• Non ci sono risultati.

Il significato del maschile e del femminile nelle parole

CAPITOLO 2. La riflessione di genere sul linguaggio

3. Linguaggio e genere: un nodo da sciogliere

3.2 Il significato del maschile e del femminile nelle parole

La seconda questione da dirimere nell’affrontare il tema del rapporto fra linguaggio e genere è se, e come, donne e uomini usino il linguaggio in maniera diversa. Successivamente alla già menzionata riflessione di Lakoff, molti studi empirici hanno contribuito a evidenziare i tratti caratteristici del parlare femminile, talvolta focalizzando l’attenzione su precise occasioni comunicative58, accumulando un vasto repertorio di dati che, nel corso del tempo, sono stati variamente letti. Gli studi femministi hanno infatti portato all’elaborazione di quattro modelli – che possono essere parzialmente ricondotti ad altrettante fasi del movimento – attraverso i quali interpretare l’influenza delle disuguaglianze di genere sul linguaggio.

Il modello del deficit si ricollega strettamente alle teorie di Lakoff degli anni Settanta se- condo cui, come già osservato, la condizione di marginalità femminile sarebbe riflessa in un linguaggio, tanto quello parlato da loro quanto quello adoperato per riferirsi ad esse, che sug- gerisce insicurezza, incertezza e scarsa autorevolezza. Nel già citato Language and women’s place, il linguaggio delle donne si collocherebbe dunque in una posizione deficitaria e svan- taggiata rispetto a quella degli uomini, e proprio per questo motivo Lakoff è stata oggetto di critiche interne al femminismo stesso, sotto l’accusa di aver considerato il registro femminile come una devianza rispetto allo standard maschile e, di conseguenza, di aver riprodotto pro- prio quegli stereotipi androcentrici che si cerca di sradicare . 59

È interessante notare come, in tempi recenti, si sia assistito alla nascita di un nuovo model-

Ricordiamo per esempio la ricerca di Elinor Ochs e Carolyn Taylor, confluita nell’articolo The “father

58

knows best” dynamic in dinnertime narrative (1995) concentrano l’attenzione sull’uso da parte delle madri ame- ricane della formula father knows best per sottolineare il ruolo dell’uomo di capofamiglia e figura di riferimento alla quale spetta il giudizio delle azioni dell’intera famiglia. Cfr. anche Bianchi 2009.

Va detto che la stessa Lakoff si mostra consapevole del rischio che le sue tesi vengano interpretate in que

59 -

sto senso, anche perché la sua analisi si fonda più sull’introspezione e l’osservazione personale che su una vera e propria indagine empirica organizzata. E dunque chiarisce: «When I say that these features “characterize” wo- men’s speech, I mean that a women in this culture is expected to speak this way» (Lakoff 1977, p. 225). Il fatto che Lakoff si riferisca al linguaggio che ci si aspetta che le donne usino è testimoniato anche dall’uso consape- vole e ripetuto di espressioni quali «the ways women are expected to speak», «…are taught to speak», tanto in Language and women’s place quanto nell’omonimo articolo del 1973 di cui il volume costituisce un ampliamen- to.

lo del deficit, che vede questa volta gli uomini occupare una posizione di svantaggio, a causa di una minore abilità nel servirsi del linguaggio per intrecciare relazioni interpersonali: «In the new deficit model, it is men who are represented as deficient, and women whose ways of speaking are frequently recommended as a model for them to emulate» (Cameron 2003, p. 454). Deborah Cameron giudica questo cambiamento non tanto come il prodotto di qualche alterazione sensibile della relazione fra uomini e donne, quanto come il riflesso di una modifi- ca delle nostre considerazioni e aspettative sul linguaggio stesso: «A product of changing ideals concerning language itself - what it is for, and what constitutes skill in using it» (Came- ron 2003, p. 454). I cambiamenti sociali avvenuti nella società occidentale contemporanea – prosegue la studiosa – hanno comportato una rivalutazione di stili linguistici tradizionalmente associati alla “femminilità”, come la tendenza a privilegiare un’interazione comunicativa, senza tuttavia che questo implichi un’effettiva valorizzazione femminile.

Il modello del dominio, per il quale si fa riferimento a Spender (1980), autrice del saggio Man made language (1980), considera il linguaggio come una creazione del patriarcato in quanto gruppo sociale dominante: «Males as the dominant group, have produced language, thought and reality» (p. 143). La studiosa australiana sostiene, conducendo all’estremo l’ipo- tesi di Sapir-Whorf, che il linguaggio determini i limiti del nostro mondo, che la stessa espe- rienza sociale non sia altro che linguaggio: perciò, afferma provocatoriamente, quest’ultimo non si limita a riflettere il sessismo presente nella società bensì lo crea. Perciò, è vano ogni tentativo di utilizzare questo linguaggio per esprimere un concetto che non abbia l’uomo come protagonista, anzi: anche la semplice articolazione di un’immagine alternativa è diffi- coltosa. La teoria di Spender sottende un esasperato determinismo che comporta eccessiva staticità nella considerazione delle relazioni comunicative attraverso cui si esprime il potere degli uomini sulle donne, tuttavia, come rileva Bianchi, «[mantiene] una sconfortante attualità se declinata a proposito di termini come “sesso”, “maternità” o “lavoro”» (Bianchi 2009, p. 91).

Se gli studi di Lakoff e Spender si sono maggiormente concentrati sulle caratteristiche del linguaggio femminile riconducibili al lessico o alle modalità del discorso, i modelli successivi spostano l’attenzione piuttosto sulle dinamiche che regolano i rapporti fra i meccanismi lin- guistici e le relazioni sociali. Diviene più caratterizzato il riferimento non alla categoria biolo-

gica di sesso, ma a quella sociale di genere che, declinata assieme ad altri fattori di disugua- glianza – classe sociale, etnia, fascia di reddito – si traduce in un minor “diritto di parola”.

Il modello della differenza che diviene prominente negli anni Ottanta del XX secolo ri- conduce la differenza fra linguaggio maschile e femminile al fatto che uomini e donne vivono in quelle che possono essere considerate vere e proprie sottoculture distinte e, fin dall’infan- zia, vengono educati a ruoli diversi: perciò la loro interazione è costellata da malintesi e frain- tendimenti che sfociano spesso in un fallimento della comunicazione. Questo paradigma di- viene molto popolare negli Stati Uniti, soprattutto grazie al saggio divulgativo You just don’t understand (1990), in cui l’autrice Deborah Tannen lo adopera per giustificare la diversità del- lo stile discorsivo maschile e femminile: gerarchico e concorrenziale, focalizzato sui fatti il primo; più collaborativo, concentrato di preferenza sulle relazioni il secondo.

È facile immaginare che questo modello teorico non incontra il favore del movimento femminista, poiché interpreta come meri fenomeni-cross culturali quelli che in realtà sono tentativi di prevaricazione. Emblematico è l’esempio rappresentato dall’abitudine maschile di interrompere l’interlocutrice, che per le studiose di matrice femminista è il sintomo di una vo- lontà di dominio e testimonia che uomini e donne non godono di pari diritti di espressione (cfr. l’articolo di Mary Talbot “I wish you’d stop interrupting me!” Interruptions and asym- metries in speaker rights in equal encounters’, del 1992) mentre nel saggio di Tannen Con- versational style. Analyzing talk among friends (1984) segnala semplicemente un forte coin- volgimento nella conversazione. Tannen non esprime alcun giudizio di valore sui diversi stili comunicativi ma omette di notare come, nella realtà, ci si aspetti dalle donne che imparino a capire gli uomini, e non viceversa. In altre parole, viene obiettato che, se anche in linea di principio fosse vero che uomini e donne sono “diversi ma uguali”, i primi conservano comun- que un’egemonia di genere che consente loro di non sforzarsi di modificare il proprio stile, demandando alle seconde ogni adattamento finalizzato all’efficacia comunicativa. Il fulcro della critica al modello della differenza risiede proprio nell’accusa di descrivere le differenze fra i diversi stili comunicativi senza di fatto ricercarne le cause e le conseguenze, e in partico- lare ignorando il ruolo delle dinamiche di potere sociali nella loro costituzione e perpetuazio- ne, «con il risultato che non si lascia spazio all’idea di un dominio non intenzionale, messo in atto non dall’individuo ma dal suo ruolo sociale» (Bianchi 2009, p. 93).

Il modello del dominio e quello della differenza corrispondono a due fasi ben riconoscibili del movimento femminista: quello della denuncia dell’androcentrismo che affligge la società e quello della celebrazione della tradizione culturale delle donne.

Infine, il modello dinamico o performativo, riconducibile al già menzionato lavoro della Butler e in particolare ai suoi saggi Gender trouble. Feminism and the subversion of identity (1990) e Bodies that matter (1993), pone l’enfasi su come uomini e donne sono costruiti at- traverso il linguaggio e il discorso. Questo paradigma può essere compreso entro il post-strut- turalismo femminista, nella misura in cui contesta la tradizionale opposizione binaria fra iden- tità di genere prefissate e stabile ed è interessato, piuttosto, a una molteplicità di identità, e conseguenti comportamenti linguistici associati. Il genere, secondo Butler, non è dato, né è qualcosa che “siamo”, bensì qualcosa che “creiamo”, in un continuo processo di negoziazione che costruisce e modifica incessantemente i concetti di femminilità e mascolinità. Dunque, ciò che spesso era stato considerato un aspetto “naturale” dei rapporti fra uomini e donne acquista un carattere culturale, viene “de-naturalizzato” (cfr. Bianchi 2009, p. 94). Il linguaggio nella sua dimensione performativa (cfr. Austin 1962) riveste un ruolo fondamentale all’interno di questa dinamica, poiché i diversi ruoli sociali che gli individui si trovano a ricoprire sono co- stituiti da discorsi – «corpi di conoscenza e di pratica costruiti storicamente, che danno forma agli individui, conferendo loro posizioni di potere o di subordinazione» (Bianchi 2009, p. 94) – e perciò proprio sul linguaggio deve incentrarsi l’attenzione del femminismo, nel suo inten- to di comprendere, per combatterli, i meccanismi di oppressione. Un tipico esempio di costru- zione discorsiva delle identità di genere riguarda la maternità, da sempre al centro di moltepli- ci linguaggi – e in particolare quello medico – che hanno inciso pesantemente sull’identità sociale delle donne e sono assurti a norma cui uniformarsi.

Come si può ben immaginare, questa suddivisione in modelli differenti rappresenta una sensibile semplificazione del quadro teorico del femminismo: in realtà, le varie posizioni si sono di volta in volta intersecate e sovrapposte, sia dal punto di vista concettuale che cronolo- gico. Va inoltre perlomeno ricordato – come fra Talbot – che il modello del dominio e quello della differenza possono essere visti come complementari e possono essere condivisi simulta- neamente:

On the one hand, men and women are socialized into male and female subcultures. On the other hand, social relations, being patriarchal, affect men and women differently and in men’s favour (Talbot 1998, p. 132).