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La “pragmatica” come strumento della riflessione femminista sul linguaggio

CAPITOLO 2. La riflessione di genere sul linguaggio

2. La “pragmatica” come strumento della riflessione femminista sul linguaggio

Non stupisce che il femminismo abbia sempre mostrato un atteggiamento piuttosto critico nei confronti di una certa filosofia del linguaggio che sembra «fare astrazione di ogni specificità culturale, culturale o di genere dei parlanti», poiché negli studi femministi «il linguaggio è sempre visto in quanto usato in situazioni comunicative definite, da soggetti concreti dotati di un genere – o costantemente nell’atto di costruirlo e modificarlo» (Bianchi 2009, p. 96). Una riflessione femminista sul linguaggio dovrà necessariamente attribuire particolare rilevanza al contesto entro il quale hanno luogo gli scambi linguistici, ovvero «la situazione particolare in cui le frasi vengono usate, costituita dal resto della conversazione, dall’ambiente fisico in cui essa avviene, dall’identità degli interlocutori, ma anche dalla complessa rete di scopi, inten- zioni, credenze, desideri, timori, pregiudizi e conoscenze che essi condividono» (Bianchi 2003, p. 10). È l’ambito della pragmatica . 49

Può essere utile a questo punto tracciare un breve excursus delle origini filosofiche di que- sta disciplina, che si colloca per sua natura «al crocevia di diverse aree di ricerca» (Bianchi

Può essere utile ricordare i tre livelli nei quali, tradizionalmente, si struttura l’analisi del linguaggio: la 49

sintassi, la semantica e la pragmatica. La sintassi considera il modo in cui i segni possono essere accostati fra loro (l’apparato combinatorio), senza prenderne in considerazione il significato; la semantica prende in esame il significato delle espressioni linguistiche (l’apparato interpretativo), a prescindere dalla situazione concreta in cui vengono utilizzate; la pragmatica, infine, analizza l’uso che si fa delle espressioni linguistiche in un determinato contesto, ovvero il modo in cui i parlanti si servono dei due apparati sopra menzionati in una certa situazione comunicativa. In altre parole, la sintassi studia le relazioni tra i segni come tali, la semantica le relazioni fra i segni e gli oggetti denotati e la sintassi le relazioni fra i segni e chi li usa: è la nota tripartizione della semiotica proposta da Charles Morris nel suo Foundations of the theory of signs (1938).

2003, p. 12). È spesso affermato che semantica e pragmatica rappresentano due approcci complementari alla filosofia del linguaggio, l’una occupandosi del significato convenzionale delle espressioni linguistiche, l’altra degli usi di queste ultime nei contesti comunicativi con- creti. Tuttavia, tale superficiale complementarietà rivela a un’analisi più approfondita un vero e proprio contrasto teorico fra i sostenitori della possibilità di attribuire un senso alle frasi in- dipendentemente dalle occasioni in cui vengono pronunciate e coloro che, al contrario, riten- gono che il significato convenzionale degli enunciati non basti per determinarne univocamen- te o esattamente il senso ma occorra integrarlo con informazioni sulle particolari circostanze in cui questi vengono usati. Queste alternative richiamano la storica contrapposizione fra i due modi antitetici di concepire il linguaggio che si affermano a partire dagli anni Trenta del seco- lo scorso: quella fra i filosofi “del linguaggio ideale”, i quali aspiravano a creare un linguag- gio perfettamente privo di ambiguità, che costituisse uno strumento rigoroso per la riflessione scientifica e filosofica , e i filosofi “del linguaggio ordinario”, che invece assumono il lin50 - guaggio naturale come oggetto autonomo d’interesse . 51

Proprio a questi ultimi si deve, fra le due Guerre mondiali e nell’immediato Secondo do- poguerra, la rottura col paradigma semantico tradizionale, a favore di un atteggiamento non più critico ma descrittivo nei confronti del linguaggio naturale e di quelli che un tempo erano considerati difetti e adesso vengono valorizzati come segni della sua ricchezza espressiva: i fenomeni di deissi o indicalità, le omonimie, i casi di polisemia o l’uso di un linguaggio figu- rato… Laddove per i filosofi del linguaggio ordinario «una frase rappresenta uno stato di cose ed è vera o falsa a seconda che lo stato di cose rappresentato sia realizzato o meno nel mon- do», i filosofi del linguaggio ordinario operano una distinzione: «non è la frase, in quanto uni- tà grammaticale, che rappresenta uno stato di cose, ma il parlante che si serve della frase […] per produrre, con la frase, un enunciato che può essere vero o falso» (Bianchi 2003, p. 15).

Le frasi sono dunque strumenti utilizzati dai parlanti per fare affermazioni, ma non solo: i filosofi del linguaggio ordinario evidenziano l’estrema varietà degli usi discorsivi, le molte- plici funzioni che gli enunciati possono esercitare: affermazioni, sì, però anche ordini, do- mande, minacce eccetera. Per usare la celebre tesi enunciata da John L. Austin nel saggio

Ricordiamo i più noti: G. Frege, B. Russell, il L. Wittgenstein delle prime opere e A. Tarski, che si dedica

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rono alla definizione di linguaggi formali, e in seguito D. Davidson e R. Montague, che sfruttando i metodi ela- borati per i linguaggi formali definirono una semantica rigorosa anche per i linguaggi naturali.

In particolare, il secondo Wittgenstein, J. Austin, P. Grice, P. Strawson.

How to do things with words (1962): «To say something is to do something». Dalla constata- zione che gli enunciati hanno un senso pragmatico, oltre che un senso cognitivo, segue la cen- tralità del ruolo che la parola può ricoprire nel promuovere dei cambiamenti sociali, anche in riferimento alla condizione di disuguaglianza di genere.

Il fatto che la competenza semantica, considerata come la padronanza del significato delle espressioni e delle frasi di una lingua a prescindere dalle circostanze concrete in cui vengono profferite, non è sufficiente per una comunicazione efficiente ma debba essere integrata con conoscenze non più linguistiche bensì contestuali è un fenomeno di cui si ha chiara testimo- nianza nell’esperienza quotidiana. La teoria pragmatica si sviluppa dunque in due direzioni complementari: lo studio dell’influenza del contesto sulle parole e dell’influenza delle parole sul contesto . 52

Studiare l’influenza del contesto sulle parole significa dare ragione del modo in cui il con- testo ci consente di determinare in maniera (più) precisa il contenuto proposizionale di certi enunciati e di completare il significato di certe espressioni. È il caso delle espressioni ambi-

gue, del linguaggio figurato e, soprattutto, della deissi, che rappresenta forse l’esempio più eclatante del contributo fornito dal contesto nell’individuazione del corretto riferimento di un’espressione linguistica. La deissi è espressione palese del fatto che i linguaggi naturali, di- versamente dai linguaggi formali o anche dai linguaggi tecnico-scientifici, siano precipua- mente ottimizzati per l’interazione faccia a faccia, e consiste nel ricorso a particolari elementi linguistici indispensabili per precisare chi siano il soggetto parlante e il suo interlocutore e per collocare l’enunciato nello spazio e nel tempo: i pronomi personali, gli aggettivi dimostrativi, gli avverbi di luogo e di tempo…

Al contrario, studiare l’influenza delle parole sul contesto significa comprendere come al- cuni enunciati possano modificare la realtà circostante, intesa come uno stato di cose ma an- che come ambiente cognitivo degli interlocutori. Come già accennato, infatti, quella descritti- va di uno stato di cose non è l’unica funzione del linguaggio, che anzi in moltissime circo- stanze è usato per compiere veri e propri atti. Pronunciando determinati enunciati – come “Mi scuso” dopo che abbiamo urtato qualcuno, oppure “Prendo te come mio sposo” durante la ce-

Entrano in gioco, per la precisione, due nozioni di contesto: quello semantico, che fissa l’identità del par

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lante, il tempo e il luogo in cui un’espressione viene pronunciata e poche altre variabili, e quello pragmatico, che invece riguarda il complesso delle credenze degli interlocutori e consente quindi di determinare le loro intenzioni comunicative.

lebrazione di un matrimonio, per citare solo gli esempi più comuni – non stiamo descrivendo il mondo circostante, né stiamo informando qualcuno di un fatto , bensì stiamo modificando 53 la realtà, secondo modalità codificate e regolamentate come per qualsiasi altra istituzione so- ciale . 54

In certe circostanze istituzionali – il matrimonio, il battesimo… – il valore illocutorio (quello pertinente all’azione di modifica della realtà, cfr. nota 9) è associato a un enunciato in modo convenzionale dalle regole del linguaggio, oppure è facilmente riconoscibile perché coincide con la forma grammaticale – come nel caso di forma dichiarativa/affermazione, o forma interrogativa/domanda… Tuttavia in generale la forza illocutoria di una frase non è de- terminabile a prescindere dal contesto. Addirittura, secondo H. Paul Grice (si vedano gli arti- coli Meaning, 1957, e Logic and conversation, 1975) una teoria del significato che voglia proporsi per rendere conto del funzionamento del linguaggio naturale deve incentrarsi sulla constatazione che la comunicazione riguarda non il significato convenzionale delle espressio- ni ma il significato del parlante ovvero quello che il parlante intende dire. Questo spiega per- ché il linguaggio comunica molto più di quanto letteralmente dice, attraverso dei meccanismi di presupposizione che regolano le interazioni comunicative e che Grice chiama “implicature conversazionali” . Esse sono proposizioni comunicate dal parlante e inferite dal destinatario, 55 ma che non fanno parte del significato letterale delle frasi pronunciate bensì, nella quasi totali- tà dei casi, vengono veicolate dal contesto in cui esse sono pronunciate.

Prova ne è il fatto che questo tipo di enunciati non hanno condizioni di verità, dal momento che è insensato

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chiedersi se sono veri o falsi.

Tracciare una distinzione netta fra enunciati constativi (quelli il cui scopo è descrivere uno stato di cose) e

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performativi (quelli che servono a fare cose) non è di fatto possibile: non esistono criteri grammaticali o lessicali in grado di farlo, né ciascun enunciato appartiene necessariamente sempre all’una o all’altra categoria. Pertanto, Austin propone piuttosto una teoria generale dei modi con cui si può usare il linguaggio, distinguendo tre atti che pertengono a ciascun enunciato: l’atto locutorio, che corrisponde all’azione comunicativa; l’atto illocutorio, che corrisponde all’azione effettivamente compiuta; l’atto persecutorio, che corrisponde agli effetti, intenzionali o meno, generati dall’atto illocutorio (fra cui quindi le reazioni emotive e psicologiche dell’eventuale interlocutore del parlante).

Affinché queste implicature reggano, e la comunicazione vada a buon fine, è necessario che siano condivi

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se e che in generale parlante e destinatario collaborino e si coordinino, per seguire una direzione comune definita all’inizio dello scambio o negoziata in corso d’opera. La comunicazione, cioè, è un’impresa razionale retta da un principio di collaborazione che, essenzialmente, chiede al parlante di soddisfare le aspettative comunicative che un interlocutore può ragionevolmente aspettarsi da lui, attraverso il rispetto di certe massime comunicative (che, in realtà, sono valide per ogni tipo di attività che richieda interazione). Il principio di collaborazione rappresenta in un certo senso il contraltare del principio di carità (cfr. Davidson 1984 e Quine 1960) che chiede al destinata- rio o all’interprete di attribuire al parlante un insieme di credenze razionali non dissimili dalle sue.

Nel contesto degli studi femministi, la teoria degli atti linguistici può essere ritenuta una delle principali ispirazioni teoriche per la riflessione di Judith Butler sulle identità di genere. Come meglio sarà spiegato nel paragrafo seguente, la filosofa femminista statunitense attri- buisce carattere di performatività al genere stesso, nella misura in cui esso è capace di costrui- re la propria identità, attraverso la ripetizione collettiva – non necessariamente ad opera di una volontà cosciente – di un determinato atto, sì che non esiste alcuna identità di genere al di fuo- ri dell’espressione del genere dal e nel linguaggio. Proprio per il ruolo rivestito dal linguag- gio, se ne evince che, addirittura, l’identità di genere non può precederlo: e se, da un lato, ciò rimanda a una dimensione “costrittiva” di quest’ultimo, dall’altro apre alla possibilità che esso si faccia portatore di un cambiamento sociale e politico.

L’approccio austiniano costituisce altresì lo sfondo dell’interpretazione di Jennifer Hornsby e Rae Langton della pornografia, che rappresenterebbe un dispositivo di riduzione al silenzio delle donne, non perché impedisca loro di compiere atti locutori bensì perché di fatto toglie forza illocutoria a certi loro enunciati e in particolare al rifiuto delle avances sessuali degli uomini. In questo senso, le vittime di violenza sono esempi di soggetti sacrificati a causa della loro deprivazione del proprio potenziale illocutorio.