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Quando sono nata la mia famiglia era già molto numerosa. A casa nostra vivevano i miei nonni paterni, mia zia Keyal, i due fratelli minori di mio padre, non ancora sposati, e poi soprattutto i miei sette fratelli e sorelle. Io sono l’ottava figlia.

I miei genitori ebbero prima tre figli maschi, poi quattro femmine. Quando mia madre mi portava ancora in grembo sperava che io fossi un maschio. Nel nostro paese si preferiscono i maschi: per la nascita di un figlio mio nonno sacrificò una pecora, per una figlia non fu fatto alcunché.

La mia famiglia fu comunque molto felice, e mia madre afferma tuttora che in realtà è meglio avere delle figlie visto che restano accanto alle madri, le quali invece vengono dimenticate dai maschi quando questi si dedicano alle mogli.

Mio fratello più grande doveva avere già 16 anni quando nacqui io. Non conosciamo con esattezza la nostra data di nascita non essendoci alcun certificato che lo attesti. So semplicemente di essere nata in primavera, molto probabilmente nel 1986. Un anno dopo la mia nascita ci fu Kovan, poi qualche anno dopo un altro fratello, Sangar, e infine mia sorella Yasmine.

Ricordo ancora la gran festa per celebrare la circoncisione di mio fratello minore Sangar. Mia madre preparò il mio piatto preferito, il biryani con il pollo. È un piatto di riso fatto con gli anacardi, l’uvetta, alcune spezie e gli sfilacci di pollo; la casa era riempita dal suo profumo. Tutta la famiglia del villaggio presenziava vestita a festa: i miei zii e zie, i miei cugini, ma anche tutti i vicini e i più stimati della comunità. All’incirca un centinaio di invitati.

Con un gesto solenne mio padre mise Sengar sulle ginocchia del suo parroco, un arabo musulmano di una tribù vicina, incaricato di tenerlo in braccio durante la sua circoncisione. Il sacerdote yazidi tagliò allora il prepuzio con una lama da rasoio, e mio fratello urlò per il dolore.

Il sangue del bambino che macchia la tunica del sacerdote rappresenta il legame che li unirà. Il sacerdote scelto per la circoncisione è generalmente un musulmano. È un modo che usano gli yazidi per creare un legame simbolico con una famiglia musulmana, una tradizione importante per noi che siamo una minoranza. Gli uomini della mia famiglia, quindi, hanno tutti dei padrini arabi sunniti nei villaggi vicini.

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I miei genitori si sono sempre amati molto. Si conoscono da quando erano giovani. Erano vicini di casa. Mio padre è un uomo robusto e arzillo, forte, dai baffi fieri, e mia madre è una donnina molto bella, molto affettuosa ed energica, ama i piaceri della vita, come bere una bella birra fresca in estate. Come tutte le donne del villaggio, è madre a tempo pieno. Ha cresciuto i suoi undici figli e si è sempre occupata della casa. Di primo mattino prepara delle frittelle creando un impasto di farina ed acqua che poi arrotola formando delle palline. La farina viene prodotta con il grano delle nostre terre. Da noi il grano viene seminato all’inizio di febbraio, dopo la fine dei “quaranta giorni d’inverno”, un periodo sacro che comincia a metà dicembre e termina a fine gennaio, durante il quale i sacerdoti yezidi digiunano fino al calar del sole. In questi quaranta giorni non cresce nulla, si dice che la terra dorma. Quando ritornano le belle giornate, i campi sono seminati e si dà inizio al raccolto che dura fino a maggio. La mietitura è una grande festa: prima che la farina sia aggiunta nei sacchi, questi vengono portati dal mietitore, il quale macina il grano con il mulino elettrico. Il grano è alla base del nostro nutrimento: serve a fare il pane, la semola e il blé cassé. Mia madre dapprima lo fa bollire all’interno di grandi bollitori, poi lo lascia seccare per due giorni sul tetto nella terrazza di casa. Poi tutte le mattine controlla la mungitura degli ovini. Possediamo un gran gregge di pecore, dal quale ne ricaviamo la lana e la carne, e vendiamo poi il latte e lo yogurt. Mia madre baratta il burro fresco fatto a mano, e in estate per il pranzo prepara delle bibite rinfrescanti fatte con yogurt, aglio, sale, cetriolo e aneto.

Le nostre terre si estendono per diverse centinaia di ettari. La maggior parte degli abitanti del villaggio possiede grandi proprietà terriere. Il nostro villaggio è così prospero che la gente del posto lo considera un “piccolo Kuwait”. Disponiamo dell’elettricità e dell’acqua corrente grazie ad un pozzo molto profondo che funziona grazie ad una pompa elettrica. I campi invece vengono irrigati con un pozzo a motore. Abbiamo degli agricoltori che lavorano nella nostra proprietà, mi salutano sempre quando passano sul trattore.

Nelle nostre terre facciamo crescere l’orzo, il grano, i pomodori, le patate, le cipolle, il cocomero, l’aglio, le olive... i nostri campi e i nostri orti sono ricchi di ogni cosa. Nella nostra tenuta siamo anche pieni di animali: cani da guardia per proteggere la casa, asini per trasportare i raccolti, galline per le

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uova, colombe, oche, anatre, tacchini e conigli... Ci sono anche degli animali da compagnia, che possono però finire ugualmente in pentola come menù speciale per gli invitati.

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La scuola qui è obbligatoria a partire dai 7 anni, ma io non ho potuto continuare a frequentarla a lungo. Da piccola guardavo con invidia i miei fratelli e le mie sorelle che ogni mattina alle 7:30, cartella sulle spalle, partivano per raggiungere la scuola. Poi finalmente arrivò il mio turno.

Ricordo ancora il mio primo giorno, ero talmente felice! Per l’occasione, mia madre mi aveva preparato un bel vestito a fiori e intrecciato i capelli con un nastro. A scuola non si portavano uniformi, gli studenti potevano vestirsi con i propri abiti tutti i giorni. Accompagnai con fierezza i miei fratelli e le mie sorelle facendo un segno di addio a mio fratello minore Kovan, il quale era in lacrime vedendoci partire. A scuola avevo ritrovato molti bambini del villaggio, vicini e cugini.

Le classi erano miste, ma io facevo amicizia soprattutto con le ragazzine; mi feci delle amiche, Rana e Shukriya, sedute accanto a me in classe. Essendo curdi, i nostri professori insegnavano in curdo, anche se ufficialmente la scuola era in arabo. Gli insegnanti davano delle bacchettate sul palmo della mano agli studenti disattenti, ma io ero piuttosto brava.

La scuola terminava dopo pranzo, io rientravo a casa e mi sedevo su un tappeto per giocare a carte e a backgammon con mio fratello Azad e le mie sorelle. Trascorrevamo l’intero pomeriggio a giocare come scalmanati. A volte mia madre ci accontentava e ci raccontava delle storie. A quel punto ci sedevamo in cerchio attorno a lei per ascoltarla meglio, mentre lei smistava le lenticchie in un piatto, per togliersi i piccoli calli dalle mani secche come pergamena.

Solo raramente, quand’era in vena, era mio padre a raccontarci la storia dell’eroe Daoud Daoud : “Una volta i nostri avi vivevano nell’Impero Ottomano. Ma quando quest’ultimo fu frastagliato in tanti paesi, la nostra regione del Sinjar fu unita all’Iraq, e fu istituita una nuova Repubblica. Nello stato appena formatosi tutti dovevano fare il servizio militare, ma gli yazidi ne erano dispensati grazie ad un decreto reale dal 1849. Come da imposizione da Bagdad, gli yazidi domandarono la creazione di un’unità speciale yazidi, ma tale richiesta venne rifiutata Daoud Daoud, un capo locale, lanciò allora una rivolta contro il regime. Ma la repressione fu terribile, i villaggi furono bruciati e gli abitanti deportati. Daoud Daoud fu costretto a fuggire in Siria. “

Io mi addormentavo sognando il nostro eroe yazidi.

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Dopo il mio ultimo anno alla scuola primaria, mio padre mi annunciò che avrei smesso di andare a scuola. La scuola secondaria più vicina era a 30 km dal villaggio e la strada era problematica, poichè era percorribile solo a piedi e ci sarebbero volute 6 ore... E visto che non si poteva fare tale tragitto ogni giorno, mio padre decise che sarei rimasta a casa. Per me era una grande ingiustizia. Desideravo diventare professoressa ed invece il mio sogno andava in mille pezzi.

È pur vero che il livello della nostra scuola non era così alto: i professori avevano un salario basso, erano quindi costretti ad avere un secondo lavoro per sopravvivere e non potevano assicurare sempre la loro presenza ai corsi. Dunque la maggior parte delle famiglie preferì che i loro figli cominciassero a lavorare il prima possibile.

Avevo implorato mio padre, ma egli replicò dicendomi: ”è più importante che tu stia a casa ad aiutare. E poi, cosa credi di fare in più con un diploma? Vorresti un salario ridicolo da professore? È un mestiere troppo mal pagato”.

I miei fratelli minori, Sangar e Kovan, invece, essendo ragazzi, poterono continuare i loro studi: furono mandati a vivere da uno zio di mio padre, il quale abitava in un villaggio che disponeva, invece, di una scuola secondaria.

Prendevo allora coscienza del fatto che la mia vita sarebbe stata molto monotona. Anche mio fratello Azad lasciò la scuola a soli 12 anni, con suo grande rammarico. Iniziò a lavorare nella fattoria di mio padre: guidava i trattori e impastava mattoni di argilla.

Tre delle mie sorelle maggiori erano già sposate. Mia sorella Dalya aveva lasciato casa all’età di 16 anni con Raman, il suo sposo, di quindici anni più grande. Raman aveva insistito molto per avere la sua mano e Dalya finì per accettare anche se all’inizio non era interessata. Era molto benestante e la trattava con rispetto. Ciononostante, lei mi consigliò di non sposarmi troppo giovane. Dalya era dell’idea che il matrimonio implicasse tante responsabilità, soprattutto con la nascita dei bambini.

Ormai non mi rimaneva che restare a casa e aspettare il giorno delle mie nozze. Sarebbe potuto essere tutto diverso se il governo avesse aperto una scuola secondaria nel mio villaggio. Fu così che molti bambini furono costretti a dire addio ai loro sogni, a causa della negligenza dello Stato nei confronti degli abitanti della regione del Sinjar.

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