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CAPITOLO 7. Conclusioni

2. Gli esiti

Le interviste raccolte e commentate nel cap. 6, fotografando in un certo senso questa ambigua fase di transizione, confermano una situazione ancora molto problematica per quanto riguarda una parità di genere che sembra ancora lontana. Dalla nostra analisi emerge infatti con una certa chiarezza che le scienziate interpellate si sono mosse e si muovono in un ambiente pe- santemente plasmato dal punto di vista maschile: sono state uno sparuto gruppo di studentesse in classi quasi esclusivamente maschili; si sono sobbarcate noiosi incarichi burocratici e han- no preso parte a riunioni e comitati in cui hanno faticato a far sentire la propria voce, lascian- do ai loro colleghi uomini il tempo di dedicarsi indisturbati alla ricerca; nel frattempo, hanno sacrificato i loro spazi personali per dedicarsi anche alla famiglia, in un continuo tentativo di

non trascurare nessun aspetto della loro multiforme esistenza. Hanno dovuto fare appello alla loro grinta e alla loro determinazione per non soccombere nelle situazioni sfavorevoli.

Ma questo ritratto, in un certo senso, non fornisce informazioni originali, perché è coerente con le cifre già note, indicate dalle molte indagini del settore – una per tutte, il report già più volte menzionato She figures 2015, l’utilissimo strumento da cui abbiamo tratto molte delle informazioni riportate anche in questa Dissertazione. Dopo aver analizzato le interviste, ci siamo domandati: quanta consapevolezza di questa perdurante condizione di disparità esiste nelle scienziate intervistate?

Naturalmente, il nostro obiettivo non poteva essere quello di fornire una risposta definitiva a questo interrogativo, bensì restituire le storie raccolte provando ad accedere “dal di dentro” alle esperienze narrate. Abbiamo anche cercato di “incrociare” il contenuto di senso dei loro racconti – il significato delle parole, così come l’uso di formule in alcuni casi sintetiche, in altre perentorie, di avverbi che possono esporre emotivamente il parlante o al contrario celar- lo, i giudizi implicitamente o esplicitamente espressi… – con il loro significato “oggettivo” e con i dati quantitativi forniti – per esempio, il numero di studentesse nei corsi di studio fre- quentati, le ore lavorative quotidiane, le settimane di astensione dal lavoro in occasione della maternità, il numero dei figli –, e questo ha messo in luce alcuni aspetti meritevoli di rifles- sione.

Iniziamo con il sottolineare come, nella traccia di intervista proposta, si alternassero do- mande che comportavano un resoconto di eventi o circostanze – per esempio, Have you ever had obstacles in your career? If so, of what kind? oppure Have you never had interruptions in your professional path? Why? – con altre che richiedevano di esprimere un’opinione persona- le o di raccontare un’esperienza di vita vissuta che non poteva non essere esclusivamente sog- gettiva – come What are, in your opinion, the main characteristics that a woman should have to pursue a scientific career? Oppure What has been your reaction after receiving the Award? La prima tipologia di domande implica una valutazione apparentemente oggettiva di fatti, nel- la misura in cui accettiamo il presupposto di condividere un unico concetto di “ostacolo” o di “interruzione” (per rimanere circoscritti agli esempi proposti) ed ha mediamente ricevuto ri- sposte monocordi e lapidarie, per esempio quasi il 63% delle intervistate ha fornito la secca informazione di non aver mai interrotto il proprio percorso professionale. Eppure, nelle rispo- ste ad altre domande meno dirette, sono emersi scenari ben più problematici, che lasciano in-

tendere le molte sfaccettature di una situazione troppo complicata per essere rappresentata in maniera lineare e gli sforzi sicuramente richiesti per gestirla con successo, sforzi raramente descritti e meno ancora esplicitamente documentati.

Abbiamo già commentato nei dettagli questo fenomeno nel cap. 6 e ci limiteremo qui pertan- to a concludere osservando che talvolta, dunque, il racconto delle scienziate della propria espe- rienza offre una prospettiva singolare, a tratti disorientante. Naturalmente, non si vogliono az- zardare generalizzazioni improprie, inoltre bisogna comunque tener presente che le intervistate sono parte di un’élite culturale, per l’eccellenza delle loro ricerche e per la posizione da loro ricoperta nel panorama scientifico e civile internazionale. Senza contare che è un fatto ampia- mente documentato che la segregazione di genere si espliciti in maniera meno severa nei gruppi professionalmente più qualificati che nella massa dei ricercatori (cfr. Meulders et. al 2010bis). Ma non possiamo fare a meno di domandarci se, in effetti, siano pure i parametri di giudizio di queste eccezionali protagoniste ad essere genuinamente straordinari, oppure non siano stati an- ch’essi plasmati dall’ambiente circostante, che ha influenzato con i suoi impliciti presupposti la scala di valori condivisa. Il peso di certe scelte è stato davvero percepito come lieve, oppure si dà per scontato che vadano fatte? Si può veramente considerare “normale” – intendendo: che serve a dare norma, e non già come consueto, ché questo già lo sappiamo grazie alle statistiche le quali confermano che, in effetti, sì: la consuetudine è proprio quella – potersi concedere solo un periodo di maternità di sei settimane e non vedere in questo un ostacolo? È “normale” am- mettere che la scienza sia dominata dagli uomini e contemporaneamente giudicare che i requisi- ti richiesti a una scienziata siano gli stessi richiesti a un collega maschio? Se è “normale”, forse è perché la norma restituisce il senso di una mentalità androcentrica e non ce ne rendiamo anco- ra completamente conto. Come abbiamo già osservato, è quasi impossibile mantenersi in equili- brio in un contesto strutturato a misura d’uomo senza adeguarvisi, almeno in parte.