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CAPITOLO 1. Il rapporto tra genere e scienza: la prospettiva storico-culturale

2. L’esclusione femminile come condizione sociale

4.1 Il problema epistemologico dell’oggettività

In questo paragrafo ripercorriamo brevemente il dibattito femminista intorno al concetto di oggettività scientifica, al cui interno sono germinate le riflessioni e le soluzioni più originali in merito alla condizione di disuguaglianza di genere nella scienza.

La scienza galileiana attua un profondo cambiamento nello studio della natura: libero dai vincoli della religione e purificato da concezioni animiste, a partire dal XVII secolo lo scien- ziato assume la matematica come strumento di indagine dell’universo. Con l’affermarsi di una visione meccanicistica della natura, il suo nesso con la sfera divina va sempre più estenuando- si, mentre l’interesse si volge all’individuazione delle leggi che ne regolano il funzionamento, inesorabile e preciso proprio come quello di una macchina. Controparte di questa visione del

mondo fisico (e in certi casi anche umano) è l’ideale di conoscenza che di esso ci si prefigge 32 di raggiungere: esatta, obiettiva, verificabile; in una parola oggettiva . 33

Questi versanti della nozione di oggettività, l’uno legato alla natura delle cose, l’altro lega- to alla procedura scientifica, intrecciano le loro sorti in maniera sempre più inestricabile, sal- dandosi attraverso concezioni filosofiche che tendono a tracciare un solco netto tra quanto pertiene all’ambito soggettivo e ciò che ricade in quello oggettivo. Già a partire dalla rifles- sione kantiana, ‘oggettivo’ indica quanto sta al di fuori del campo della soggettività, la ‘cosa in sé’ prima che venga filtrata dalle forme a priori del soggetto percipiente, lo spazio e il tem- po.

L’idea di un mondo posto di fronte all’uomo come un oggetto da decifrare con strumenti matematici, rispetto ai quali la soggettività è elemento perturbante, ha plasmato un modello di scienza ispirato ai principi della neutralità, dell’assenza di pregiudizi e dell’universalità dei concetti acquisiti. Questo paradigma, consacrato nel XIX secolo nella cultura positivista , ha 34 col tempo rivelato le sue carenze, emerse in tutta la loro evidenza nel XX secolo quando quel modello epistemologico – e filosofico – è entrato in crisi (per motivi che in questa sede non è possibile indagare), portando alla luce i limiti intrinseci e le modalità proprie della conoscenza umana.

Tra le molteplici correnti che hanno dato voce a questa istanza, il femminismo si segnala per aver istituito una relazione tra oggettività scientifica e carattere androcentrico della scien- za, sottolineando come il criterio che si dice neutrale sia invece espressione di un punto di vi- sta parziale, quello appunto maschile. Già a un primo sguardo, balza agli occhi come i canoni della scientificità siano storicamente contraddetti dalla stessa produzione scientifica, elaborata in netta prevalenza da uomini bianchi caucasici. Come scrive Liria Veronesi,

la pretesa di oggettività incontra notevoli inconsistenze rispetto alla neutralità di genere proprio per il fatto che ciò che viene inteso come oggettivo è in realtà espressione limitata e specifica di

Basti ricordare l’opera del medico e chirurgo francese Julien Offroy de La Mettrie, L’homme machine

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(1747), in cui all’uomo è negata l’anima e ogni sua attività è ricondotta alla struttura e al meccanismo del suo organismo.

Questa semplificazione non ha la pretesa di restituire il tema nella sua complessità. Il nesso tra le due no

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zioni di oggettività, come proprietà di cose e come virtù dello scienziato, è processo plurisecolare per il quale si rimanda a Daston, Galison 2007 e, per un resoconto più sintetico, a Tanesini 2009, pp. 104-107.

Cfr. Gillispie 1981.

individui maschi che la scienza ha cominciato a farla agli inizi dell’età moderna. Soggetti che, parlando a nome dell’umanità e attribuendosi il potere per diritto naturale, hanno nascosto la propria parzialità e specificità di e in quanto uomini rendendosi invisibili a se stessi (Veronesi 2013, p. 156).

La proposta femminista, attraverso soluzioni eterogenee, non si è limitata a indicare l’op- portunità di introdurre un punto di vista diverso, quello femminile, correttivo di quello ma- schile. Si è soprattutto concentrata sulla critica dell’oggettività tradizionalmente intesa quale regola dell’indagine scientifica. Da più parti è stato fatto osservare come l’oggettività assoluta sia una «chimera» (Tanesini 2009, p. 115), per il fatto che il soggetto conoscente è radicato in un determinato terreno culturale, sociale, sessuale e assiologico, che ne condiziona necessa- riamente lo sguardo. La convinzione di poter acquisire un sapere ultimo e definitivo reca anzi in sé l’illusione dell’infallibilità, con conseguenze insidiose. Ne discende che l’oggettività in- tesa come obiettiva, avalutativa ed esaustiva è impossibile, né appare legittimo assumerla come paradigma gnoseologico, posizione che implica l’inconsapevolezza dei pregiudizi che così rischiano di essere perpetrati (Tanesini 2009, p. 109). L’oggettività assoluta è inarrivabile quanto il possesso di una vista illimitata, è un miraggio, il God-trick di cui parla Haraway (1988, p. 582).

Esito di queste posizioni non può essere però la rinuncia a qualsiasi pretesa di oggettività, il che significherebbe di fatto scivolare nel relativismo (rischio, questo, rilevato da Harding nelle epistemologie post-moderniste). Piuttosto, la sfida teorica di una parte consistente della cultura femminista che si è misurata con questo tema è stata quella di formulare una «usable doctrine of objectivity» (p. 580) come base per una successor science (Harding 1986, p. 141), una scienza in grado di ricomporre il dissidio tra la necessità di incorporare il punto di vista femminile e quella di restituire una visione attendibile della realtà (cfr. De Propris 2013, p. 5; Haraway 1988, p. 580).

La filosofia femminista ha proposto varie riletture del concetto di oggettività, che non è possibile, né utile ai nostri scopi, passare analiticamente in rassegna. Ci concentreremo qui solo su alcune posizioni che fanno capo alla tripartizione delle epistemologie femministe arti- colata da Harding e richiamata nel paragrafo precedente.

Abbiamo già osservato che per Harding l’epistemologia empirista e quella dei punti di vi- sta «appear to assert that objectivity never has been and could not be increased by value-neu- trality» (Harding 1986, p. 27). L’oggettività, al contrario, secondo la studiosa, è incrementata

dai valori e dai progetti di emancipazione e partecipazione, antiautoritari e antielitari, elementi di rottura nei confronti dei pregiudizi di cui è colma la scienza. Essa, infatti, si è storicamente modellata su principi derivanti dalle coeve istituzioni economiche e politiche, finendo incon- sapevolmente con il convalidarle e legittimarle.

Secondo Harding, che così inserisce il tema in un orizzonte più vasto, purificare l’osserva- zione dalla soggettività significa al fondo privare la scienza della sua dimensione morale (Harding 1995, p. 341). I meccanismi del procedimento scientifico si sono sclerotizzati: la scienza ha perso il suo originario carattere rivoluzionario, per diventare espressione della co- munità scientifica, con i suoi pregiudizi e i suoi errori; sia perché orientata da gruppi di potere che impongono dal di fuori i propri pregiudizi o interessi alla ricerca; sia, più subdolamente, in quanto la comunità scientifica si esprime in modo autoritario e impone codici che suppone neutrali producendo risultati ‘distorti’. La neutralità così intesa avalla le pratiche attraverso le quali gruppi di potere antepongono le loro priorità (p. 343).

Il pregiudizio, ammonisce ancora Harding, agisce indisturbato perché si colloca a monte della ricerca: il tema del metodo scientifico entra in gioco quando la selezione del problema è già avvenuta, mentre invece dovrebbe estendersi alla sfera delle ipotesi, delle tempistiche, del- lo scambio di informazioni, a tutta una serie di aspetti in cui, non meno che nel campo della verifica, si annidano le distorsioni. In questa prospettiva, massimizzare l’oggettività (legittima pretesa del procedimento scientifico) non è lo stesso che massimizzare la neutralità (paradig- ma delle scienze tradizionali); anzi, spesso massimizzare la neutralità è di ostacolo alla mas- simizzazione dell’oggettività (p. 341).

Muovendo da queste premesse, la concezione di Harding intorno al tema dell’oggettività si compendia nella teoria della strong objectivity. Il principio dell’oggettività non deve decadere ma ‘sublimarsi’ in quello dell’‘oggettività forte’ – distinto dall’‘oggettività debole’, propria delle scienze tradizionali –, ossia nella ricerca di un punto di vista che dia le maggiori garan- zie di oggettività. Questo requisito è soddisfatto dalla prospettiva del gruppo non dominante – di solito escluso dall’elaborazione del sapere –, che deve essere incorporata affinché si possa guardare ai problemi sotto una luce inedita, fuori dagli schemi. I subjugated stanpoints danno infatti un contributo più efficace nella selezione e definizione dei problemi da trattare e si pongono perciò come punto di vista privilegiato e più affidabile.

È evidente come, nonostante la premessa, Harding sviluppi il proprio ragionamento sul ter- reno della cosiddetta standpoint epistemology che, sola, si propone di massimizzare l’oggetti- vità, mentre l’empirismo individua la soluzione del problema dell’oggettività nell’applicazio- ne più rigorosa di norme già esistenti. L’empirismo che la studiosa definisce ‘spontaneo’, an- cora impermeabile alle suggestioni della standpoint epistemology, le appare un movimento conservatore, che si rifiuta di riconoscere appieno i limiti delle concezioni dominanti riguardo al metodo (Harding 1993, p. 52).

La proposta di Harding di una strong objectivity non manca di suscitare alcune perplessità e ripensamenti. Haraway elabora un’altra teoria destinata ad avere una influenza decisiva sul tema che stiamo trattando, sempre all’interno della standpoint theory; si tratta del progetto delle situated knowledges, espressione coniata dalla studiosa per indicare la cifra ineliminabi- le e costitutiva della conoscenza, ossia la sua stretta dipendenza dal punto di vista del soggetto conoscente, dalla sua collocazione (sociale, culturale, sessuale) nel mondo, da quella che la studiosa definisce la sua ‘visione’: «Feminist objectivity means quite simply situated know- ledges» (Haraway 1988, p. 581). Haraway utilizza anche l’espressione embodied objectivity (ibid.) o embodied knowledges (p. 583), a significare proprio la natura ‘incarnata’ di questo modello epistemico, che si radica nel corpo. La ‘parzialità’ (intesa sia come sguardo parziale che come conoscenza incompleta, cfr. Tanesini 2009) insita nella prospettiva delle situated knowledges diventa la sola garanzia dell’oggettività, perché attesta la rinuncia a uno sguardo omnicomprensivo e ai pregiudizi che ad esso – come si è cercato di dimostrare – sono conna- turati.

Le due posizioni appena delineate, pur muovendo da una comune premessa, si strutturano in due modi dissimili: mentre per Harding il paradigma dell’oggettività si definisce in base al punto di vista adottato e per questa via si pone come antitetico alla neutralità (Harding 1985, p. 29), per Haraway l’aspetto centrale della questione non è tanto il punto di vista, quanto la necessità di riformulare il concetto di razionalità insieme a quello di oggettività. Rispetto a questa impostazione, l’elemento che suscita diffidenza in Haraway è l’idea, insita nella strong objectivity, di un’oggettività preferibile, romanticamente identificata con quella degli oppres- si, laddove, a parere della studiosa, il compito dello scienziato consiste nell’armonizzare più ‘conoscenze situate’ per delineare nuove proposte e suggerire nuove ipotesi di lavoro, tenendo

conto delle contestazioni, delle decostruzioni e ricostruzioni, delle connessioni che scaturi- scono dalla loro combinazione.

Haraway sottolinea con forza la diversità di questa sua posizione da quella relativista, che pure sorge dall’esasperazione di questa parcellizzazione delle conoscenze e dei punti di vista sfociando nel dissolvimento dell’oggettività e che viene elaborata dalle epistemologie post- moderniste. L’alternativa al relativismo, secondo Haraway, non è né uno sguardo omnisciente (l’illusione, il God-trick), né l’assunzione di un’unica prospettiva (come vorrebbe Harding):

The alternative to relativism is partial, locatable, critical knowledges sustaining the possibility of webs of connections called solidarity in politics and shared conversations in epistemology. Rela- tivism is a way of being nowhere while claiming to be everywhere equally. The ‘equality’ of po- sitioning is a denial of responsibility and critical inquiry. Relativism is the perfect mirror twin of totalization in the ideologies of objectivity; both deny the stakes in location, embodiment, and partial perspective; both make it impossible to see well. Relativism and totalization are both ‘god tricks’ promising vision from everywhere and nowhere equally and fully, common myths in rhe- torics surrounding Science (Haraway 1988, p. 584).

Un aspetto non secondario di queste critiche al concetto ‘tradizionale’ di oggettività è la concezione dell’oggetto che esso implica come qualcosa di inerte, scrutato dall’occhio della mente del ricercatore. Le posizioni femministe appena delineate, mentre pongono l’accento sul coinvolgimento del soggetto che, tutto intero, partecipa all’indagine, imprimendole un in- dirizzo e determinandone l’esito, sottolineano come questa attività non potrebbe darsi se la materia che ne costituisce l’oggetto fosse passiva. Il soggetto conoscente, per costruire il pro- prio sapere, deve in altre parole rapportarsi a una materia ‘viva’, che costituisca con lui un tutto organico.

Il tema dell’oggettività quale criterio scientifico è dunque strettamente legato a quello dell’«oggettificazione dell’oggetto di conoscenza» (Tanesini 2009, p. 110), che finisce per alimentare logiche di sopraffazione e sfruttamento. Le filosofie eco-femministe hanno profi- cuamente messo in relazione questo atteggiamento con la concezione meccanicista della natu- ra da cui abbiamo preso le mosse, che avrebbe prodotto una frattura tra uomo e natura e tra uomo e dimensione femminile in generale. Merchant, antesignana di questo filone di indagi- ne, individua nel passaggio, realizzatosi con la rivoluzione scientifica, da una visione organi- cistica del mondo a quella del mondo come macchina il momento in cui si è prodotta la scis-

sione culturale tra uomo e donna. A parere della studiosa, l’atteggiamento di dominio sulla natura scaturito da questa concezione del mondo avrebbe prodotto anche l’atteggiamento di dominio dell’uomo sulla donna, dal momento che la natura, nutrice e madre, è tradizional- mente connessa all’elemento femminile. Per uscire da una simile logica sarebbe dunque ne- cessario un mutamento dei rapporti in questione, secondo un progetto di emancipazione da una dimensione produttivistica a favore di un’etica della partnership . 35

Keller (1978, 1985), da parte sua, rifacendosi a teorie psicoanalitiche, ritiene che l’esigenza dell’oggettività risponda a caratteristiche specifiche della personalità maschile, desiderosa di affermare la propria identità e la propria autonomia attraverso il distacco ad un tempo dalla natura e dal modello femminile. Per questa via, e attraverso l’analisi della concezione baco- niana della scienza come insieme di conoscenze tecniche volte ad agire sulla natura per mi- gliorare le condizioni di vita degli uomini, la studiosa individua anch’essa una relazione tra il rapporto uomo-natura, con le sue declinazioni epistemologiche, e quello uomo-donna.

Le posizioni rapidamente prese in esame – pur segnate, come è stato evidenziato (Tanesini 2009, p. 115), da limiti intrinseci e muovendo da premesse teoriche diverse – dimostrano come la relazione tra oggettività e genere sia stato un tema centrale delle riflessioni epistemo- logiche a partire dagli anni Ottanta del Novecento, che ha posto, e continua a porre, quesiti importanti non solo alla scienza ma anche alla società da cui questa si origina.