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Nell’estate del 2014, dopo l’arrivo dell’ISIS a Mosul, la situazione peggiorò. Mio fratello Azad, che lavorava in un hotel a Erbil, ci raccontò di aver litigato con dei clienti, degli arabi sunniti originari del Tikrit, la città natale di Saddam Hussein. Questi ultimi affermavano che il capo dell’ISIS, al-Baghdadi, fosse il nuovo profeta, e che avrebbe sconfitto il Primo Ministro iracheno Nouri al-Maliki, il quale invece era sciita e troppo vicino all’Iran.

Azad pensava che questi combattenti sunniti dello Stato Islamico fossero dei perversi e dei fanatici. Ma furono in molti tra gli abitanti di Mosul ad accogliere tali terroristi. Aiutarono l’ISIS a entrare in città. All’inizio Azad era convinto dell’intervento degli americani per riconquistare Mosul. Ma ciò non accadde. Poco dopo al-Baghdadi fece il suo discorso trionfale a Mosul e annunciò la creazione di un califfato.

I clienti dell’hotel originari di Tikrit si rallegrarono. Qualche settimana dopo, quando l’ISIS fece esplodere la moschea costruita sulla tomba del profeta Jonas, ne furono meno entusiasti. Tentavano di convincersi: “È un complotto! È opera dell’Israele e dell’Iran, non dell’ISIS!”. Gli uomini dell’ISIS, tuttavia, non si sarebbero fermati qui.

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Da quando sono nata il mio paese è stato sempre devastato dalla violenza. Quando non ero che una bambina, la guerra assediava l’Iraq già da sei anni. Nel 1980 il nostro presidente Saddam Hussein attaccò l’Iran con il pretesto di una disputa riguardante le frontiere. Era preoccupato che la rivoluzione islamica di Téhéran non si propagasse; l’Iran difatti chiese agli sciiti iracheni di rivoltarsi contro il proprio regime. Saddam Hussein sperava di fare dell’Iran una potenza gloriosa capace di rovesciare il regime di ayatollah Khomeini con una vittoria netta. Ma la guerra affondò le sue radici.

All’epoca la mia famiglia possedeva una televisione che funzionava grazie alla batteria di un’auto. Sull’unico canale, iracheno e in bianco e nero, scorrevano le immagini dei combattimenti, alla gloria del nostro raïs Saddam Hussein.

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Nel 1986, alla mia nascita, i tempi era ancora molto bui. I corpi dei martiri morti in combattimento venivano regolarmente riportati al villaggio. Quando una macchina sormontata da una bara appariva all’orizzonte si scatenava il panico. Ciascuna famiglia aveva dei figli, dei fratelli, dei cugini inviati al fronte a Bagdad.

L’arruolamento era obbligatorio, ma molti uomini si rifiutarono di andare in guerra. Per coloro che disertavano vi era la prigione o la pena di morte. La sola via d’uscita era unirsi alla guerriglia curda nelle montagne. Il fronte era una carneficina. In due mesi, tre membri della nostra famiglia e sei abitanti del villaggio furono uccisi.

Un giorno, un feretro avvolto con una bandiera irachena fu deposto davanti ad una casa del villaggio. Era un cugino di papà, partito per il fronte. “È morto da eroe”, disse il militare che aveva riportato la bara. “Ha voluto soccorrere un amico ferito, è andato a cercarlo nel bel mezzo dei missili sibilanti. Ma è stato colpito.” Questa guerra ha fatto in tutto, in Iran e Iraq, più di un milione di morti.

Anche mio padre era nell’esercito. Quando si sposò era un autista militare: guidava una Jeep. Un giorno ebbe un grave incidente, ne uscì con dei frammenti di metallo nel corpo. Rientrò a casa pieno di fasciature, la sua convalescenza durò un mese.

In seguito fu inviato due anni a fronte. Ma ben presto ne ebbe abbastanza. Aveva capito che questa guerra non gli apparteneva, che fosse piuttosto “per il petrolio e il territorio” e che “le persone avevano solo da perderci”. Pensava che se fosse morto la sua famiglia si sarebbe trovata nella miseria. Allora disertò anche lui. Fu catturato e messo in prigione per qualche mese. Ma alla fine beneficiò di un armistizio emesso dal governo.

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Nel 1988 avevo due anni, conducevo una vita spensierata da bambina. Passeggiavo a piedi nudi nel giardino della nostra grande fattoria ancestrale, rincorrevo i polli e accarezzavo gli agnelli appena nati.

Fu in questo periodo che alcuni ribelli curdi, con l’aiuto dei guardiani della rivoluzione irachena, presero possesso della città di Halabaja, la quale ospitava 60 000 abitanti alla frontiera con l’Iran. Per Bagdad questi ribelli erano dei traditori. Ali il Chimico, il cugino di Saddam Hussein, lanciò allora degli aerei di caccia pieni di gas tossico per punire gli abitanti di Halabaja. Morirono 5 000 persone.

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Tre quarti tra loro erano donne e bambini. Fu quello che apprendemmo dalla radio. La sera, papà e i suoi invitati si lanciavano in veementi discussioni bevendo tè dolce e fumando sigarette.

Papà sosteneva che il regime di Saddam Hussein era troppo crudele con i curdi. E noi yazidi, costretti a registrarci come arabi, non eravamo riconosciuti ufficialmente. Il partito Baas ci teneva in isolamento e nella povertà. Furono numerosi i villaggi yazidi colonizzati dagli arabi iracheni inviati dal regime. Fu la politica di arabizzazione della regione curda. I villaggi yazidi furono sequestrati e svuotati dai loro abitanti, i quali, ammassati nei campi, venivano sorvegliati e sradicati dalle loro origini.

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Qualche anno dopo, la guerrà ritornò. Avevo 5 anni. Eravamo tutti sempre davanti alla tv e gli adulti erano preoccupati: “Il paese è in fallimento e Saddam Hussein ha inviato le nostre truppe a conquistare il Kuwait.” “Gli americani vogliono attaccare.” “L’esercito iracheno sta saccheggiando le case e bruciando i pozzi di petrolio.” Il nostro raïs appariva sullo schermo, mi faceva paura.

Gli stranieri attaccarono il nostro paese. Si trattava dell’operazione “Desert Storm”, lanciata il 17 gennaio del 1991, un’operazione militare della coalizione internazionale per soccorrere il Kuwait. La guerra durò sei settimane, immergendo il paese sotto un tappeto di bombe. 135 000 persone furono uccise: soldati, civili... Migliaia di persone furono costrette ad abbandonare le loro case.

Quando il fratello minore di mio padre, mio zio Hassan, fu mandato al fronte, aveva solo 17 anni. Fu obbligato a partire per combattere, altrimenti sarebbe stato punito con l’esecuzione. Poco dopo, alcuni vicini ci raccontarono che dei venditori ambulanti, considerati disertori, erano stati fucilati dai soldati iracheni. Noi invece non avevamo più notizie di Hassan da ormai qualche settimana. Si diceva che fosse stato rapito.

Tornò dopo tre mesi: era stato fatto prigioniero. Ormai non era che l’ombra di sé stesso, disse di essere stato “torturato con i chiodi”. Rimase a casa, non potendo continuare i suoi studi. Lui, che era sempre stato così attivo, ora sembrava essere molto invecchiato: soffriva solo a muoversi.

La coalizione condotta dagli americani riuscì a liberare il Kuwait e l’esercito iracheno fu in parte distrutto. Saddam Hussein si vendicò sui curdi del nord, i quali si erano ribellati al suo regime. Inviò degli aerei per bombardare il Kurdistan. Secondo le notizie che papà riceveva dai suoi amici, due milioni di persone erano riuscite ad evitare la catastrofe e si erano radunati al confine con la Turchia,

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la quale invece si rifiutava di aprire un passaggio. Si dice che furono centinaia i bambini che morirono di fame e di freddo. L’esodo fu atroce.

Ma ciò non colpì la regione del Sinjar. Anche se la vita divenne più difficile: fu imposto un embargo sul nostro paese e la nostra valuta crollò. Divenne tutto così caro che arrivammo a conoscere la povertà. I negozianti non avevano neanche più lo zucchero, la gente allora utilizzava i datteri per zuccherare il tè. A volte, non c’era neanche più il tè.

Ben presto gli americani crearono una zona aerea di fermo sulla regione curda. Saddam non poté più inviare i suoi aerei. Nel nord-ovest del Sinjar fu stabilito un governo autonomo del Kurdistan, anche se non era stato riconosciuto da Saddam. Laggiù gli yazidi ritornarono ad essere dei cittadini a pieno titolo, con la libertà di praticare liberamente la propria religione e con un’identità riconosciuta. Ma a causa delle persecuzioni, molti emigrarono in Europa e negli Stati Uniti.

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Nel 2003 gli americani proclamarono davanti al mondo intero che Saddam possedeva delle armi a distruzione di massa. Il 20 marzo attaccarono il nostro paese con una coalizione militare. Bagdad cadde il 9 aprile. La guerra durò due mesi...

Nel nostro distretto del Sinjar, i peshmerga rimossero il drappo di Saddam e issarono al suo posto una bandiera con i colori curdi. Furono spiegate ovunque. Venne bruciato un affresco di Saddam che troneggiava al bordo di una strada. Mio fratello disse di aver visto delle persone che lanciavano delle rose al passaggio dei soldati americani e curdi. Altri, malcontenti, volevano che gli americani se ne andassero via.

Cominciò una nuova era. La quotidianità migliorò. Ci fu la fine delle restrizioni sul commercio. D’altronde, prima per esempio uno non poteva vendere tutte le capre che desiderava, era tutto controllato. Ma ora, come diceva mio padre, si poteva vivere in una democrazia.

“Figli miei, avremo una vita migliore”, ripeteva.

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Alla fine del 2003, subimmo uno shock vedendo in televisione le immagini di Saddam che usciva dal suo nascondiglio, burbero, il volto coperto da una barba grigia. Noi eravamo contenti di esserci sbarazzati di lui, ma nel vederlo conciato in quello stato, come un animale in trappola, provammo uno strano sentimento.

A casa, gli invitati di papà discutevano fumando sigarette. Dicevano che Saddam era un dittatore, che aveva soppresso tutte le libertà. La situazione era poi peggiorata con le guerre e l’embargo: eravamo come in prigione in Iraq. E tutti gli altri paesi attorno approfittarono del nostro sconforto. Siccome non si potevano avere dei passaporti per viaggiare, molti uomini si trasferirono clandestinamente in Germania. La gente aveva il morale a terra, gli insegnanti e gli ingegneri lasciavano il loro lavoro per darsi alla pastorizia. Fu l’epoca dell’imbroglio, occorreva fare del mercato nero per sopravvivere. La televisione satellitare era vietata. Coloro che possedevano un’antenna la nascondevano in un serbatoio di plastica sul tetto, altrimenti la polizia li avrebbe arrestati, e avrebbero potuto anche morire per un crimine del genere!

Uno dei miei zii raccontava che nelle prigioni di Saddam, i prigionieri subivano delle torture orribili. La meno dolorosa era gettare dell’acqua ghiacciata sul detenuto prima di bloccarlo davanti ad un climatizzatore. Si diceva che l’uomo più crudele del paese fosse Oudaï Hussein, il figlio di Saddam. “Creava dei barattoli con dei chiodi”, affermava mio zio, “tagliava le dita e strappava gli occhi. Conoscete la storia del cantante curdo Said Gabari arrestato dai Baatisti perché cantava in curdo per i peshmerga? Alla domanda degli aguzzini: “Preferisci che ti strappiamo gli occhi o che ti tagliamo la lingua?”, rispose: “Strappatemi gli occhi, così posso continuare a cantare.”

Fortunatamente, quel periodo è ormai alle spalle.

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Nel 2005 furono organizzate le prime elezioni democratiche del nostro paese, malgrado la minaccia terroristica. Per la prima volta nella storia fu eletto un presidente curdo, Jalal Talabani.

Saddam Hussein fu impiccato a Bagdad il 30 dicembre del 2006. Dopo la sua caduta furono scoperti molti ossari, nei quali giacevano i corpi di migliaia di curdi.

La Costituzione dell’Iraq riconobbe finalmente il governo autonomo del Kurdistan nel nord del paese, con capitale Erbil. Ma noi siamo tra i suoi confini. La nostra regione del Sinjar, dove vive la maggior parte degli yazidi insieme a una minorità musulmana, resta in disputa tra Bagdad e il governo

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del Kurdistan. I curdi vorrebbero integrare il Sinjar al loro territorio autonomo. A poco a poco, il Partito Democratico del Kurdistan salì al potere nella nostra regione. Questo non piaceva ai nostri vicini arabi. Il paese era ancora scosso dalle guerre civili tra le fazioni sciite e sunnite, e dai gruppi terroristici come Al-Qaida Bagdad è continuamente colpita dagli attentati. Il nostro paese non è mai in pace. Ed ecco che nel 2014 l’ISIS irrompe nell’Iraq occidentale.

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