da un lato esso – come si suol dire – “ri-

flette la società”, gli stereotipi, i valori, le credenze, manifestandone i contenuti, dall’altro concorre alla formazione e perpetuazione di modelli culturali che orientano la rappresentazio- ne della realtà trasmessa quotidianamente. Si tratta della teoria della relatività linguistica , di 46 cui il linguista Giulio Lepschy dà una suggestiva formulazione: «La lingua non solo manife- sta, ma anche condiziona il nostro modo di pensare: essa incorpora una visione del mondo e ce la impone. Siamo noi ad essere parlati dalla nostra lingua, anziché essere noi a parlarla». E prosegue: «Il condizionamento di genere si intreccia con quello di classe ma di fatto è più pro- fondo di quello di qualsiasi altra categoria sociale. La discriminazione sessista e gli stereotipi di genere pervadono la lingua nella sua interezza e sono rinforzati da essa» (Lepschy 1989, pp. 61-62).

Il linguaggio è forse il più potente mezzo di creazione di ruoli a disposizione della specie umana ha a sua disposizione e dunque da sempre il movimento femminista ha dedicato 47 grande attenzione al legame fra linguaggio e identità di genere e ai rapporti di potere fra i ses- si. Fra gli anni Sessanta e Settanta, nell’ambito degli studi sulla manifestazione della differen- za sessuale nel linguaggio, emerge la profonda discriminazione nel modo di rappresentare e riferirsi alla donna rispetto all’uomo. Negli Stati Uniti viene elaborata la nozione di sessismo linguistico (linguistic sexism), si radica la convinzione che il cambiamento di atteggiamento nei confronti delle donne debba necessariamente passare attraverso scelte linguistiche coeren- ti, portando alla luce – per abolirlo definitivamente – l’androcentrismo della lingua.

La pubblicazione della rivoluzionaria monografia Language and women’s place (1975) di Robin Tolmach Lakoff, dedicata al cosiddetto registro linguistico femminile, rappresenta il punto di partenza di quella branca dei gender studies più esplicitamente rivolta alla linguistica e allo stesso tempo ne disvela i profondi legami con altre discipline, dall’antropologia alla psicologia, dagli studi sulla comunicazione alla pedagogia e alla sociologia. L’indagine di La- koff inaugura e indirizza le corpose ricerche successive sui legami fra linguaggio e genere e sul “linguaggio delle donne”, tanto dal punto di vista del linguaggio usato dalle donne quanto nel senso di linguaggio usato per parlare delle donne: in entrambe le accezioni, a essere ri-

Nota anche come “ipotesi di Sapir-Whorf”, dai nomi del linguista Edward Sapir e dello studioso Benjamin

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Lee Whorf i quali, dopo aver confrontato le lingue amerindiane con l’europeo standard, giunsero alla conclusio- ne che la struttura grammaticale di una lingua condiziona il sistema cognitivo dei parlanti e quindi a lingue di- verse corrispondono differenti concezioni del mondo.

Cfr. Giusti 2009, p. 3.

flesso è il loro status subordinato. Tale condizione di debolezza si rivela nella componente emotiva che affiora dal registro linguistico attraverso tratti lessicali (le forme di deferenza, gli aggettivi affettivi, l’assenza di parole volgari…), fonologici (l’uso di accenti percepiti come esotici e affascinanti…) e sintattico-pragmatici (le domande-coda come “vero?”, l’intonazione interrogativa anche per le affermazioni, l’uso di interiezioni che nulla aggiungono al significa- to…) che, nel loro complesso, trasmettono insicurezza, titubanza, esitazione e necessità di ri- cevere conferme dall’esterno. Il lavoro di Lakoff rappresenta il primo tentativo di stampo femminista di rendere conto, entro un quadro teorico, delle differenze con cui uomini e donne adoperano il linguaggio , e torneremo su questo nel Paragrafo 4. 48

In Italia, negli anni Settanta il riconoscimento dell’ingresso femminile in territori lavorati- vi, politici e sociali un tempo esclusivamente riservati agli uomini è oscurato, dal punto di vi- sta linguistico, dalla modalità conservatrice dell’«omologazione della donna al paradigma ma- schile» (Robustelli 2012, p. 115) attraverso l’estensione generalizzata del genere maschile a soggetti di sesso femminile. Osserva Cecilia Robustelli che

I media hanno giocato sulla “resistenza” all’uso del femminile nel linguaggio offrendo esempi grotteschi che finivano per confortare l’opinione pubblica sulla “stranezza” insita non soltanto nell’uso delle nuove forme femminili coniate per le nuove professioni e ruoli ma anche nel fatto che essi fossero ricoperti da donne (p. 116)

Forse per questo, è solo nel 1987 che esce, per impulso della Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna, il volumetto Il sessismo nella lingua italiana, a cura di Alma Sabatini, che contiene un capitolo di Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana – su cui ci soffermeremo maggiormente nel Paragrafo 5 – alle quali si continua tuttora a fare riferimento. Con questa pubblicazione, che apre anche nel nostro Paese il dibattito sulla non neutralità della lingua, si intende contribuire al raggiungimento della pa-

Non che il tema, in astratto, non fosse mai stato affrontato in precedenza: ricordiamo fra tutti il linguista 48

danese Otto Jespersen, il quale aveva dedicato un’intera sezione del suo Language. Its nature, development and origin (1922) proprio alla comunicazione femminile. Dalla sua ricerca, peraltro non suffragata da indagini empi- riche bensì originata da speculazioni e congetture che trovano sostegno nella cultura e nella tradizione popolare, traspare il riferimento a una donna cui sono richieste educazione, pacatezza, riservatezza e ordine, che utilizza un linguaggio non diretto, più forbito e controllato di quello maschile, ma anche più superficiale, più banale e più incoerente. Jespersen spiega queste differenze, in ultima analisi, con il determinismo biologico. La caratterizza- zione di Lakoff di un linguaggio femminile in qualche modo “deficitario” rispetto a quello maschile sembra rial- lacciarsi alla descrizione di Jespersen; tuttavia, contrariamente a questi, la linguista statunitense nega che tale condizione di debolezza sia in alcun modo connaturata o essenziale alla donna, bensì la annovera fra le conse- guenze delle ineguaglianze sociali fra i sessi: «Si insegna alle donne ad essere deferenti, non assertive, cortesi e questi comportamenti si riflettono in scelte linguistiche “powerless”» (Orletti 2009, p. 8).

rità fra i sessi portando alla luce il riflesso delle differenze di genere nel linguaggio. Si consta- ta infine che la recente elezione di alcune donne alla guida del Consiglio comunale di impor- tanti città italiane ha contributo in maniera decisiva alla definitiva diffusione – nel linguaggio dei mass media e, di riflesso, in quello quotidiano – delle espressioni “sindaca” e, con essa, “ministra”, “avvocata”, “magistrata” e così via. Si tratta ovviamente dell’applicazione di rego- le niente affatto nuove, le stesse che hanno in passato condotto alle forme femminili “mae- stra”, “infermiera”, “operaia” (tanto per citarne solo alcune) ma che finalmente sembrano es- sere state applicate, per la prima volta senza essere messe in discussione, a nuove professioni e a nuove cariche politiche.