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Raggiungo Shirin sul gradino della porta. Intravediamo delle sagome da lontano. Uomini armati. Stringiamo forte i bambini a noi. È finita. Siamo cadute in trappola. Stiamo per ricadere nelle loro grinfie.

Ma quando gli uomini si avvicinano, riconosco alcuni di loro. Sono degli abitanti di Kocho, sono yazidi! Sono venuti a cercarci. All’improvviso dimentico tutta la fatica e il dolore.

-Sara! Shirin! Vi abbiamo ritrovato finalmente! Urla senza fiato uno dei miei vicini. È Jotyar, il figlio di un amico di mio padre che ha raggiunto la milizia della montagna.

Piangiamo di gioia. Jotyar non riesce a trovare le parole.

-Vi abbiamo cercato dappertutto, abbiamo intravisto da lontano un gruppo di donne che camminava in una valle. Eravate voi!

Ci offrono delle bottiglie di acqua. L’acqua fresca che riempie la nostra bocca è una sensazione divina. Poi, i nostri angeli guida ci scortano per strada, là dove gli abitanti del villaggio hanno lasciato le loro macchine.

All’improvviso, si abbatte su di noi una pioggia battente, come se fossimo maledetti. Sono le 13 e ci nascondiamo nelle macchine fino al mattino del giorno dopo. Quando diventa giorno, ripartiamo a piedi tra le pozzanghere di fango.

Gli uomini portano i bambini in braccio. Uno di loro guida un trattore per trasportarci, ma il terreno in salita è estremamente scivoloso. Il trattore slitta e ripetutamente non riesce a girare. Ci aggrappiamo come possiamo sul retro con i piccoli. Non arriveremo mai vivi.

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Dopo un’ora, scorgiamo da lontano la cupola conica di un tempio yazidi. È il villaggio di Sinouné, il quale ospita il mausoleo del Santo Sharafudin. Siamo riusciti a fuggire dal territorio islamico, siamo salvi.

I miliziani ci fanno sistemare in un immenso edificio luminoso ammobiliato con la canapa. Ai vecchi tempi, era la casa destinata a ospitare i pellegrini venuti a visitare il mausoleo. Il gruppo armato che protegge il villaggio ne ha fatto il proprio quartier generale.

Il capo della milizia ci rende visita. Si chiama Qassim Shesho. Baffi spessi e voce cavernosa. È il grande resistente del Sinjar. Qassim Shesho è un veterano di guerra, aveva già combattuto contro Saddam Hussein conducendo una guerriglia nei pressi delle montagne negli anni Ottanta. Poi in seguito ha vissuto in Germania.

Quest’estate, durante l’attacco dell’ISIS, Qassim era nel suo villaggio di Sinouné. E invece di fuggire, ha preso le armi con l’aiuto di un piccolo gruppo di uomini e ha tenuto testa ai combattenti del Califfato. Ci accoglie con benevolenza. Fa portare del tè, dell’acqua, e cioccolato per i bambini. Si lamenta:

-Lo stato islamico è figlio di Saddam Hussein e di Al-Qaida. Hanno armi pesanti, ma nessun coraggio. Se io avessi avuto delle buone armi, avrei preso il Sinjar in due giorni!

In un campo a valle giace la carcassa di una macchina carbonizzata, gli yazidi sono riusciti a distruggerla prima che facesse ingresso nel villaggio.

La moglie di Qassim Shesho ci dà un balsamo per mettere in ammollo i nostri piedi feriti. Le mie dita sono nere e viola, riesco a malapena a camminare. Mi fa male tutto il corpo, mi sento come se avessi cent’anni. Alcuni abitanti del villaggio ci preparano da mangiare. Il nostro vero primo pasto dopo un’eternità. Delle focacce appena uscite dal forno. Il profumo del pane tiepido. I bambini saltano di gioia vedendo arrivare un piatto di pollo grigliato. È una vera festa. Banchettiamo come mai prima d’ora.

* * *

Una volta sfamati, ci portano con un pick-up sulla cima della montagna. Lì c’è un campo di rifugiati, e anche una clinica sotto una tenda con dei medici. I miliziani ci indicano una tenda vuota dove poter dormire. Dopo queste ultime settimane di orrore e incertezza, assaporo finalmente il sapore della libertà.

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Ma nel bel mezzo della notte, risuonano degli spari. Sento delle urla. L’ISIS attacca di nuovo il villaggio di Sinouné. Tutti gli uomini si precipitano fuori, armi alla mano. La nebbia spessa cade sulla montagna. La milizia riesce a respingere l’attacco.

Il giorno dopo, piove senza fine. La pioggia non finirà mai di cadere... Il capo della milizia è affranto per noi, ma l’elicottero che assicura il collegamento con Dohuk non può arrivare in queste condizioni. Siamo così arrabbiati. E così impazienti di rivedere Azad e gli altri membri della famiglia.

Finalmente, dopo cinque giorni, ritorna il sole, e sentiamo il rumore del motore dell’elicottero. Si ferma in un vortice di polvere. Saliamo a bordo insieme ai bambini.

Ma quando l’elicottero decolla, sentiamo di nuovo degli spari. Una delle pale è stata colpita di sguincio. Il pilota urla che malgrado tutto continueremo per il nostro tragitto, l’elicottero sembra reggere il colpo. Intravedo dei campi dorati e i villaggi rasi al suolo, le nostre sacre montagne che si allontanano. Una nuova vita comincia da qui, da questo cielo.

* * *

Trenta minuti più tardi arriviamo alla base. Riconosco da lontano Azad che ci aspetta sulla pista. Sono in uno stato di trance, come se questo momento fosse surreale. Ho come l’impressione che siano trascorsi anni interi da quando ho visto mio fratello per l’ultima volta. Era estate, eravamo in famiglia a Kocho, gli parlavo del mio matrimonio...

Azad piange dalla gioia, abbraccia Shirin e suo figlio, ci stringe tra le braccia con tutte le sue forze. Il suo volto sembra invecchiato, le sue rughe sono più marcate, ha l’aria esausta. Era così impaziente di ritrovarci, ha maledetto anche lui questa eterna pioggia:

-In questi ultimi giorni non ho fatto altro che osservare il cielo pregando che la pioggia si fermasse, non vedevo l’ora!

Ho quasi dimenticato tutta la fatica, la corsa per la fuga, i piedi feriti. Quello che mi preoccupa, è il destino dei nostri cari scomparsi, coloro che sono ancora prigionieri. Tempesto Azad di domande. Sa dov’è nostro padre? E nostra madre? Azad sembra terribilmente abbattuto. Dice che non ci sono notizie. Yasmine ha chiamato? Non ha dato alcun segno di vita, neanche Seve. Sono state sicuramente portate in Siria.

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Mantengo il silenzio durante il tragitto, persa tra i miei pensieri. Perché dobbiamo subire tali atrocità? Non pensavo neanche di uscirne viva. Quegli uomini sono dei mostri, delle macchine senza cuore.

Azad non si capacita del fatto che siamo finalmente qui con lui, in pelle e ossa al suo fianco. Ci racconta di aver fatto di tutto per farci uscire dal villaggio dove eravamo nascoste. Invano. Nessuno dei suoi contatti voleva prendersi il rischio.

Dopo la metà del mese di agosto, ha vissuto qua e là, ospitato da persone sconosciute oppure dormiva in case disabitate. Trascorreva le notti intere ad aspettare delle chiamate. Quando gli dissi che stavamo per fuggire, restò due giorni interi attaccato al telefono. È così contento che ce l’abbiamo fatta.

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